mercoledì, maggio 31, 2017

IL RAPIMENTO DI MICHEL HOUELLEBECQ

Il rapimento di Michel Houellebecq - "L'enlèvement de Michel Houellebecq"
di, Guillaume.Nicloux
con: Michel Houellebecq, Mathieu Nicourt, Maxime Lefrançois,
Francia, 2014
genere, commedia 
durata, 93'


Non sfuggiremo a una ridefinizione delle condizioni della conoscenza, della nozione stessa di realtà; bisognerebbe prenderne coscienza fin d'ora su un piano affettivo. A ogni modo, finché resteremo in una visione meccanicistica e individualistica del mondo, moriremo. Affermazioni come questa identificano un uomo - meglio, ne circoscrivono e caratterizzano la visione del mondo - più di tante argute analisi. Quest'uomo è Michel Houellebecq, in primis poeta, romanziere e saggista, tra i pochi sulla ribalta contemporanea a mantenere saldo lo sguardo - nonostante il proclamato disgusto - sulle antinomie sciaguratamente paradossali e tragiche della tarda modernità.

Su un binario concorde si muove l'opera di Nicloux, nel caso curioso e stimolante esempio di poetica-al-lavoro, che trascina quasi senza colpo ferire, eppure con fresca immedesimazione, la coerenza interna dei generi (il pretesto scaturisce dall'esecuzione artigianale ma efficace d'un toposcriminale, il rapimento, qui ai danni d'un personaggio pubblico, con Houellebecq nei panni di sé stesso e risposta di finzione alla notizia diffusasi qualche anno fa inerente una sua strana sparizione) entro un territorio ibrido tra semi-documentarismo, improvvisazione (tutti i coinvolti sono attori non professionisti pronti a metterci del proprio al di là dei legami, già laschi, previsti dal testo di riferimento), parodia, citazione e divulgazione in pillole, che mano mano si trasforma, aprendo infine un varco verso la possibilità di erodere il filtro dellasovrapposizione cinematografica per consentire all'autenticità esemplare dell'individuo-isola Houellebecq di condividere scampoli d'una solitudine patita alle origini e col tempo testardamente organizzata, ossia posta sotto l'egida dell'urgenza espressiva e della necessità di sublimarla in uno stile ("Dipende dallo stile. Le parole da sole non funzionano"), nella forma d'un dialogo a più voci - patetico, serioso, ilare, anodino, distaccato, irrisolto - per quanto coartato dalla messinscena (verso cui comunque e spesso recalcitra, ricamando ironici fraintendimenti: "La mia biografia è tutta falsa !").


L'interazione con la famiglia allargata dei rapitori - che tenta di fare le cose perbene, con tanto di didascalia fotografica che riproduce il docile Michel con in grembo una prima pagina di Liberation che apre su Hollande abbinato a un suggestivo Dèsir d'avenir - nello spazio limitato d'una sgangherata dimora di campagna e nell'interpolazione di funzionali ovvietà (l'irrilevanza della routine metropolitana; le desolazioni koriniane; le nudità alla Courbet), consente a Nicloux, grazie a un morbido gioco di piani ravvicinati, di naturali alternanze del punto di vista - accorgimenti mimetici vieppiù esaltati dalla spontaneità della presa diretta - di far emergere, lentamente ma con chiarezza, dalla forzatura d'una narrazione per caratteri e tramagl'indizi di quell'umanesimo residuale e per certi aspetti struggente che l'opera del poeta nato alla Reunion non si stanca di evocare nel crudele e irreversibile prolasso di un'intera Civiltà. Ecco, allora, che ciò che all'inizio sembra solo una cattività bizzarra e dilettantesca, coi minuti, con l'avvicinarsi dei volti e dei gesti all'interrogazione discreta della mdp - Michel è sovente sorpreso in atteggiamento assorto o assente, l'eterna sigaretta a ciondolare tra medio e anulare, la ritrosa e quasi fanciullesca ricerca d'una tregua alcolica o carnale - si veste dei colori inediti per quanto tenui di una prossimità quasi paritaria per cui ci si può ritrovare a tavola, l'ostaggio ormai definitivamente liberato da bavaglio e manette, a conversare riguardo la predilezione di questo timido commensale per gli alessandrini ("Sono in un sistema liberale/Come un lupo in un terreno incolto/Mi adatto relativamente male/Cerco di non fare storie"); a stupirsi del suo stupore per l'ignoto che s'è preso cura di lui pagando il riscatto. O a riflettere sullo stato attuale della democrazia e sulle sorti dell'Europa, intervallando parentesi sulla scelta dei vini, ipotetici interessamenti per il body-building e le tecniche del corpo-a-corpo, e la promessa d'una poesia da dedicare all'anziana padrona di casa con l'augurio di rivedersi... 


Nell'imminenza reale e metaforica del crollo e della fine (tornano puntuali briciole dei rovelli di Michel sulla morte e sulle disposizioni per la sepoltura), nell'ostinato mutismo dei cieli vuoti, la disperata arrendevolezza di Houellebecq s'accorda così, senza troppi attriti, alla misura essenziale e nitida del Cinema di Nicloux, ampliando la persistenza dell'eco di quello slancio inutile ma irrinunciabile che ribadisce innanzitutto a sé stesso che la vita dovrebbe essere diversa, la vita dovrebbe essere un po' più viva.
TFK

lunedì, maggio 29, 2017

MILANO IN THE CAGE

Milano in the cage
di Fabio Bastianello
con Alberto Lato, Christian Stelluti, Antonella Salvucci Italia, 2017
genere, drammatico
durata, 113'


Alberto Lato è stato pugile, esperto di arti marziali, guardia del corpo, buttafuori. A 36 anni ha una ex moglie, un figlio che può vedere solo in presenza di un assistente sociale e una vita nel sottobosco milanese che potrebbe condurlo verso l'illegalità senza possibilità di ritorno. L'unica speranza di riscatto può venirgli dalla MMA. Per molti l'acronimo MMA non ha alcun significato. Lo conoscono, invece, quei lottatori che si affrontano in una gabbia ottagonale. Significa Mixed Martial Arts e si riferisce a una forma di arte marziale che prevede tecniche di percussione, calci, pugni, gomitate e ginocchiate, e di lotta, come proiezioni, leve e strangolamenti. Per Bastianello rappresenta la disciplina con cui, con un combattimento reale tra Lato e un avversario, far concludere il film con un finale esclusivamente consegnato alla realtà di un confronto senza esclusione di colpi. Con la sua opera prima aveva mostrato una straordinaria capacità di costruire la tensione, facendo del virtuosismo di un piano sequenza della durata di 105 minuti una scelta linguistica strettamente connaturata con la sincerità di uno sguardo calato senza infingimenti in due ore di vita di un gruppo ultrà di tifosi di calcio. La sincerità è rimasta anche in questa sua seconda performance, in cui si avverte il bisogno di riflettere sul lato oscuro di una metropoli come Milano, fotografata soprattutto di notte, con indubbia consapevolezza nella scelta delle location. 


Così, genuino è anche il suo punto di osservazione sulla violenza, che emerge con chiarezza nell'episodio del tamponamento. Bastianello ha infatti la convinzione che si debba distinguere tra la violenza controllata di chi esercita un'arte marziale da quella di cui si riempiono le cronache quotidiane, messa in atto da persone che perdono la testa e uccidono per un sorpasso. La sincerità però si scontra con un cast che, volendo aderire alla realtà, finisce con il diminuire la qualità della proposta: fatti salvi la moglie del protagonista (Antonella Salvucci) e l'amico tossicodipendente (Cristian Stelluti), molti degli altri interpreti si limitano a recitare la propria parte, senza calarvisi a pieno. È una trappola in cui sono caduti anche maestri come i fratelli Taviani, che nel film "Cesare deve morire" mettono in bocca ai detenuti protagonisti frasi sulla propria vita che suonano false, mentre sono molto più veritiere le parole scritte da Shakespeare. Bastianello, nella sua ricerca di verità da docu-fiction, non ha valutato il problema o, comunque, ha ritenuto che non fosse poi troppo importante. Resta a suo favore il fatto che si comprende come i suoi non siano film d'occasione, ma nascano da un'esigenza sempre sentita e mai banale. La colonna sonora ne costituisce un'interessante e ulteriore testimonianza. 
Riccardo Supino

domenica, maggio 28, 2017

sabato, maggio 27, 2017

CUORI PURI

Cuori puri
di Roberto De Paolis
con Simone Liberati, Selene Caramazza, Barbora Bobulova, Stefano Fresi, Edoardo Gallo
Italia, 2017
genere, drammatico
durata, 144'



Se c'era bisogno di una conferma le notizie che arrivano dal festival di Cannes ci dicono che il cinema italiano, specialmente quello realizzato dalle nuove generazioni di autori predilige realtà limitali e periferiche, per lo più metropolitane ma parimenti lontane e dai luoghi simbolo delle istituzioni cittadine, e da quelli deputati alla liturgie della mondanità più elitaria. Se analizziamo il periodo che va dall'uscita nei cinema di "Non essere cattivo" di Claudio Caligari (2015) a quello coincidente con la presentazione alla croisette di "Fiore" di Claudio Giovannesi (2016) si vedrà che accanto ai titoli più commerciali esiste un vero e proprio filone costituito da una serie di titoli che raccontano una gioventù più complessa e problematica di quella spensierata e leggera ritratta dalla nostre cine commedie. All'interno di quella che è diventata una vera e propria tendenza pensiamo di poter dire che la discriminante capace di scongiurare il rischio di una strisciante omologazione siano la scelta dello spazio e il modo di occuparlo da parte della macchina da presa. In questo senso "Cuori puri" di Roberto De Paolis appare addirittura esemplare, perché, a fronte di una storia che presenta una trama (la storia d'amore tra Stefano e Agnese) , dei personaggi e degli ambienti, in tutto o quasi simili a quelli di altri lungometraggi, d'altro canto dimostra di non farsi prendere la mano dalla voglia di essere onnicomprensivo (come succede per esempio a al Sergio Castellitto di "Fortunata"), concentrando la sua attenzione su quello che accade nell'area circostante al parcheggio del supermercato vigilato da Stefano, il protagonista maschile, nella quale convergono e si ritrovano a coesistere - non senza difficoltà - la comunità rom, alloggiata all'interno del campo nomadi che si affaccia - diviso da una rete - sulla piazza del posteggio, e il centro di accoglienza, dove, in qualità di volontaria Agnese e sua madre cercano di rendere concreti gli insegnamenti ricevuti dalle abitudinarie frequentazioni religiose. Indicativa a tal proposito è la sequenza d'apertura, quella che ci introduce alla conoscenza dei protagonisti attraverso il convulso inseguimento con il quale Stefano riesce a fermare Agnese, rea di aver rubato un telefonino nel negozio in cui il ragazzo si occupa della sicurezza e dal quale (lo apprendiamo più tardi) verrà licenziato per aver lasciato andare la ragazza.


Mediato quel che basta dalla sovrastruttura scenica (definita dall'uso di luci naturali e di uno stile documentaristico) e con la volontà di rimanere attaccato ai corpi che si muovono davanti alla mdp, l'incontro tra i due ragazzi avviene con approccio diretto e convulso, in cui è l'occhio del regista a inseguire i personaggi e non il contrario. Lungi dall'essere innovativo (la lezione dei Dardenne ha fatto strada soprattutto tra i cineasti dell'ultima ora), il dispositivo di cui abbiamo appena scritto è però efficace poichè nel corso della visione, diventando un tutt'uno con la vita dei protagonisti (o se volete, rendendosi invisibile) fa sì che ciò a si assiste non dia mai la sensazione di essere il frutto di un calcolo premeditato, stabilito a tavolino secondo una scaletta concordata con il resto della troupe ma altresì, sia il frutto delle circostanze e soprattutto la conseguenza dell'istintività dei due interpreti, (vale la pena ricordarli per la loro bravura Simone Liberati e Selene Caramazza) i quali, calati nel ruolo con aderenza stanislavskijana, riescono a diventare "corpi sociali", credibili al di là dei tecnicismi del mestiere che, pur presenti, vengono sovrastati da un'istintualità e un'energia davvero rare. E' dunque per questo che l'amplesso tra Stefano e Agnese, per il mix di pathos e carnalità che riversa sullo schermo, rende merito alla bellezza dell'atto come non lo si vedeva in sala dai tempi de "La vita di Adele".


Ed è sempre per questa ragione che la relazione tra i due ragazzi, pur incrociando fenomeni (quello dell'immigrazione come pure dell'impoverimento delle categorie sociali meno abbienti del nostro paese) e temi (accoglienza e intolleranza su tutte) anche drammatici della nostra contemporaneità, non diventa mai ostaggio delle ideologie e del paternalismo che troppo spesso passano per essere elementi distintivi di un cinema impegnato e militante. Nel fare ciò l'esordiente De Paolis è supportato da una sceneggiatura (scritta a più mani) che trova la sua quadratura negli equilibri derivanti dalla specularità delle forze messe in campo. Così, se da un lato, attraverso la frequenza della comunità parrocchiale da parte di Agnese abbiamo la dimostrazione di quanto sia forte la presa del catechismo religioso sul singolo individuo (è infatti la paura di peccare e il senso di colpa che da esso deriva a rendere infelici le giornate di Agnese), dall'altro, mediante il pragmatismo di Stefano, il quale, ogni giorno si ritrova da solo a lottare per la propria sopravvivenza, troviamo la conferma (di segno negativo rispetto al punto precedente) di quanto la determinazione e il pragmatismo sia più efficace di qualsiasi catechesi. Allo stesso maniera succede per le implicazioni socio culturali messe in campo attraverso la presenza conflittuale dei rom,, da una parte tirati in ballo come capro espiatorio quando si tratta di addossare le colpe di azioni altrimenti non sostenibili da chi le ha "commesse" (e qui ci riferiamo a ciò che accade nella sequenza finale) e, dall'altra salvaguardati da una correttezza politica che è lo specchio della cattiva coscienza di chi non riesce a dare seguito in maniera concreta alle politiche di ospitalità poste in essere nelle aule di governo. Presentato alla Quintane des Realisateurs, "Cuori puri", con la forza e il romanticismo delle sue verità si candida a essere uno dei modelli da seguire per tentare di vincere la disaffezione del pubblico nei riguardi del nostro cinema d'autore, Certo, non è l'unico, ma sarebbe un peccato che il suo esempio passasse inosservato.
(pubblicato su ondacinema.it)

venerdì, maggio 26, 2017

HOME VIDEO - ARRIVAL

Candidato a 8 Academy Awards® tra cui Miglior Film

Con i candidati all’Oscar® Amy Adams, Jeremy Renner
e il premio Oscar® Forest Whitaker

ARRIVAL

Finalmente in Digital HD dal 3 Maggio 2017
Da Mercoledì in Blu-ray™, DVD e 4K Ultra HD
con Universal Pictures Home Entertainment Italia

Arrival
di Denis Villeneuve
con Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker
USA, 2017
genere, fantascienza
durata, 116'


Recensione


Si intitola “The Arrival" ma si legge Denis Villeneuve e questo non per togliere il merito agli altri partecipanti, tutti, dagli attori protagonisti Amy Adams, Jeremy Renner, al resto della squadra tecnica e artistica, decisivi  (come si ha modo di vedere negli extra presenti nella versione dvdblu-ray appena uscita nei negozi italiani) nel contribuire alla riuscita del film, quanto piuttosto per sottolineare il rigore di uno sguardo - quello del regista canadese - capace di rimanere tale pur confrontandosi con il sistema produttivo delle grandi Major Hollywoodiane. Autore per vocazione, come dimostra la confezione d’essai delle primi lungometraggi, Villeneuve ha saputo trasformarsi in regista di cinema mainstream senza snaturare le caratteristiche del suo cinema ancora una volta messe a disposizione delle esistenze dei suoi personaggi le cui vicende, indipendentemente dal dispositivo (di genere e non che sia) procedono di pari passo con un indagine che riguarda tanto la realtà che l’individuo, inseguito e scandagliato nei suoi recessi più indicibili e misteriosi. 

Tendenze che “Arrival” conferma in primis nella figura di Louise Banks, la glottologa chiamata dagli stati maggiori dell’esercito americano a decifrare il linguaggio dei cosiddetti “eptapodi”, gli alieni apparsi dal nulla sui cieli degli Stati Uniti (e di altri 11 regioni del pianeta terra) di cui la donna deve cercare di scoprire le intenzioni. 

Se infatti la forma di “Arrival” è quella di una fantascienza declinata secondo i canoni stabiliti dal seminale “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, del capolavoro spielberghiano, quello di Villeneuve si tiene lo scenario apocalittico, la mobilitazione generale e l’empatia tra terrestri e non, convinto - come in effetti succede - che a fare la differenza sia non solo  la scelta di descrivere la vicenda attraverso gli occhi di Louise ma soprattutto il fatto di collegare lo scioglimento finale della storia, quello relativo ai tentativi di decifrare la lingua degli enigmatici visitatori, con la parte più intima della sua vita, interrogata dal personaggio interpretato dalla Adams attraverso flash forward e back forward in cui con struggente tenerezza Villeneuve ci fa rivivere il rapporto di una madre con la propria figlia (quella di Louise, segnata da un destino “gia scritto”). 


In questo modo “Arrival” si distacca dai normali lungometraggi di fantascienza per diventare anche e soprattutto la rappresentazione di un’intimità femminile. Sfuggendo, come già aveva fatto per “Sicario” con il tema della violenza, ai possibili eccessi emotivi derivati dalla presenza di un argomento forte come quello dell’amore assoluto (Louise infatti novella Maria di Nazareth accetta di mettere al mondo una bambina pur conoscendone il triste fato) Villeneuve restringe lo spazio dell’azione, sostituendo le scene di massa e i combattimenti interstellari con sequenze concentrate in ambienti ristretti (il tunnel dell’aeronave, le tende dell’accampamento militare) e privi di orizzonte che rendono come meglio non si potrebbe il processo interiore che porterà Louise a capire il senso dell’esistenza così come il significato dei codici alieni. Abbassando i costi a favore di una maggiore libertà creativa Villeneuve dimostra di essere pronto al grande salto che lo ha visto impegnato fino a qualche giorno fa sul set di seguito del mitico “Blade Runner 2049”, seguito del capolavoro firmato da Ridley Scott. Alla luce della qualità raggiunta con "Arrival" è impossibile non avere grandi aspettative. 
Carlo Cerofolini

giovedì, maggio 25, 2017

2NIGHT: INTERVISTA A IVAN SILVESTRINI




Conciliando intrattenimento e riflessione "2Night" affascina e seduce senza rinunciare a mettere in scena le inquietudini del nostro tempo. Di questo e altro abbiamo parlato con il suo regista, Ivan Silvestrini.



Il tuo film cerca di conciliare intrattenimento e riflessione. Tenendo in considerazione anche ciò che hai fatto prima di “2Night” mi sembra che il tuo cinema ruoti attorno a queste due polarità
Mi fa piacere che tu lo dica perché questa è la mia missione nella vita (ride). Credo che negli ultimi anni si sia creata una frattura tra autorialità e pubblico con la quale  un regista come me si deve confrontare, magari cercando di fare film che riescano a colmare questo divario. Dai discorsi di amici e conoscenti, poi, il concetto di cinema d’autore è troppo spesso sinonimo di noia, supponenza, incomunicabilità, nozioni che vanno contro le caratteristiche di popolarità di cui io penso debba farsi garante. Ecco perché nel mio piccolo sto cercando di fare film impegnati senza dimenticare il pubblico, perché mi interessa che si veda quello che sto raccontando.

Una disaffezione che ha costretto il cinema italiano, soprattutto quello più indipendente, ad andarsi a cercare il proprio pubblico con una distribuzione  mirata di sala in sala con la presenza di cast e regista. Come esempio mi viene in mente un film come “Lo chiamavano Jeeg Robot” ma ce ne sarebbero molti altri. 
Ovviamente alle ragioni di cui ti ho appena detto si uniscono una serie di congiunture sociali ed economiche per cui i giovanissimi, avendo alternative diverse per poter vedere un film, spesso non reputano così importante l’esperienza della proiezione in sala. Certo, mi rendo conto che quando una persona ha preso troppe fregature tende a rinunciarvi; d’altro canto voglio sperare che non sia del tutto così, perché quando vai al cinema sei in qualche modo costretto a fruire dell’opera così com’è stata pensata dal regista e quindi senza le interruzioni e le distrazioni della visione casalinga, Inoltre, guardare un film insieme ad altri potenzia la forza di quest’ultimo.


Tu però in quanto regista di web series sei stato anche artefice di un cinema pensato per altri tipi di visione, non necessariamente in sala. 
Si l’ho fatto anche come atto di reazione verso un sistema che temevo non mi avrebbe mai considerato. “Stuck”, la mia prima web serie è stata resa possibile grazie a una serie di innovazioni tecniche come quella rappresentata dal fatto che YouTube cominciasse a trasmettere in hd e che nel frattempo fosse entrato in commercio un tipo di telecamera che a un costo limitato permetteva di girare con effetti cinematografici. Io all’epoca vedevo che al prezzo di un cortometraggio si poteva realizzare qualcosa che andasse oltre i limiti narrativi di un corto, e l’ho sfruttato sul web. La rete ha avuto su di me un effetto liberatorio, perché mi permetteva di esistere senza dover chiedere il permesso a nessuno. C’è poi da considerare che se non lo avessi fatto non avrei avuto le possibilità che poi si sono presentate. Il mio primo film (“Come non detto”, 2012) è andato benino per essere un’opera prima ma è in seguito all’uscita in sala che ha avuto popolarità. E’ stato molto amato da tutte le comunità gay del mondo: era palese, cioè, che si fosse creato un apprezzamento emotivo trasversale e transnazionale, cosa che mi ha fatto davvero piacere. Ciò nonostante senza “Stuck e “Under” - la seconda web serie da me realizzata - non sarei stato considerato in grado di fare un lungometraggio come “Monolith" (n.d.) che in qualche modo aveva bisogno della padronanza dell’inglese da me dimostrata in “Stuck" ma anche di una certa dimestichezza nella narrazione di genere del tipo di quella esibita in “Under”.


Restando alle web series, ti volevo chiedere qual è stata per te la principale differenza rispetto ai lavori che hai fatto per il grande schermo.
La prima è la frammentazione della narrazione che è ancora più forte della serialità televisiva, perché si stima che la concentrazione dell’internauta non duri molto. Se fosse stata fruita in un’unica soluzione la mia prima serie web sarebbe durata all’incirca 100 minuti ma di fatto è stata distribuita a pillole di 10’ per far affezionare progressivamente il pubblico ai personaggi. Ovviamente come narratore questo mi ha permesso una sperimentazione che non sarebbe stata possibile sul grande schermo. Il cinema italiano non si è ancora cimentato su un genere come urban fantasy che è quello utilizzato per “Under”. In realtà e per esempio, “2night” nasce da un’intuizione delle due produttrici - Alessandra Brilli e Serena Sostegni della neonata “Controra film” - le quali, avendo visto le mie serie, hanno pensato che nella dimensione filmica potessi padroneggiare una macchina cinema un po' più leggera e dinamica, che poi era quella che loro potevano mettere insieme. In altre parole, avere visto il mio film le aveva rassicurate sul fatto che potessi destreggiarmi entro una narrazione continuativa: ciò che le ha convinte a scegliermi, però, è che sul web avevo dimostrato di poter gestire un’opera come “2Night” che, essendo, diciamo così, nouvelle vague nell’approccio, aveva bisogno di una leggerezza della macchina da presa che era la stessa dei miei lavori.


In Italia è più facile esordire che fare l’opera seconda, per cui ti volevo chiedere quanto è costato il film.
“2Night” è un film coraggiosissimo perché è stato prodotto con un budget - 140 mila euro - ultra indipendente. In effetti è stato prodotto come un ambizioso mediometraggio. Nonostante questo, il film ha una confezione elegante e una bellezza anche visiva che dissimula le ristrettezze del budget.Ti ringrazio perché questa è una cosa a cui ho riservato un’attenzione particolare. Ho lavorato molto con Davide Manca, perché tengo molto all’immagine. Sono convinto che l’elemento visivo non debba sovrapporsi alla narrazione ma siccome questo era un film sulla seduzione e sull’attrazione, non vedo perché le immagini non dovessero aiutare il pubblico a immergersi nella storia. Volevo che il film avesse un look sensuale e sexy all’occorrenza, quindi ho usato tutte le armi che avevo. Non doveva sembrare povero e credo che non lo sembri grazie a una serie di scelte premeditate come quella di evitare immagini buie nonostante il film fosse ambientato tutto di notte.

A proposito di immagini, quelle del tuo film sembrano attirare lo spettatore dentro lo schermo.
Ma anche dentro l’abitacolo. Volevo fare un film voyeurista nel senso più nobile del termine in cui lo spettatore non avesse uno sguardo distaccato rispetto a quello che succede ma fosse, di fatto, una sorta di terzo incomodo. Tu sai la teoria dell’effetto provocato da un osservatore esterno che attraverso lo sguardo riesce a modificare la realtà che gli sta davanti. Ebbene, così succede nel cinema quando la macchina da presa si fa invisibile e ti permette di osservare qualcosa che diventa profondamente intimo. Ovviamente, credo che atmosfere come le notti passate in macchina con la persona che ci piace sono molto particolari. Se ci pensi l’automobile di notte è una sorta di alcova dove il nostro corpo sparisce nell’oscurità e solo il nostro viso viene illuminato dalle luci della città. E’ un’atmosfera che tutti abbiamo vissuto e sono momenti che spesso ricordiamo per sempre. E’ questa potenza che ho cercato di rievocare nelle immagini del mio film. 


Nonostante l’indubbio appeal del tuo film e alla luce delle difficoltà del nostro cinema, mi piaceva che tu raccontassi quanto è stato difficile produrlo e poi distribuirlo. 
Non era scontato che un progetto cosi indipendente potesse uscire in sala. Produrlo è stato massacrante. Ho girato in 2 settimane: 13 giorni con gli attori e uno con i passaggi in macchina. A tal proposito, per un film del genere avevo predisposto una predominanza di riprese fatte con il camera car che però si è rotto il primo giorno e quindi tutto il film l’abbiamo dovuto ripensare con altre tecniche, ad esempio, attaccando la telecamera sul cofano e sui lati della macchina. Questo ha costretto l’attore (Matteo Martari) a guidare veramente in mezzo al traffico mentre recitava, cosa che ha reso tutto più realistico ma certamente più difficile. Abbiamo lavorato solo di notte, con quello che significa in termini di alterazione dei bioritmi. In più, per dirigere gli attori e per sfruttarne le intuizioni e le improvvisazioni, ho fatto tutto il film dentro la macchina. Ero sempre lì con un piccolo monitor e spesso anche quando li si vede entrambi in scena io sono rannicchiato dietro di loro in posizioni indicibili ma indispensabili per cogliere la verità della recitazione. 

Gli attori - e l’energia con cui interagiscono davanti alla macchina da presa - sono uno dei punti di forza del film. Come sei arrivato a loro.
Matteo lo reputo una mia scoperta. Sono stato il primo regista a farlo lavorare, avendolo diretto in “Under”. Già lì mi aveva colpito la qualità della sua recitazione, e anche se il suo ruolo era molto tenebroso sapevo che era in grado di interpretare anche personaggi diversi da quello. Matilde invece, dopo averla vista ne “Il capitale umano”, per me era diventata l’icona di un nuovo cinema che avrei voluto incontrare. Lei era stata sempre molto impegnata ma il primo film da protagonista gliel’ho fatto fare io e questo mi fa molto felice.  

La bravura della Gioli mi sembra in generale molto sottovalutata. Di lei non si considera il fatto che la sua recitazione ogni volta deve sublimare un’avvenenza a tratti ingombrante.
Esatto. Io, per esempio, mi ritengo un cassavetesiano e un bergamaniano, cioè credo moltissimo nel volto degli attori, per cui non penso che il cinema possa essere pressapochista nella scelta di una faccia. Ovviamente, un attore deve essere bravo ma il cinema essendo un’arte pittorica non si basa esclusivamente sulle qualità specifiche ma anche sui modi con cui l’attore riesce a manifestarsi davanti alla telecamera. Credo che lei in questo film abbia dato tantissimo, regalandosi con una generosità che mi ha sorpreso ogni giorno. Ci sono alcune scene in cui Matilde si apre a livello emotivo come mai aveva fatto. Un giorno prima di girare una scena importante mi disse che sarebbe arrivata a dire le battute previste dal copione precedendole con parole e pensieri che non c’entravano niente con la storia. Così facendo, ha compiuto una processo di reminiscenza Stanislavskijana in cui ha richiamato dentro di sé un dolore molto personale che poi ha donato al suo personaggio. E’ stato impressionante vederlo accadere davanti ai miei occhi. 

Come hai lavorato con gli attori.
Abbiamo fatto molte prove a tavolino perché bisognava creare l’alchimia giusta. Allo stesso tempo non volevo ripetere troppe volte il testo, perché mi serviva che l’intesa tra i due protagonisti esplodesse definitivamente sul set. Inoltre, non volevo fare una storia dove i personaggi si incontrano, si piacciono e si capisce subito che sono fatti uno per l’altra, perché secondo me questa è una forzatura del cinema romantico. Al contrario, desideravo realizzare una vicenda anti-romantica, almeno in partenza, raccontando come due persone che si vogliono non sono fatte per forza l’una per l’altra. Sullo schermo e nella prima parte della narrazione, queste persone non scivolano perfettamente uno sull’altro ma sono ispidi, antagonisti ai loro caratteri.


Rispetto a certo cinema giovane, il personaggio della Gioli utilizza un linguaggio per nulla allusivo - anche dal punto vista sessuale - arriva al punto con una crudezza di vocaboli atipica per il nostro cinema, come pure per quello americano, ma che è realistico nel registrare un cambiamento antropologico in cui è la donna a farsi cacciatrice mentre l’uomo diventa preda.   
Si. Noi volevamo raccontare il modo in cui i rapporti maschio e femmina stanno subendo delle mutazioni. Secondo me, quella di lei, la induce a esprimersi come fosse l’incarnazione del desiderio maschile nato dalla sovrapposizione di un lato indubbiamente affascinante con un altro un po’ respingente. In tal modo si ottiene una donna giustamente libera di esprimere i propri desideri e in grado di privare di fatto il maschio di parte del suo atavico ruolo dominante, spingendolo addirittura a chiedersi cosa fare. Infatti il protagonista viene a trovarsi a disagio rispetto alle richieste della donna. 


La tua storia inizia come un gioco poi diventa una cosa seria. Nel corso della vicenda i protagonisti tentano di stemperare i momenti più drammatici ma l’effetto catartico non riesce a cancellare l’ansia di vivere e i dubbi tipici della loro età. In questo termini lo scarto di atmosfera con il tuo film precedente, che era certamente più gioviale, era il modo con cui volevi cogliere lo spirito del tempo o rispondeva a uno stato d’animo personale.  
“2Night” è il remake di un film israeliano, anche se quello di cui parli è ciò su cui abbiamo lavorato per sentirlo nostro. Diciamo che il mio primo film era per certi versi una favola necessaria, perché ciò che accade al personaggio del film può sembrare molto leggero nei toni in virtù delle tempistiche in cui si sviluppano i fatti  della storia, mentre  questo, non giocando tra passato presente e futuro ma con il qui è ora, produce sensazioni diverse che era onesto raccontare nel rispetto delle singole parti. Quindi relativamente al mio sentire di maschio contemporaneo e a quello delle donne del nostro tempo. Credo che la figura interpretata da Matilde non vedrà un’immedesimazione immediata di tutto il pubblico femminile. A questo proposito, forse la cosa più interessante da chiedersi, da spettatrice, è perché questo personaggio mi attrae o mi repelle. In più - da spettatore maschio - perché mi trovo a giudicare questa donna e qual è il retaggio che mi porta a farlo. Oggi il giudizio sociale su un certo tipo di donna è ancora quello degli anni cinquanta. Il pettegolezzo, la voglia di screditare la libertà femminile è ancora vivissimo. Se questo film potrà aiutare a interrogarci sul perché tale sentimento esiste ancora, allora vuol dire che ”2Night” è riuscito a fare il suo lavoro. In questo senso il film, nonostante il suo appeal, risulta impegnato.

A livello drammaturgico tu utilizzi due espedienti: uno è quello tipico del cinema americano di procrastinare il momento in cui i protagonisti  faranno l’amore. Il secondo è rappresentato dal far capire che entrambi stanno omettendo una parte importante della loro personalità. Queste due scelte finiscono per catalizzare l’attenzione del pubblico mettendo in secondo piano gli svantaggi conseguenti alla particolarità dell’ambientazione. 
Ho cercato di fare in modo che la macchina fosse un elemento forte senza diventare uno strumento claustrofobico. La mia intenzione era quella di creare un’aspettativa e un desiderio e poi di raccontare cosa accade fino a che tale desiderio venga soddisfatto o meno. Non a caso il film si apre con questa domanda e si chiude con la risposta alla stessa che non è propriamente dello stesso tono, perché il film parte da un desiderio assolutamente carnale e poi si evolve verso un’altra serie di questioni che trovano in parte una risposta nel corso di quelle ore.

I personaggi sono tutt’altro che stereotipati e tu un po' come in “Perfetti sconosciuti” lasci che la complessità delle loro personalità e ciò che c’è dietro le apparenze venga fuori per gradi. 
Il gioco non è lo stesso di “Perfetti sconosciuti” ma allo stessa maniera quando incontriamo degli estranei abbiamo tutti una maschera per cercare di sedurli. In questo senso, il film rivendica con orgoglio la bellezza dell’approccio fisico rispetto a quello messo in atto tramite i social. Mentre nei social si ha la possibilità di ragionare su quello che sarà, sulla cosa più giusta da dire, dal vivo non funziona cosi, come dimostrano i personaggi che nel corso del loro confronto fanno un sacco di errori. 

2”Night” racconta il senso d’inadeguatezza tipico di chi è giovane e, in particolare, il contrasto tra la frenesia vitalistica delle notti insonni e il vuoto che essa produce. In questo senso, l’incontro tra i due protagonisti diventa terapeutico per entrambi, perché permette loro di guardarsi dentro e di condividere ciò che sono veramente.
Io credo che, in realtà, sia diverso da quello che dici. Più che raccontare il vuoto di un incontro occasionale, qui si descrive la bellezza potenziale. Credo che in generale la nostra cultura, attraverso i retaggi del cattolicesimo, sia portata a puntare il dito contro le storie di una notte, mentre questo film vuole ridare dignità alle avventure. A volte basta una notte incredibile per ricordarsene tutta la vita, se è stata un momento speciale. Il non avere un po' di coraggio e spirito di avventura ti preclude questo tipo di possibilità.

Uno dei punti di forza del film è la capacità della messinscena di far dialogare due non luoghi, lo spazio interno rappresentato dall’abitacolo dell’automobile dove di fatto si svolge la storia, e gli esterni della città notturna attraversati dalla macchina, in maniera tale che il particolare (l’interno) diventi universale (l’esterno).
Ti ringrazio, io ci ho provato. Credo che il cinema sia un’arte pittorica. Assieme allo scenografo Federico Baciotti abbiamo cercato scorci di Roma poco sfruttati ma che potessero in qualche modo essere una sorta di manifestazione astratta delle emozioni provate dai personaggi. Quindi il film comincia nella zona della movida di Ostiense, che ha un certo tipo di architettura colorata, piena di murales e di metallo, con vie larghe, luminose e chiare, per poi districarsi attraverso l’anello di congiunzione del cavalcavia della tangenziale fino alle zone del Pigneto e di Tor Pignattara, che sono un dedalo, un labirinto con tutt’altra architettura utilizzata per rispecchiare il progressivo contrapporsi delle personalità dei protagonisti. 

Priva della sua monumentalità Roma appare una città astratta e fantastica, quasi magica, dove si percepisce che potrebbe accadere qualsiasi cosa. Come avete lavorato con Davide Manca, cosa gli hai chiesto.
Ci siamo dati alcune regole. Per esempio, la notte non doveva mai essere completamente nera per cui abbiamo scelto un certo tipo di luci per l’interno dell’abitacolo e abbiamo sfruttato molto l’illuminazione della città per sporcare e rendere dinamiche le luci sul volto dei protagonisti.

Ci sono colori dorati. La città appare smagliante, con una predominante di toni che finiscono per trasfigurarla.
La fotografia, nella sua profondità di campo, è ciò che permette allo spettatore di avere un’immagine molto distinta di tutto ciò che gli sta davanti. Al tempo stesso, c’è un aspetto molto più selettivo che riguarda la sensazione del ricordo e del sogno. Secondo me, nei nostri ricordi teniamo i dettagli principali e poi delle masse di colore che fanno da sfondo ai primi. Da questo punto di vista, siamo stati molto impressionisti, trasformando le luci delle città in macchie di colore che fossero capaci di creare le percezioni di cui ti parlavo prima. D’altronde, chiunque, dopo un po' di tempo, non riesce più a sopportare la quantità di informazione visiva che la città offre mentre l’attraversiamo - come i protagonisti - a bordo di una macchina. Succede allora che il nostro cervello si focalizza su un unico elemento che, nel caso della mia storia, sono i volti di Matilde e Matteo sui quali converge l’attenzione, con la città che ogni tanto torna a emergere da quel morbido scorrere di colori che loro si lasciano dietro. 

Il lavoro che avete fatto è così eccellente che più volte nel corso della visione ho pensato a  “Collateral" di Michael Mann.
Sono emozionato perché sei il secondo che a proposito del film cita “Collateral”,  uno dei miei titoli preferiti.

Dal punto di vista tecnico le riprese, per le difficoltà che presentavano, sono state una sfida vinta, perché la macchina da presa - e penso per esempio alla scena in cui restituisci i volti degli attori poggiati sopra il tettuccio dell’automobile - riesce a essere ubiqua senza alterare le proporzioni spaziali. Quali sono state le maggiori difficoltà.
Lo era. Abbiamo scelto una macchina spaziosa e trasparente. Io sapevo che volevo fare quell’inquadratura e quindi avevo bisogno di un tetto trasparente, capace di  rendere il senso di uno sguardo onnipresente verso i personaggi. Quella prospettiva che tu citi soltanto un fantasma la poteva avere. 

Che cinema ti piace e a quali film o registi ti ispiri.
Sono abbastanza onnivoro. Cerco l’emozione, e se un film è in grado di darmela tendo a essere buono anche in presenza di palesi difetti. Un regista che riesce a emozionarti, secondo me ha fatto il suo lavoro. Per tornare alla tua domanda ti dico Malick, il quale, per me, è una personalità unica, capace di regie poetiche e rigeneranti. Poi devo molto a Mike Nichols, studiato per il suo modo di raccontare coppie di personaggi con dialoghi serrati e meravigliosi, e a Michael Mann, il cui stile di riprese notturne è stato, se non un influenza esplicita, sicuramente viva in me durante le riprese, senza dimenticare un titolo come “Locke”, alla pari del mio ambientato in macchina. Le mie influenze principali sono però il cinema del nord europa, per quanto riguarda l’uso della luce che è ciò che più mi affascina delle potenzialità della settima arte e al quale mi piace combinare il senso della narrazione e del ritmo narrativo della commedia indipendente americana e della gloriosa commedia all’italiana, che prima o poi bisognerà riscoprire. Un regista che non sbaglia un film è Virzì, di cui apprezzo anche la cura dell’aspetto visivo. Chi invece mi ha insegnato a conoscere il cinema del nord europa e un certo approccio alla recitazione è stato uno dei miei maestri, cioè Daniele Luchetti. 
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

martedì, maggio 23, 2017

LA NOTTE BRAVA DEL SOLDATO JONATHAN

La notte brava del soldato Jonathan"/"The beguiled"
di Don Siegel
con: Clint Eastwood, Geraldine Page
USA 1971 
durata,105' 

Sorprendendo un po' tutti - la critica se la cavò arruolando Siegel nella schiera dei cineasti americani dal gusto europeo; il pubblico, più prosaicamente, disertò le sale, decretando il più grosso fiasco nella carriera dell'autore - il regista di Chicago realizza nel 1971 "La notte brava del soldato Jonathan"/"Beguiled" (produzione Malpaso), singolare incursione nel racconto gotico di ambientazione western, misconosciuto capolavoro pessimista, intriso di misoginia e disperazione.

Durante le fasi estreme - quelle, in genere, più cruente in ogni conflitto - della Guerra di Secessione, nel profondo sud degli Stati Uniti un soldato nordista ferito, Jonathan Mc Burney/C.Eastwood viene soccorso dalle donne ospiti di un collegio femminile (una istitutrice, un'insegnante e tre allieve di età diverse), che anziché riconsegnarlo come prassi alle milizie confederate decidono, per motivazioni diverse, di prendersene cura. Guarito in fretta, grazie alle assidue attenzioni prestategli, Mc Burney comincia a fantasticare sulla possibilità di trarre il massimo vantaggio - in specie carnale - dalla permanenza coatta. Ma è appunto una sfiziosa congettura. Ognuna in realtà interessata ad un rapporto esclusivo, le quattro donne adulte (la quinta è una bambina di pochi anni), ad un primo momento di subdola competizione e di personali illusioni infrante sostituiscono ben presto l'antico e ben collaudato sistema della fratellanza al femminile che, nel caso, non concederà scampo al soldato opportunista e gli confezionerà una fine orribile, in linea perfetta col titolo originale del film (beguiled sta infatti per affascinato ma pure ingannato, irretito, cioè preso in trappola). Già rileggere la vicenda per sommi capi si presta a evocare echi letterari, luoghi tipici di una tradizione, rimandi psicologici e dinamiche umane: James ma pure Williams e Faulkner, ossia il mondo immutabile, ovattato quanto violento e crudele del grande Sud americano. Quindi l'appetito e la repressione sessuale legati a filo doppio all'istinto di sopraffazione e di morte; una natura incontaminata che tutto vedetollera ma che sembra sempre sul punto di richiudersi sull'uomo, sulle sue smanie, le sue azioni, per tacitarlo e riportarlo a sé.

Ciò che più di tutto colpisce, però, è la maestria e il tocco con cui Siegel - per il grande pubblico, creatore di macchine filmiche votate all'azione, al pragmatismo della resa - orchestra partiture interiori complicate, maneggia silenzi, ossessioni al limite dell'indagine psicoanalitica; indaga, senza pose da rivoluzionario ma anche senza ritrosie, i lati più torbidi del desiderio, della frustrazione e della pretesa di possesso. E lo fa da par suo, utilizzando tutti i linguaggi e gli stereotipi adatti alla bisogna: cambi ripetuti del punto di vista. dissolvenze incrociate, inquadrature sghembe o eccentriche, accorti ralenti; false piste, interpolazione dei registri realistico e fantastico. Come pure - coadiuvato dalle scelte cromatiche di Surtees e dalle musiche di Schifrin - icone/feticcio dell'immaginario gotico, della favola nera, persino dell'universo horror. Ecco, allora, specchi e avvolgenti scale buie illuminate dalle sole candele; figure femminili in ampi abiti che catturano o restituiscono le sorgenti luminose; viluppi, intrichi vegetali, i live oaks, le leggendarie querce del Sud, che proteggono ma pure assediano e isolano il collegio dal mondo. Addirittura, evidenti riferimenti al rinascimento italiano nelle scene d'impianto onirico/allucinatorio. Ugualmente inattesa è la prova di Eastwood, qui in grado di aggiungere toni maliziosi e sfuggenti alla tradizionale maschera di cowboy/poliziotto/individuo solitario insondabile, di demistificare e quindi capovolgere l'aura virile che lo caratterizza fino a dissacrarla, se è vero che l'amputazione della gamba infertagli ad un certo punto dal quintetto muliebre come primo di tanti castighi a riparazione della sua agognata promiscuità, è fin troppo scoperta metafora di ben altra mutilazione.

Girato tra New Orleans e Baton Rouge, “Beguiled" si avvale inoltre di una precisa ricostruzione delle vicende storiche. Si apre, infatti, su autentiche immagini della Guerra Civile, con Mc Burney/Eastwood a ruota trasportato all'interno del collegio, e si chiude con lo stesso protagonista seppellito al di fuori della proprietà, nel silenzio di una natura rigogliosa e placida, come a sancire la ritrovata sacralità del luogo depurato della presenza dell'elemento estraneo perturbatore. All'interno di questo moto circolare che alimenta tutta la pellicola, Siegel opera anche la propria personale elegia/rilettura dell'epopea della nascita di una nazione, sottolineando con composto disincanto che davvero per gli eroi non c'è più posto. Bene e Male - paradigmi tipici anche del western - sfumano senza attrito l'uno nell'altro. Il Caos, inteso come dissidio - e la guerra è solo uno dei suoi pressoché infiniti volti - s'impone quasi come logico risultato di sempre uguali premesse, mentre il Bene non è certo rappresentato dal soldato Mc Burney, bugiardo (si spaccia, per dire, per mormone), ondivago e profittatore. E tanto meno è incarnato dalle donne, con sfumature diverse tutte infelici, rose al tempo da una gelosia reciproca quanto da una brama di vivere estenuantemente insoddisfatta, che le trasforma - senza troppi ritegni, a guardar bene, o traumi - in un perverso clan omicida. Eliminato l'alone del mito, alla frontiera non resta che assumere le meste sembianze d'una ripetuta e fredda resa dei conti, dove onore e lealtà sono parole stranite d'una macabra litania e nemmeno la presenza femminile è più in grado di offrire ricompensa o consolazione.
TFK