Il nostro viaggio nel cinema d'autore comincia dall'America
presentandovi "Nebraska" l'ultimo lavoro di Alexander Payne, regista che
si è messo in evidenza qualche anno fa con "Sideways", opera a cui
toccò l'onore di figurare con molte nomination ed un premio per la
migliore sceneggiatura all'edizione degli Oscar del 2005. E sono proprio
il testo scritto unitamente alla performance attoriali i punti
di forza di un cinema che sembra replicare nella messinscena invisibile
e nell'ordinarietà del paesaggio l'ordinarietà dei suoi personaggi. Una
dimensione che Payne accentua utilizzando attori poco glamour e
situazioni minimali che però come per magia danno vita ad un epica del
quotidiano assolutamente originale e capace di caricarsi di una poesia
che nasce dalle contraddizioni dell'essere umano.
Nebraska di Alexander Payne
con Bruce Dern, Will Forte, Stacy Keach
Usa 2013
genere, drammatico
Per rappresentarla Payne si affida al sogno di una vincita impossibile, ed alla convinzione di Woody Grant di averla realizzata dopo aver letto il volantino di una lotteria del Nebraska. Deciso a riscuoterne il premio, Grant si mette in viaggio in compagnia del figlio David che vorrebbe approfittare dell'occasione per conoscere meglio l'attempato genitore.
Se la trama di "Nebraska" ricalca nella struttura on the road precedenti famosi del cinema americano come quelli di "Una storia vera" (1999) di David Lynch, e "A proposito di Schmidt" (2002) dello stesso Payne, in cui il motivo del viaggio si trasforma nel congedo esistenziale di personaggi avanti con gli anni, ed allo stesso tempo diventa la ricognizione sullo stato di salute del paese, bisogna dire che il bollettino del "capitano" Payne non è dei più confortanti. Girato in un bianco e nero elegante e pulito, "Nebraska" si dipana attraverso una serie di quadretti esistenziali e di situazioni singolari (memorabile la scena in cui Grant insieme al fratello che li ha raggiunti decidono di saldare l'antico torto patito dal genitore facendolo però pagare alle persone sbagliate) ambientate ad Hawtorne, cittadina natale del protagonista, dove, in un'immersione agrodolce e vagamente maliconica, Woody si ritrova a tu per tu con parenti dimenticati ed amici di gioventù. Una situazione apparentemente idilliaca che Payne si diverte a sabotare con intarsi invisibili ma efficaci nel denudare alcuni dei miti della cultura americana: dall'istituzione familiare, dipinta come un luogo anaffettivo e disturbante - basti pensare alla petulante consorte di Woody sempre pronta a lamentarsi ed a parlare male degli altri- al sogno americano, depotenziato per il fatto di sapere che il biglietto vincente esiste solo nella testa del protagonista, e sbeffeggiato attraverso la fascinazione dei compaesani di Woody, ignari della verità e disposti a dimenticare le antiche ruggini pur di condividere le fortune del figliol prodigo, per non dire della virilità machile, annichilita da rapporti inesistenti (quello di David, lasciato dalla compagna ad inizio film) o totalmente disastrosi, come accade al protagonista, sposato ad una donna che forse non ha mai amato.
La bravura di Payne è quella di mantenersi in equilibrio tra il riso ed il pianto, e di riuscire con tocco lieve e delicato a far emergere una poetica del quotidiano illuminata dal riscatto di un'umanità donchisciottesca, mortificata e poi risollevata, come capita a Woody in una delle ultime sequenze, quando, demoralizzato dalla consapevolezza della mancata vincita si ritrova poco dopo, rinfrancato e felice, alla guida della jeep che il figlio gli regala per compensare lo smacco. Con l'automezzo al posto del cavallo, e Woody nella parte John Wayne, "Nebraska" fa anche in tempo ad omaggiare il cinema ed in particolare il western, con l'uomo che sfila lungo la via principale di Hawtorne, sotto lo sguardo ammirato ed incredulo dei suoi cittadini. Interpretato da un Bruce Dern formato actor's studio, impegnato in un ruolo che sarebbe piaciuto ai registi della sua generazione, "Nebraska" è un meccanismo perfetto ma non per tutti. L'assenza di glamour degli attori ma anche dell'argomento, il ritmo pacato e quasi immobile, la comicità "dead pan" alla maniera di Jim Jarmush, ed infine un ambientazione laterale e periferica sono una miscela poco adatta alla grande platea. Siamo certi però che imitando le vite dei suoi personaggi anche quella del film troverà il modo di emanciparsi da premesse così fosche. Magari durante la notte degli oscar, magari nella categoria del migliore attore protagonista.
(pubblicata su ondacinema.it)
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