King Arthur: Il potere della spada
di Guy Ritchie
con Charlie Hunnam, Jude Law, Astrid Berges- Frisbey, Djimon Hounsou, Eric Bana
USA, 2017
genere, fantasy
durata 126'
L’inizio, dobbiamo dirlo, era riuscito a sorprenderci, perché conoscendo la cinematografia di Guy Ritchie, regista de “King Arthur: Il potere della spada”, tutto ci aspettavamo tranne quello di ritrovarci nel pieno di un dramma shakesperiano. E invece, dopo una partenza all’insegna del cinema blockbuster, dominato dalla spettacolarità di una battaglia in cui a farla da padrone è l’esibizione di potenza esibita da elefanti di spropositate dimensioni, a farla da padrone è un Jude Law in versione Riccardo III, il quale aspirando al trono del fratello (Eric Bana, qui nel ruolo del papà di Arthur) non esita a venire a patti con il diavolo, uccidendo chiunque gli sia d’ostacolo, senza distinguere tra nemici e famigliari. Insomma, un clima da tragedia che stride non poco con lo spirito ludico e smargiasso del regista, autore di film quali “Lock and Stock - Pazzi scatenati” e di “The Snatch” che ce lo avevano rivelato come una sorta di Tarantino d’oltremanica. Detto che con il passare dei minuti “King Arthur” si assesta su toni più consoni al genere fantasy a cui appartiene di diritto (per il fatto di essere - lontano- epigono di un classico come “Excalibur”, di John Boorman), raccontando, da una parte, la riluttanza del futuro re, abituato a una vita d’espedienti e per nulla convinto di voler diventare il “salvatore della patria” e, dall’altra, preoccupandosi di condire la presa di coscienza del protagonista e l’assunzione di responsabilità che gli derivano dall’essere il possessore della spada magica (Excalibur) con un profluvio di effetti speciali , qui valorizzati da un ottimo uso del 3D.
Come già era successo per il dittico di Sherlock Holmes il regista inglese si confronta con la mitologia del protagonista senza timori di sorta, facendo dell’elemento filologico relativo alla figura di King Arthur (Charlie Hunnam) il punto di partenza per una discontinuità che rende il protagonista (e i suoi accoliti) più simile di quanto si possa immaginare ai personaggi del primo Guy Ritchie; come Arthur lesti con le mani e sempre pronti a sdrammatizzare le situazioni con battute e prese in giro. A confermare la sovrapposizione tra regista e personaggio c’è poi la personalità del futuro re, il cui continuo oscillare tra maturità e fanciullezza riassume come meglio non si potrebbe i pregi e difetti dell’ultimo cinema dell’ex marito di Madonna.
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