"She, she wanted to be,
a secret girl, in her own world".
- Brad -
L'immaginazione si alimenta di tante suggestioni, non necessariamente nobili (o presunte tali). L'attore in particolar modo - inteso come essere umano che incarna in un ruolo la vita di un altro - esposto per definizione alla curiosità, ai paragoni, all'ammirazione, in sostanza al giudizio, molto spesso diventa il centro di aggregazione (e in ciò il lavorio dei media svolge un compito determinante, tanto da avere intasato gli scaffali della pamphlettistica in materia) di sentimenti contraddittori, che vanno da una sorta di istanza riparatoria di giustizia venata di livore e rivalsa, ad un compassato cinismo che si reputa oramai impermeabile a qualunque sollecitazione. Dall'incredulità circa i risvolti "autodistruttivi" o più o meno "maledetti" di esistenze considerate tanto "dorate", "speciali", quanto aprioristicamente risolte, pacificate; agli immarcescibili sospetti di manovre complottistiche o denigratorie ordite da chissà chi ai danni di colei/colui che per mille motivi - quasi nessuno razionale - abbiamo eletto a paladina/o delle nostre fantasie più segrete.
E' il caso dell'americana Winona Horowitz, in arte Ryder, (e già il nome, Winona, mutuato sic et simpliciter dalla cittadina del Minnesota che le ha dato i natali nell'ottobre del 1971, sembra fatto su misura per il cinema, nonché per stimolare tutta una serie di ghiribizzi associativi, magari ingenui, magari maliziosi ma non per questo più esplicativi), beccata presso i Magazzini "Saks" di Beverly Hills, mentre declinava l'anno di grazia duemila e uno, a praticarsi dei super sconti da sola (leggi "rubare") per una cifra vicina a $ 5000 in capi di vestiario "abbinati" ad una consistente provvista di farmaci. In linea teorica, apriti cielo ! Un po' di bocche a culo di piccione, intemerate un tanto al chilo ed altrettanti bla, bla. Come quasi sempre accade, poi, "aggiustare", "(ri)costruire", per non parlare di "capire", e' più complicato che "sfasciare", e il tentativo di ricondurre l'accaduto entro gli ipoteticamente ragionevoli limiti di una patologia (la non più signorina Horowitz si dichiaro' cleptomane) oltre ad avere le fattezze un po' dimesse della classica "toppa peggiore del buco", a costarle una salata ammenda speziata con tre anni di libertà vigilata e il contorno di qualche centinaio di ore di attività di volontariato, ha finito per sedimentare un lustro abbondante di "quarantena cinematografica", lasciando davanti ai nostri occhi, di fatto dov'erano, e cioè a galla sul mare magno delle ipotesi e delle ambiguità - sempre ben isolati le une dagli altri - le suggestioni, i sentimenti ambivalenti, i pregiudizi e le incredulità di cui sopra.
Classe '71, si accennava - coeva quindi di tipe almeno altrettanto sofisticate, come la Connelly o la britannica Weisz; ma pure di altre, magari meno "cool", eppure lo stesso in grado di ritagliarsi una certa riconoscibilità, come Denise Richards o Carla Cugino - minuta, d'incarnato madreperlaceo, folti capelli corvini attorno a cui uno come Poe avrebbe volentieri circumnavigato col passo stranito di un paio di quei suoi versi feerici e inconsolabili (indipendentemente dal fatto che la nostra non e' una bruna naturale); elegante, uno zinzino snob e come solo le americane sanno essere, in specie le provinciali, ovvero con quel particolare intimo brio misto a ritegno che le trasforma senza sforzo apparente in "ragazze dei quartieri alti" avendo, almeno agli esordi, frequentato l'"upper east side" solo a chiacchiere e forse neppure a forza di queste; ovale piccolo e regolare, labbra sottili, grandi occhi scuri entro cui si sono persi alcuni bei nomi non solo hollywoodiani, cadendoci mani e piedi (da Johnny Depp pre-smorfie, il quale, a frittata fatta, non ha trovato di meglio che ricorrere ad un tipico espediente maschile, più o meno patetico, escogitato al fine di metabolizzare - nelle intenzioni "virilmente" - la supposta di fiele che gli era stata appena somministrata - nel caso abradersi dalla spalla l'ipoteca sul futuro vergata nella forma "Winona forever", per farla diventare nientepopodimenoche "Wino forever" -; al cantante dei Soul Asylum, David Pirner; fino a Matt Damon, dalla relazione col quale pare, stavolta, ad uscirne ammaccata sia stata proprio miss Horowitz), la Ryder appare per la prima volta - appena quindicenne - nel teen- movie "problematico" pure se a base di nerds, sbruffoncelli e ragazzine intrappolate nel rigido codice della "popolarità", "Lucas", di David Seltzer (1986). Sebbene in un ruolo da "rookie", Winona comincia a sgrossare quel personaggio di adolescente appartato e precocemente maturo quanto caustico ed intrigante che l'avrebbe impressa qualche anno dopo nella memoria di molti suoi coetanei e non solo, come uno degli interpreti più tipici della cosiddetta "X generation". Prova ne e' che quest'esordio, nonostante la scarsa eco del film (il quale, e' interessante ricordarlo, al netto di una placida adesione agli stereotipi del genere, ambiva a collocarsi comunque nell'allora nascente campo d'addestramento della commedia giovanile con risvolti meno ridanciani - leggasi "risate, rutti e tette" - e un minimo più attenta alle contraddizioni psicologiche dell'età travagliata che mette sotto osservazione) la fa rimbalzare nemmeno un biennio dopo dentro l'universo colorato e dispettoso di Tim Burton che - siamo nel 1988 - le affida la parte dell'aspirante suicida Lydia in "Beetlejuice".
Da qui si apre una fase in cui il ruolo di ragazza-non-comune si precisa in vero e proprio personaggio originale e a suo modo innovativo che, con sfumature diverse, alimenta opere come "Heathers"/"Schegge di follia", 1989, di Michael Lehmann; "Edward scissorhands"/"Edward mani di forbice", 1990, ancora di Burton e "Mermaids"/"Sirene", 1990, di Richard Benjamin. Nell'acido film di Lehmann, ad esempio, Winona/Veronica briga assieme all'irrequieto Christian Slater/"JD" per eliminare non solo metaforicamente i compagni di liceo fatui ed arroganti. Anime chiaroscurate simbiotiche, i due si attraggono con uno slancio e un'ambiguita ' che soprattutto nel caso della Ryder risulta non solo funzionale alla narrazione ma si candida ad essere espressione sintomatica del disagio di una generazione - quella degli incipienti anni '90 - quanto meno perplessa, se non addirittura abbandonata a se stessa nel tentativo di drenare/espellere gli effetti tossici degli "united states of unconsciousness" edonistico/consumistici somministratigli oramai da oltre un decennio e in dosi da cavallo. D'altro canto, la scostante figura di Slater (Jason Dean, detto "JD", nomen omen), ribelle sul serio "senza causa" (e' sostanzialmente il disgusto e il rifiuto a muoverlo, non un disperato tentativo di riattivare i canali di comunicazione interrotti col mondo ottuso e sordo della tronfia America tardo eisenhoweriana, come da intendimenti del suo più celebre antesignano), rivela un fiato cortissimo, inserita com'è in un asfissiante panorama, quello della plastificazione pianificata (i fatidici anni '80, davvero "l'inizio di qualcosa" come e' stato osservato, qualcosa i cui sviluppi sono tutt'altro che esauriti) che ha da tempo fagocitato non tanto il suo anelito - più o meno autentico - di rivalsa e cambiamento, quanto la sua stessa funzione di rottura anticonformista (e su questo Lehmann aveva avuto la vista lunga), risputandola nella ripetizione di gesti e parole utili alla mercificazione, così come metabolizzandola facile nella consistenza caramellosa del cliché. Tornando alla Ryder, gli interludi più "pop", genericamente riconducibili al passo e alle atmosfere della commedia, vuoi nera (Burton), vuoi con coloriture tutto sommato edificanti (Benjamin), non alterano di molto il quadro di riferimento appena accennato. Preludono, pero', ad una ulteriore emersione di certi caratteri che la mano di due pesi massimi (Coppola e Scorsese) renderanno evidenti: ovvero l'incarnazione da parte della ex signorina Horowitz di un tipo di giovane donna che più che dalle gemmazioni hippy-movimentiste dell'albero familiare (pensiamo ai genitori vicini ad alcuni nomi celebri della controcultura USA, tipo Huxley, Leary, Ginsberg), sembra scaturire dalle infiorescenze sparse di certa tradizione anglo-americana: dall'attualizzazione di fiori curiosi, cioè, cristallizzati agli albori di un secolo, il ventesimo (impostosi poi come quello dell'"american way of life"), nella forma, per dire, delle "flappers" con il loro piglio sbarazzino (nel senso di smorfie fuggevolmente sornione a inseguire sguardi graziosamente esitanti per accennare sorrisi sfacciatamente autoindulgenti), cara a Fitzgerald o, all'opposto, in quella plasmata attorno al mirabile equilibrio tra accenni controllati di deliquio e sofisticatezza estrema della "Lady Agnew" di John Singer Sargent, gemella omozigote della malandrina compostezza a dissimulare uno scrupolo calcolatore, delle "Gibson girls".
TFK
- parte prima -
E' il caso dell'americana Winona Horowitz, in arte Ryder, (e già il nome, Winona, mutuato sic et simpliciter dalla cittadina del Minnesota che le ha dato i natali nell'ottobre del 1971, sembra fatto su misura per il cinema, nonché per stimolare tutta una serie di ghiribizzi associativi, magari ingenui, magari maliziosi ma non per questo più esplicativi), beccata presso i Magazzini "Saks" di Beverly Hills, mentre declinava l'anno di grazia duemila e uno, a praticarsi dei super sconti da sola (leggi "rubare") per una cifra vicina a $ 5000 in capi di vestiario "abbinati" ad una consistente provvista di farmaci. In linea teorica, apriti cielo ! Un po' di bocche a culo di piccione, intemerate un tanto al chilo ed altrettanti bla, bla. Come quasi sempre accade, poi, "aggiustare", "(ri)costruire", per non parlare di "capire", e' più complicato che "sfasciare", e il tentativo di ricondurre l'accaduto entro gli ipoteticamente ragionevoli limiti di una patologia (la non più signorina Horowitz si dichiaro' cleptomane) oltre ad avere le fattezze un po' dimesse della classica "toppa peggiore del buco", a costarle una salata ammenda speziata con tre anni di libertà vigilata e il contorno di qualche centinaio di ore di attività di volontariato, ha finito per sedimentare un lustro abbondante di "quarantena cinematografica", lasciando davanti ai nostri occhi, di fatto dov'erano, e cioè a galla sul mare magno delle ipotesi e delle ambiguità - sempre ben isolati le une dagli altri - le suggestioni, i sentimenti ambivalenti, i pregiudizi e le incredulità di cui sopra.
Classe '71, si accennava - coeva quindi di tipe almeno altrettanto sofisticate, come la Connelly o la britannica Weisz; ma pure di altre, magari meno "cool", eppure lo stesso in grado di ritagliarsi una certa riconoscibilità, come Denise Richards o Carla Cugino - minuta, d'incarnato madreperlaceo, folti capelli corvini attorno a cui uno come Poe avrebbe volentieri circumnavigato col passo stranito di un paio di quei suoi versi feerici e inconsolabili (indipendentemente dal fatto che la nostra non e' una bruna naturale); elegante, uno zinzino snob e come solo le americane sanno essere, in specie le provinciali, ovvero con quel particolare intimo brio misto a ritegno che le trasforma senza sforzo apparente in "ragazze dei quartieri alti" avendo, almeno agli esordi, frequentato l'"upper east side" solo a chiacchiere e forse neppure a forza di queste; ovale piccolo e regolare, labbra sottili, grandi occhi scuri entro cui si sono persi alcuni bei nomi non solo hollywoodiani, cadendoci mani e piedi (da Johnny Depp pre-smorfie, il quale, a frittata fatta, non ha trovato di meglio che ricorrere ad un tipico espediente maschile, più o meno patetico, escogitato al fine di metabolizzare - nelle intenzioni "virilmente" - la supposta di fiele che gli era stata appena somministrata - nel caso abradersi dalla spalla l'ipoteca sul futuro vergata nella forma "Winona forever", per farla diventare nientepopodimenoche "Wino forever" -; al cantante dei Soul Asylum, David Pirner; fino a Matt Damon, dalla relazione col quale pare, stavolta, ad uscirne ammaccata sia stata proprio miss Horowitz), la Ryder appare per la prima volta - appena quindicenne - nel teen- movie "problematico" pure se a base di nerds, sbruffoncelli e ragazzine intrappolate nel rigido codice della "popolarità", "Lucas", di David Seltzer (1986). Sebbene in un ruolo da "rookie", Winona comincia a sgrossare quel personaggio di adolescente appartato e precocemente maturo quanto caustico ed intrigante che l'avrebbe impressa qualche anno dopo nella memoria di molti suoi coetanei e non solo, come uno degli interpreti più tipici della cosiddetta "X generation". Prova ne e' che quest'esordio, nonostante la scarsa eco del film (il quale, e' interessante ricordarlo, al netto di una placida adesione agli stereotipi del genere, ambiva a collocarsi comunque nell'allora nascente campo d'addestramento della commedia giovanile con risvolti meno ridanciani - leggasi "risate, rutti e tette" - e un minimo più attenta alle contraddizioni psicologiche dell'età travagliata che mette sotto osservazione) la fa rimbalzare nemmeno un biennio dopo dentro l'universo colorato e dispettoso di Tim Burton che - siamo nel 1988 - le affida la parte dell'aspirante suicida Lydia in "Beetlejuice".
Da qui si apre una fase in cui il ruolo di ragazza-non-comune si precisa in vero e proprio personaggio originale e a suo modo innovativo che, con sfumature diverse, alimenta opere come "Heathers"/"Schegge di follia", 1989, di Michael Lehmann; "Edward scissorhands"/"Edward mani di forbice", 1990, ancora di Burton e "Mermaids"/"Sirene", 1990, di Richard Benjamin. Nell'acido film di Lehmann, ad esempio, Winona/Veronica briga assieme all'irrequieto Christian Slater/"JD" per eliminare non solo metaforicamente i compagni di liceo fatui ed arroganti. Anime chiaroscurate simbiotiche, i due si attraggono con uno slancio e un'ambiguita ' che soprattutto nel caso della Ryder risulta non solo funzionale alla narrazione ma si candida ad essere espressione sintomatica del disagio di una generazione - quella degli incipienti anni '90 - quanto meno perplessa, se non addirittura abbandonata a se stessa nel tentativo di drenare/espellere gli effetti tossici degli "united states of unconsciousness" edonistico/consumistici somministratigli oramai da oltre un decennio e in dosi da cavallo. D'altro canto, la scostante figura di Slater (Jason Dean, detto "JD", nomen omen), ribelle sul serio "senza causa" (e' sostanzialmente il disgusto e il rifiuto a muoverlo, non un disperato tentativo di riattivare i canali di comunicazione interrotti col mondo ottuso e sordo della tronfia America tardo eisenhoweriana, come da intendimenti del suo più celebre antesignano), rivela un fiato cortissimo, inserita com'è in un asfissiante panorama, quello della plastificazione pianificata (i fatidici anni '80, davvero "l'inizio di qualcosa" come e' stato osservato, qualcosa i cui sviluppi sono tutt'altro che esauriti) che ha da tempo fagocitato non tanto il suo anelito - più o meno autentico - di rivalsa e cambiamento, quanto la sua stessa funzione di rottura anticonformista (e su questo Lehmann aveva avuto la vista lunga), risputandola nella ripetizione di gesti e parole utili alla mercificazione, così come metabolizzandola facile nella consistenza caramellosa del cliché. Tornando alla Ryder, gli interludi più "pop", genericamente riconducibili al passo e alle atmosfere della commedia, vuoi nera (Burton), vuoi con coloriture tutto sommato edificanti (Benjamin), non alterano di molto il quadro di riferimento appena accennato. Preludono, pero', ad una ulteriore emersione di certi caratteri che la mano di due pesi massimi (Coppola e Scorsese) renderanno evidenti: ovvero l'incarnazione da parte della ex signorina Horowitz di un tipo di giovane donna che più che dalle gemmazioni hippy-movimentiste dell'albero familiare (pensiamo ai genitori vicini ad alcuni nomi celebri della controcultura USA, tipo Huxley, Leary, Ginsberg), sembra scaturire dalle infiorescenze sparse di certa tradizione anglo-americana: dall'attualizzazione di fiori curiosi, cioè, cristallizzati agli albori di un secolo, il ventesimo (impostosi poi come quello dell'"american way of life"), nella forma, per dire, delle "flappers" con il loro piglio sbarazzino (nel senso di smorfie fuggevolmente sornione a inseguire sguardi graziosamente esitanti per accennare sorrisi sfacciatamente autoindulgenti), cara a Fitzgerald o, all'opposto, in quella plasmata attorno al mirabile equilibrio tra accenni controllati di deliquio e sofisticatezza estrema della "Lady Agnew" di John Singer Sargent, gemella omozigote della malandrina compostezza a dissimulare uno scrupolo calcolatore, delle "Gibson girls".
TFK
- parte prima -
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