martedì, febbraio 27, 2018

FIGLIA MIA


Figlia mia
di Laura Bispuri
con Valeria Golino. Alba Rohrwacher, Sara Casu
Italia, Svixzera, Germania 2018
genere, drammatico
durata, 100'



Se mai i film si potessero leggere come un unico grande romanzo non c'è dubbio che quelli di Laura Bispuri si segnalerebbero per la propensione a essere l'uno il risultato dell'altro. E questo, a scanso di equivoci, in continuità con una lettura che a proposito del soggetto e dei temi trattati in "Figlia mia" potrebbe far pensare all'opportunità di cavalcare il dibattito sulla condizione femminile alla luce degli scandali che ne hanno messo in discussione il ruolo all'interno della società e nei rapporti con l'altro sesso. Niente di tutto questo: perché il nuovo lavoro della Bispuri riparte là dove finiva "Vergine giurata", ovvero dall'indagine intorno a un nucleo femminile ancora una volta inserito in un contesto che sembra sopportarne la presenza con una malcelata difficoltà. In "Figlia mia" pare infatti di ritrovare le stesse protagoniste del film d'esordio, che avevamo lasciato forti di nuove e rinnovate consapevolezze al termine di un percorso esistenziale che le aveva fatte ritrovare dopo una sofferta e lunga latitanza. Pur autonome nei tratti più peculiari della loro personalità, Tina e Angelica sembrano essere l'incarnazione del medesimo spirito femminile che la Bispuri si adopera di sviluppare e fare evolvere attraverso le donne presenti nelle sue storie. Come Hana e Lila, a ben vedere, anche quelle interpretate da Alba Rohrwacher e Valeria Golino nascondono la propria forza dietro l'apparenza di una fragilità che lungi dall'essere un ostacolo al raggiungimento della felicità è invece il risultato di una sensibilità costretta a muoversi in un ambiente a essa alieno. Radicalmente inserite nel proprio microcosmo, Tina e Angelica per diverse ragioni ne sono emotivamente avulse. La prima, costretta dalle regole sociali a nascondere le origini della propria maternità; la seconda, emarginata e solitaria per la difficoltà di mascherare la propria fame di vita. A legarne i destini e, insieme, a segnarne lo scarto rispetto al film del 2015 è la presenza di Vittoria, la bambina contesa dalle due donne alla luce di diritti acquisiti che tornano a essere rivendicati quando la piccola decide di voler vivere insieme alla madre biologica. 


Se in "Vergine giurata" il femminile si confrontava con la negazione giuridica e anche biologica di tale condizione, diventando il viaggio necessario a riaffermarla soprattutto a se stessa prima ancora che agli altri, al contrario, "Figlia mia" ne rappresenta la versione più conclamata e debordante, soprattutto se si prende in esame la spontaneità con cui le protagoniste esternano i loro tormenti. Sotto questo punto di vista, Tina e Angelica sono femmine all'ennesima potenza, poiché la Bispuri mettendo da parte buon senso e razionalità sceglie di rappresentarle nel coacervo di istintualità e contraddizioni che ne mettono a rischio il già precario equilibrio psicologico. Modalità caratteriali che l'autrice, come suo solito, riversa nel paesaggio (arcaico) circostante, anche in questo caso incaricato di fare da specchio ai sentimenti che muovono le protagoniste e qui, più che in altri casi, a fornire le caratteristiche del loro retaggio. Cosi, se in "Vergine giurata" la "tundra" albanese serviva a dare voce alle mortificazioni sopportate da Hana, con le asprezze e la desolazione della morfologia montana a significare la paralisi emotiva della ragazza, allo stesso modo in "Figlia mia" la luce accecante e l'esplosione di colori della penisola sarda fanno da amplificatore alla mancanza di reticenza e agli eccessi comportamentali dei vari personaggi. Una corrispondenza, quella tra la natura e le protagoniste resa dalla Bispuri con una simbiosi di tipo organico visualizzata durante il film da scene in cui le protagoniste sembrano volersi compenetrare con la terra in cui vivono. Al di là delle ripetute occasioni in cui vediamo le donne entrare in contatto diretto con gli elementi della flora e della fauna locale, per non dire dello stile di vita libero e selvaggio di Angelica e della bambina, a testimoniare l'importanza di quanto abbiamo appena detto, basterebbe considerare il valore simbolico assegnato dalla Bispuri alla doppia sequenza in cui vediamo Vittoria entrare e poi uscire dalla buca dove si è calata per obbedire al volere di Angelica, convinta che sotto il terreno sia nascosto un leggendario tesoro. La ricomposizione del conflitto tra Tina e Angelica e la riformulazione del nucleo famigliare in cui la funzione maschile è assunta in prima persona da ognuna della singole componenti (in questo senso l'esibita mascolinità di Vittoria nel passaggio conclusivo ne è la prova) è possibile proprio in conseguenza di quella rinascita (dalla terra "madre") a cui rimanda l'episodio prima citato. 


Va da sé che il presupposto teorico appena descritto necessitava di un dispositivo in grado di tenere testa alla carica iconoclasta delle fiammeggianti protagoniste, così come di una struttura capace di trasformare l'universo metaforico contenuto nella storia in forma narrativa capace di raccontarlo. Procedendo in maniera frammentata e lasciando alle immagini l'incarico di completare il senso di ciò che accade ai personaggi, la Bispuri appare più preoccupata di confermare la diversità delle sue donne che di rendere coerente la struttura generale del resoconto. In questa maniera "Figlia mia" dà la sensazione di procedere in maniera programmatica verso la conferma della superiorità di quella sorellanza femminile che costituisce la tesi di fondo del film. Così facendo, anche la bellezza di taluni passaggi rimane isolata e un po' fine a se stessa, mentre la recitazione melodrammatica di Golino e Rohrwacher risulta spesso sopra le righe. Passato in concorso al festival di Berlino,"Figlia mia" ha ricevuto critiche entusiastiche dalla stampa americana, garantendosi una possibile distribuzione nel mercato statunitense. 
(pubblicato su ondacinema.it)

lunedì, febbraio 26, 2018

LA VEDOVA WINCHESTER


La vedova Winchester
di Michael e Peter Spierig
con Helene Mirren, Jason Clarke, Sarah Snook
USA, 2018
genere, horror
durata, 99’



Il dottor Eric Price ha perso da poco la moglie e, di conseguenza, la fede in qualsiasi cosa. Trascorre le proprie giornate affogando il dolore nel laudano, quando viene reclutato dalla società di amministrazione della Winchester Repeating Arms Company per eseguire una perizia psichiatrica su Sarah Winchester, vedova dell'industriale delle armi e azionista al cinquanta per cento della compagnia. La donna, perseguitata dal senso di colpa per i milioni di morti che i suoi fucili hanno causato, si è trasferita a San Jose, in California, dove, giorno e notte, lavora alla costruzione di nuove stanze della sua casa, nella convinzione che siano gli spiriti stessi a domandarglielo. La storia di Sarah Winchester, irrimediabilmente intessuta tra verità e leggenda, è una delle più suggestive nel suo genere, impregnata com'è della materia di cui è fatto il cinema: visioni, fantasmi, credenza e incredulità.

Nel 2016, Bertrando Bonello ha costruito su queste fondamenta un'"opéra fantôme", un cortometraggio di potentissimo fascino. Qui, invece, adottando il punto di vista di un narratore inattendibile, obnubilato dal veleno e dalla sofferenza psichica causata dal lutto, i registi dimostrano da subito di voler operare nell'ambito del genere horror inteso in maniera tradizionale e proseguono di questo passo con orologi che scandiscono la mezzanotte e bambini che a quell'ora incedono sonnambuli. L'incontro al centro del film è, però, quello tra le due anime tormentate dei protagonisti, di cui i fantasmi che infestano la magione di San Jose potrebbero essere proiezioni emotive, se non fosse che il racconto non sale mai sopra le righe, per rimanere ancorato alla promessa stipulata, quella della ghost story, che impedisce al film di proporsi con un interesse aggiuntivo, al di là del tentativo riuscito di spaventare e della ricostruzione curata e d'atmosfera. 

Helen Mirren, perfettamente a suo agio nei panni della regina d'Inghilterra, e Jason Clarke, nei panni dello psichiatra scelto dalla vedova stessa, passano dal fronteggiarsi allo spalleggiarsi, con teatrale devozione alla causa, all'interno di un percorso scritto in partenza, per lo più godibile, proprio in ragione della sua classicità, ma zavorrato da qualche luogo comune di troppo. Per essere una storia di fantasmi, poteva prenderci più di sorpresa. 
Riccardo Supino

domenica, febbraio 25, 2018

sabato, febbraio 24, 2018

THE DISASTER ARTIST


The Disaster Artist
di James Franco
con James Franco, Dave Franco, Seth Rogen, Alison Brie, Josh Hutcherson, Zac Efron
USA, 2017 
genere, commedia
durata: 104’


In “The Disaster Artist”, il regista James Franco porta sullo schermo la vera storia a tratti comica dell’aspirante attore e regista di Hollywood, Tommy Wiseau.  Il film racconta il backstage della lavorazione del film “The Room” del 2003, film divenuto un cult, ma passato alla cronaca come uno dei film più brutti della storia del cinema. Franco gira il film dal punto di vista di Greg Sestero (interpretato da Dave Franco, il fratello di James), che aspira a divenire un attore hollywoodiano e chiede aiuto a Wiseau, divenendone amico inseparabile.

James Franco decide di parlarci di Tommy Wiseau (“Tommy non Thomas” urlerà Franco all’inizio del film), artista eccentrico con scarso talento, ma grande faccia tosta, e, soprattutto, assoluta noncuranza delle critiche altrui. E’ molto ricco, pieno di soldi e di immobili (una casa a Los Angeles, un’altra a San Francisco), ma non si conosce la provenienza di tanto denaro e neanche la sua data di nascita e la sua città di origine.

Il mistero fitto che avvolge Wiseau si avverte in tutta la storia, nella sua parlata con accento strano e improbabile, assolutamente non americano (il film è stato visto in lingua originale) per poi proiettarsi nella stessa sceneggiatura del suo film “The Room”. “The Room” è la realizzazione del suo sogno e per poterlo esaudire il regista produttore attore e sceneggiatore Wiseau investe molti milioni di dollari, addirittura acquistando e non noleggiando (come è prassi),  le apparecchiature tecniche per girare il lungometraggio.


Il film si basa  sul best seller di Greg Sestero, ma in realtà la sensazione che si avverte per tutto la durata del film è quella di ridicolizzare Tommy Wiseau anche attraverso l’esaltazione dell’assoluta bravura di James Franco nel somigliargli. Si sente il giudizio negativo del regista e attore sullo stesso Wiseau e ciò lo si avverte ancor più profondamente quando nei titoli di coda sono mostrate in parallelo le sequenze vere di “The Room” e quelle di “The Disaster Artist”. Parallelismo realizzato da Franco proprio al fine di evidenziare allo spettatore quanto in realtà fossero veramente orribili le scene di “The Room” e quanto, di converso, lui, Franco , sia stato egregio nel riproporre le stesse  in maniera fedelissima come in uno specchio. Il video è infatti affiancato ma con audio sovrapposto per sottolineare la loro assoluta sincronia. Le scene del film originale, accanto a quelle girate da lui, sono infatti praticamente identiche. La chiosa del regista sembrerebbe essere questa: io sono solo una copia, Wiseau è il brutto originale e eccezionale.

L'attore/regista dimostra pertanto di aver studiato in maniera certosina sia l'accento che la cadenza del disastroso Wiseau, immergendosi in maniera talmente intensa che spesso si fa fatica a rinvenire  differenze fra i due.

Non si comprende però quale sia stata la reale motivazione che ha ispirato il regista a mettere in scena questa storia, se non forse per mero esercizio stilistico al fine di provare e confermare quanto Wiseau fosse privo di talento e quanto invece ne avesse James Franco nel rappresentare questo personaggio.

Il messaggio che passa all’occhio ed al cuore dello spettatore è solo questo: l’assoluta mancanza di talento di Wiseau, la sua pessima recitazione e le sue urla sgraziate nel suo esprimersi, buttate lì, solo per attirare l’attenzione del pubblico. Attenzione che cattura comunque alla sua premiere di “The Room”, in cui Franco ci mostra un Wiseau che piange quando si accorge che il pubblico sta ridendo di lui e della sua sceneggiatura, nonché della sua interpretazione. Ma non appena Greg (Dave Franco) gli fa notare che invece il pubblico “si sta divertendo grazie a lui” e “non sta ridendo di lui”, Wiseau sembra credergli profondamente e convincersi di aver fatto qualcosa di buono a Hollywood.

Un film autoreferenziale che parla di un altro film (“The Room”) che già di per sé non aveva avuto nulla da comunicare al pubblico. Il risultato è conseguentemente la sinergia e l’identificazione tra due “vuoti”: infatti anche lo stesso film di Franco non comunica assolutamente nulla, neanche sotto il profilo emozionale, ostentando solo mera erudizione.  O forse una semplice superfetazione.
Michela Montanari

venerdì, febbraio 23, 2018

IL FILM DELLA SETTIMANA: IL FILO NASCOSTO


Il filo nascosto
di Paul Thomas Anderson
con Daniel Day Lewis, Lesley Mansville, Vicky Krieps
USA, 2018
genere, drammatico
durata, 130'


Per Reynolds Woodstock fare il sarto è una malattia di cui egli non fa mistero. Ad Alma, che ha appena conosciuto e che gli chiede di spiegargli perché fare vestiti gli impedisca di sposarsi, l’uomo si limita ad ammettere la propria incurabilità. L’assunto che fa da premessa a “Il filo nascosto” è essenziale per capire il nuovo film di PT Anderson. Il regista di “Vizio di forma” vi stabilisce il quadro “clinico” entro il quale prende forma il legame tra Reynolds e Alma, quest’ultimo, determinato dalla propensione “patologica” del loro innamoramento, e, come si vedrà nel corso della storia, viziato, dal rapporto di dipendenza reciproca tra le parti in causa. La scelta di presentarci un sodalizio incentrato su un’affezione di natura psicologica - quella di Reynolds, incapace di emanciparsi dalla condizione di orfano nella quale è rimasto dalla prematura morte della madre - e su una simbiosi emotiva simile a quella che si potrebbe instaurare tra medico e paziente, sembra discendere dal tipo di famigliarità esistente tra Freddie Quell e Lancaster Dodd in “The Master” (anch’esso ambientato negli anni 50) . Con la differenza che, ne “Il filo nascosto”, non solo la vicenda si svolge all’interno di una cornice chiara e istituzionalizzata (a differenza della prima, ambigua e mai dichiarata) ma con la spartizione dei ruoli di vittima e carnefice (come pure di Padre e padrone) destinata a mutare nel farsi degli eventi, con Elma pronta a prendere il posto dell’edonista e tirannico Reynolds quando si tratterà di salvare lui e la loro relazione dai fantasmi che ne minacciano la stabilità. 

Da sempre a suo agio con personaggi dalla personalità borderline, Anderson questa volta si supera mettendo a punto un dispositivo ultra controllato che gli permette di esplorare i meandri della psiche umana pur rimanendo sulla superficie del visibile. In questa maniera ogni azione o comportamento diventa il riflesso di qualcosa di più nascosto e represso, che le immagini fanno coincidere con l’irreprensibile manifestazione del galateo vittoriano. Utilizzando il sonoro e la colonna musicale (del solito Jonny Greenwood) quale cassa di risonanza del subconscio dei protagonisti, il regista ridisegna lo spazio della percezione togliendo al reale i normali punti di riferimento e aumentando la valenza psichica di ciò che  vediamo sullo schermo. Se per Reynolds l’amore (coniugale ma anche materno) combacia con il confezionamento degli abiti realizzati nel suo atelier, “Il filo nascosto” diventa innanzitutto la messa in scena dell’eros e del thanatos che lo riguarda. Summa di una filmografia aliena al contesto della produzione cinematografica contemporanea. 

Carlo Cerofolini

giovedì, febbraio 22, 2018

OMICIDIO AL CAIRO


Omicidio al Cairo
regia, Tarik Saleh
con, Fares Fares, Hania Amar
Svezia, Danimarca, Germania, Francia, 2018
genere, poliziesco, thriller, noir 
durata, 106'



Non fatevi ingannare dai nomi presenti nella locandina di Omicidio al Cairo, perché, a fronte di un lessico che fa credere allo spettatore di trovarsi di fronte a una produzione di origine araba, ciò che vediamo è, invece, il frutto di un impegno artistico e di capitali proventi dalla Svezia, paese in cui sono nati sia il regista Tarik Saleh che l’attore protagonista Fares Fares. L’annotazione non è di poco conto se si pensa alla materia affrontata. Sarebbe stato infatti impossibile per un regista egiziano riuscire a girare una storia come quella di Omicidio al Cairo, ambientata alla vigilia degli scontri di piazza che, a partire dal gennaio 2011 spinsero, tra l’altro, alle dimissioni del presidente in carica Hosni Mubarak. E questo, non tanto per lo svolgimento della trama, che vede un ufficiale di polizia scoperchiare il marcio nascosto dietro l’assassinio di una giovane cantante in cui sono coinvolti alti membri delle istituzioni, quanto piuttosto per la mancanza di filtri con cui il regista descrive il degrado morale e la corruzione presenti in ogni strato della società locale.

Alla stregua de La Isla Misma, che metteva in relazione i fantasmi di uno dei periodi più bui della storia spagnola (il franchismo) con i misfatti compiuti da un misterioso serial killer, cosi Omicidio al Cairo crea una corrispondenza tra il clima da fine del mondo che si registra per le strade della capitale e il senso di morte prodotto dagli avvenimenti che scandiscono le indagini del protagonista. In questo modo, gli stilemi del cinema noir, costituenti l’orizzonte psicologico e morale entro cui si compiono le azioni del protagonista, si alimentano di un surplus emotivo suscitato dai riferimenti storici e cronachisti.

Lontano da ogni retorica e senza mollare neanche per un attimo il filo della narrazione, Omicidio al Cairo riprende certe atmosfere presenti nei romanzi di Raymond Chandler, aggiornandole allo spirito dei tempi e soprattutto ai dettami di certo cinema neo noir, in cui la classicità dei personaggi si colora di nuove sfumature. In questo modo il capitano Norreudine, pur schierato dalla parte dei buoni, è lontano dall’integralismo etico dell’investigatore Marlowe; d’altro canto l’ossessione per la donna uccisa (Addio mia amata) e l’investigazione intesa come strumento di espiazione personale rilanciano – senza sfigurare –  il confronto con i modelli più celebri del genere. Ispirato all’uccisione di una nota  pop star libanese, Omicidio al Cairo non mancherà di far discutere per le molte analogie con  il caso relativo alla morte del nostro Claudio Regeni. Da non perdere quando arriverà nelle sale italiane.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)


mercoledì, febbraio 21, 2018

SCONNESSI


Sconnessi: ritratto di famiglia in un interno
di Christian Marazziti
con Fabrizio Bentivoglio, Ricky Memphis, Carolina Crescentini, Stefano Fresi, Eugenio Franceschini, Antonia Liskova, Benedetta Porcaroli, Giulia Elettra Gorietti, Maurizio Mattioli, Lorenzo Zurzolo, Daniela Poggi
Italia 2018 
genere: Commedia
durata: 90’


Ettore (Fabrizio Bentivoglio) è uno scrittore che decide di festeggiare il suo sessantesimo compleanno con tutta la sua famiglia “allargata” nel suo accogliente chalet in Trentino, a Fiera di Primiero. Tra figli, Claudio (Eugenio Franceschini) e Giulio (Lorenzo Zurzolo), la seconda giovane moglie incinta, Margherita (Carolina Crescentini) ed i di lei fratelli (Ricky Memphis e Stefano Fresi). La riunione familiare si rivelerà catastrofica soprattutto nel momento in cui una tempesta di neve farà saltare ogni tipo di connessione telematica rendendo tutti “sconnessi”. Girato a Fiera di Primiero in Trentino, in una cornice suggestiva, Sconnessi è una commedia divertente e ben confezionata, con un cast di attori corali e collaudati per la cd. “commedia all’italiana”. Il classico noioso e difficile weekend familiare fuori porta offre lo spunto per trattare e far emergere un problema ormai divenuto più sociale che mai: i social ed il loro utilizzo. I social come Facebook ed Instagram non sono dannosi e pericolosi di per sé (il giornalista Riccardo Luna in sala durante la conferenza stampa evidenzia che non sono i social il male del secolo bensì la loro eventuale sbagliata utilizzazione), ma solo il loro smodato e incontrollato uso comportano l’insorgere di una specifica patologia.  Si tratta della cd. “Nomofobia” (dal termine anglosassone nomophobia composto da nomo (forma abbreviata di no mo (bile phone) e da -phobia (paura): la paura di non poter usare il cellulare.


L’ansia tra tutti i protagonisti infatti si palesa e diviene centrale durante il fine settimana, non appena si rendono conto di non essere connessi alla rete, di non poter utilizzare il loro cellulare per vedere video, non poter partecipare a feste on line, inviare a pagamento immagini sessuali o giocare d’azzardo. Ecco che a questo punto la coralità di tutti i personaggi si esprime e si incarna proprio nel loro essere dipendenti, “addicted”: ognuno di loro, infatti, ha una sua specifica dipendenza in cui ci cade e ci si immerge totalmente, al punto che alla fine – grazie al riconoscimento della propria ansia  - riesce a riconoscere la stessa e catarticamente ad uscirne. Lo stesso Ettore (Bentivoglio) è un addicted: lui dipende dalla carta stampata e dalla sua vecchia macchina da scrivere su cui ostinatamente continua a cercare di trovare il finale al proprio libro.   Stefano Fresi (Palmiro) è un bipolare dalla personalità border-line e dipende dai farmaci; Ricky Memphis (Achille) è un Ferrari-dipendente. Il figlio maggiore di Ettore, Claudio è dipendente dal gioco d’azzardo. La tempesta di neve è il deus ex-machina di matrice greca che appare e fa sì che la tragedia arrivata al suo culmine si ricomponga attraverso la chiave delle emozioni condivise. Infatti in un attimo, all’improvviso ed inaspettatamente sono i sentimenti che riavvicinano i membri della famiglia, li fanno vicendevolmente contattare con se stessi e condividere le emozioni attraverso un contatto visivo e carnale non più mascherato da uno schermo del cellulare.

Il radical chic Ettore giunge persino a bruciare il suo stesso io: i suoi libri, nel momento in cui getta nel fuoco del camino il suo “Coma digitale” per uno scopo nobile: riscaldare i propri cari dal gelo della tempesta e nel tepore dell’ambiente si sciolgono come d’incanto tutte le diffidenze nei rapporti personali tra padre e figlio, tra matrigna e figliastri. L’affetto e le emozioni prima di ogni cosa nella scala delle priorità.

Accade dunque la Magia. E tutto senza che i protagonisti siano stati neanche per un attimo connessi in chat.  Un film che riesce a far ridere, ma anche a far riflettere su come ultimamente si stia perdendo di vista l’abbraccio sincero tra le persone, la carnalità di un bacio e il sapore di una lacrima che scorre realmente sulle guance e che non si cristallizza sul giallo di una faccina emoticon digitata su whatsapp. Esilarante Ricky Memphis, convincente Carolina Crescentini nel suo ruolo di burina “de Tor Pignattara”, ma, soprattutto, è Eugenio Franceschini la rivelazione come attore in questo plot cinematografico. Il consiglio è -parafrasando ciò che dice Bentivoglio – di cliccare almeno 2.600 volte al giorno su “Sconnessi” anche se non è necessario ed anche se, a rigore, basterebbero solo 14 click al giorno.
Michela Montanari

martedì, febbraio 20, 2018

HOME VIDEO: BLADE RUNNER 2049


Finalmente in DVD, Blu-ray™, e 4K Ultra HD dal 7 febbraio 2018 con Universal Pictures Home Entertainment Italia


Blade runner 2049
di Denis Villeneuve
con Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas
USA, 2017
genere, fantascienza 
durata,152’


Nel 2049, l’agente K è un blade runner della polizia diLos Angeles. Sono passati trent'anni da quando Deckard faceva il suo lavoro. I replicanti della Tyrell Corporation sono stati messi fuori legge, ma poi è arrivato Niander Wallace e ha convinto il mondo con nuovi "lavori in pelle": perfetti, senza limiti di longevità e, soprattutto, obbedienti. K è sulle tracce di un vecchio Nexus, quando scopre qualcosa che potrebbe cambiare tutte le conoscenze finora acquisite sui replicanti, e dunque cambiare il mondo. Per esserne certo, però, dovrà andare fino in fondo. Come in ogni noir che si rispetti dovrà, ad un certo punto, consegnare pistola e distintivo e fare i conti da solo con il proprio passato.
Ridley Scott produce, mentre alla regia c'è Denis Villeneuve, supportato dalla fotografia di Roger Deakins, che non si può non annoverare tra gli autori di questo film. La sua tavolozza e l'impressionante lavoro di scenografia definiscono il climameteorologico del film più di ogni altro elemento.
Ed è certamente sul piano visivo, e delle scelte operate in questo senso, che il film di Villeneuve trova la propria originalità costitutiva: quella di un ibrido trablockbuster e film personale, specie nella gestione del tempo, che il canadese sottrae alle logiche di mercato e fa proprio nel bene e nel male, lungaggini comprese. 


Il disordine e la spazzatura della L.A. del 2019 sono un ricordo lontano: ora tutto è ordine, K stesso, come gli ricorda il suo capo, è pagato per mantenere l'ordine. Ma non è facile assolvere questo compito quando i ricordi d'infanzia si mescolano agli interrogativi metafisici, proprio come in "Fuoco pallido", il romanzo di Nabokov che torna a più riprese. Non è facile quando, come nell'archetipo di ognidetection contemporanea, la tragedia di Edipo, cacciatore e cacciato sono la stessa persona. Dice tante cose, il film di Villeneuve, forse troppe. E di certo non le dice sempre nel migliore dei modi: non ha la semplicità dell'originale, stordisce di spiegazioni, arriva persino in ritardo sulle intuizioni dello spettatore, ma la forza interna del racconto, la materia di cui è fatto, è così potente che trascina oltre, come una corrente.


C'era un nucleo di coerenza interna, che bruciava ad altissime temperature, e che faceva del Blade Runner di Scott qualcosa che non si poteva smembrare, anche se poi a restare nella mente erano alcune immagini in particolare, com'è naturale che sia. Il film di Villeneuve non possiede questa coerenza: i suoi capitoli, le sue immagini sono molteplici, diversificate, spesso non così originali come sembrano. Si sente forte l'eco di altre saghe, di altre visioni. Ma ci sono scene, nonostante tutto, che sarà impossibile dimenticare, che ci resteranno negli occhi a lungo.
Riccardo Supino

BLACK PANTHER


Black Panther
di Ryan Coogler
con Chadwick Boseman, Michael B Jordan, Lupita Nyong'o, Angela Basset
USA, 2018
genere, fantascienza, avventura, azione, drammatico
durata, 135'


"Black Panther" è il 18esimo prodotto del Marvel Cinematic Universe e rischia di diventare una delle punte di diamante del filone dedicato ai supereroi creati da Stan Lee e soci. I segni del primato, ancora da verificare sul piano degli incassi, sono invece già visibili a partire dalle sue istanze produttive. Il film diretto da Ryan Coogler, infatti, ha due caratteristiche altrove non riscontrabili in un progetto di questa portata. La prima è legata alla sua tipologia cinematografica, ossia al fatto di trovarci per la prima volta davanti a un film miliardario e più precisamente a un blockbuster pensato, diretto e interpretato da artisti appartenenti alla comunità afro-americana. La seconda, invece, riguarda il tipo di fascinazione di cui "Black Panther" si fa portatore, mai come questa volta originata e resa manifesta dalla presenza di attori che tanto nei ruoli principali, quanto in quelli secondari, non vedono tra le loro fila interpreti bianchi, anglosassoni e protestanti, esclusi del tutto o quasi dallo show messo in piedi dal regista. A parte Andy Serkis e Martin Freeman in ruoli minimal, a campeggiare in cartellone sono star di ultima generazione quali Chadwick Boseman (il principe T'Challa/Pantera nera), Michael B. Jordan, Lupita Nyong'o e Daniel Kaluuya supportate da veterani di classe come Forest Whitaker e Angela Basset. Una scelta di per sé rivoluzionaria per il fatto di attribuire al modello di bellezza rappresentato da queste figure un'universalità nella quale si possa riconoscere non solo lo spettatore di parte ma anche il resto del pubblico. Un vento di rinnovamento destinato a soffiare anche sulla trama del film e, in particolare, sulle premesse che fanno da sfondo all'ascesa al trono di T'Challa, destinato a prendere il posto del padre nella conduzione del regno di Wakanda, non prima di aver affrontato la sfida dell'altro pretendente, al secolo Erik Killmonger, disposto a impossessarsi dello scettro per poi procedere alla conquista del mondo, grazie al potere fornito dal prezioso vibranium, il metallo di cui lo stato è unico detentore. Come altro potrebbe intendersi se non il capovolgimento dell'immaginario dominante, quello che nel film vede lo stato africano al vertice della mappa geopolitica mondiale - la cui potenza deriva da un dettaglio non da poco che è quello di essere padrone della materia prima presente nel suo territorio - a stabilire un quadro ideale esattamente opposto a quello in vigore nella realtà dei nostri giorni?


Senza volersi infilare in analisi che esulano dalla questione cinematografica, non si può fare a meno di notare le connotazioni politiche e sociali presenti nella sceneggiatura scritta dallo stesso Coogler che, come altri colleghi, sembra riflettere in maniera critica sugli effetti della presidenza Trump. Vale la pena ricordare, inoltre, che fin dalla sua nascita, avvenuta sulle pagine del numero cinquantaquattro de "I Fantastici Quattro", il personaggio di Black Panther, nell'attribuita superiorità fisica e intellettuale, divenne subito espressione (politica) del black power teorizzata da Stokely Carmichael - leader del movimento delle Pantere nere - nella battaglia per il riconoscimento dei diritti civili negati alla popolazione di colore. Coogler, dunque, tiene desto l'immaginario del personaggio in questione spingendosi ancora più in là rispetto alle prerogative dei suoi natali, se è vero che la lotta per il potere, così come la scelta di colui che dovrà decidere le sorti del mondo, sono un problema interno alla nazione africana e, cinematograficamente parlando, di una superiorità estetica e di gusto che "Black Panther" esibisce in ogni fotogramma della sua storia. Affermazione, questa, che trova riscontro nella decisione di enfatizzare le caratteristiche del villain di turno, qui più che altrove vero e proprio doppio del protagonista, non solo per il colore della pelle e per il riconosciuto appeal dell'attore che lo interpreta (pari, se non superiore a quello di Boseman) ma soprattutto per il fatto che Michael B. Jordan avrebbe avuto tutte le caratteristiche - a cominciare dallo statuto divistico - per incarnare egli stesso la parte dell'eroe, come peraltro ha fatto nei film che ne hanno decretato la fama.


Senza dimenticare il retaggio culturale e soprattutto tribale all'interno del quale si svolge la vicenda, valorizzato, quest'ultimo, da coreografie che trasformano le scene d'azione (sontuosa, in questo senso, quella che accompagna l'incoronazione di T'Challa, orchestrata alla maniera di una tragedia greca), in una specie di danza propiziatoria, e da uno sfoggio di costumi e accessori appartenenti al folklore degli antenati della comunità africana. Certo, si potrà obiettare che una cosa del genere si era già già vista nei wuxia di Zhang Yimou e ciò è in parte vero, ma se nel caso appena citato questi aspetti erano parte integrante dei codici propri di quel tipo di film, ovvero della tradizione a cui fanno riferimento, nel caso di "Black Panther" non solo la questione si presentava del tutto nuova ma era chiamata ad armonizzarsi con un contesto - quello mainstream - di tipo industriale, cioè destinato a veder la prevalenza del mercato sull'arte. Così, pur rimanendo "Black Panther" un prodotto commerciale e, nello specifico, un lungometraggio dove le scene d'azione e gli effetti speciali relegano in subordine finezze psicologiche ed eventuali complessità della trama, bisogna dire che la compresenza tra passato e presente, modernità e tradizione, riesce a convivere senza penalizzare né l'una né l'altra, mantenendo inalterata l'efficacia del messaggio di cui il film si fa interprete, nel quale, per una volta, la muscolosità dei corpi e la loro smaccata potenza segnano un punto a favore della coerenza interna dell'opera e del suo assunto di base.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, febbraio 19, 2018

SLUMBER: IL DEMONE DEL SONNO


Slumber: il demone del sonno
di Jonathan Hopkins
con Maggie Q, Kristen Bush, Sam Troughton
USA, 2017
genere, horror
durata, 84’


Da bambina, Alice è stata testimone della morte del fratellino sonnambulo, preda di strane visioni. Adesso Alice, felice madre di famiglia, è una dottoressa e si occupa di disturbi del sonno in un ospedale specializzato. Una famiglia molto turbata, quella dei Morgan, viene a chiedere il suo aiuto professionale. Uno dei figli è morto nel sonno e un altro, Daniel, cammina e parla nel sonno, a volte urla. Inoltre, tutta la famiglia, compresa la sorellina di Daniel, soffre di turbe del sonno. Alice rivede nel piccolo Daniel sintomi analoghi a quelli del fratellino morto e ne è turbata. Anche lei comincia ad avere disturbi del sonno e crisi di sonnambulismo. Nel clima asettico dell'ospedale inizia l'osservazione del sonno dei Morgan. C'è fiducia, ma Daniel teme che ciò che lo turba torni.

L'universo onirico è da sempre terreno fertile per il cinema dell'orrore. Sogni e incubi permettono di rappresentare un immaginario macabro e suggestivo di sicuro effetto: l'irruzione del sogno nella realtà e viceversa, con confini incerti e frastagliati, ha suggerito negli anni concezioni visionarie di grande impatto.


Nel caso di questo film, l'approccio non è molto diretto, secondo il vecchio e sempre valido principio che meno si vede e maggiore è l'inquietudine: il "mostro" è elusivo e sfuggente, potrebbe addirittura non esserci. I riferimenti alla pittura di Füssli ne suggeriscono una concezione persuasiva, ricollegata a paure ancestrali: il sonno è in effetti una sorta di abbandono momentaneo a qualcosa che assomiglia alla morte e il risveglio non è così scontato. Da questo punto di vista il film funziona e in più di qualche momento riesce a tenere alta la tensione, grazie anche a una buona gestione dei jump scares. Meno valida è la gestione della credibilità della storia, soprattutto nel comportamento dei personaggi, che più di qualche volta si segnala come incongruo, a partire dal fatto che per essere un ospedale in cui si deve osservare il comportamento dei pazienti durante il sonno, si verificano un po' troppe distrazioni. Anche l'inserimento di personaggi pittoreschi, come il nonno dell'addetto alle pulizie, con funzioni piattamente espositive e di deus ex machina, nuoce un po' alla forza drammatica della storia. 

L'esordiente Jonathan Hopkins mostra buone qualità soprattutto nella creazione di un clima cupo e ossessivo, nel quale ogni soluzione sembra impossibile: in alcuni momenti è anche bravo nel dipingere la frenesia surreale e ossessiva dei sogni che si trasformano in incubi, mentre altrove si muove su binari più prevedibili, sempre comunque con discrete capacità nella regia. La soluzione finale non sorprende, ma si può apprezzare la concisione del film, che non si perde in lungaggini e mantiene un buon ritmo.

Convincente la prova di Maggie Q, che conferisce pathos a un ruolo, quello della protagonista, non sempre sufficientemente approfondito in fase di sceneggiatura. Un po' sopra le righe, invece, Sylvester McCoy.
Riccardo Supino


domenica, febbraio 18, 2018

A CASA TUTTI BENE


A casa tutti bene
di Gabriele Muccino
con Stefano Accorsi, Pierfrancesco Favino, Stefania Sandrelli, Ivano Marescotti, Sabrina Impacciatore
Italia, 2018
genere, drammatico
durata, 105'


In attesa di capire cosa ne sarà dell'esperienza americana che oggi sembra volersi riprendere indietro sogni e opportunità che gli aveva regalato, Gabriele Muccino continua a dare sostanza al suo ritorno al cinema italiano. Se "L'estate addosso" era sembrato più una scusa per rimettersi a lavorare, cercando di tirarsi fuori dall'impasse provocata da una serie di progetti mai andati in porto, "A casa tutti bene" appare come una vera e propria restaurazione dell'universo mucciniano, non fosse altro che per il fatto di ritrovare Muccino in veste di sceneggiatore di un suo film dopo un'assenza durata ben otto anni ("L'ultimo bacio", 2008). Il che, per "A casa tutti bene", significa rafforzare una vicinanza con la materia narrata che, nello specifico, è destinata a essere non solo il frutto della propensione a raccontare un certo tipo di conflittualità, bensì la trasfigurazione filmica di un sentimento che lo chiama in causa in prima persona. Come altro leggere, altrimenti, la scelta da parte di Muccino di un copione cosi scontato come quello di "A casa tutti bene", se non quello di utilizzare lo schermo per riversarvi, a mo' di terapia, le vicissitudini famigliari emerse nel ripetuto scambio di accuse (pubbliche) con il fratello Silvio. Vale dunque la pena accennare alla trama, incentrata sulla riunione di figli e parenti organizzata da una coppia di anziani coniugi (Pietro e Alba) nei pressi della villa ubicata in un'isola di fronte al Lazio, così come sottolineare che, come al solito, il venir meno del quieto vivere all'interno del sodalizio è causato dall'eterogeneità caratteriale del nutrito gruppo di invitati e dalle fragilità delle rispettive condizioni esistenziali destinate a deflagrare nel momento in cui i nostri sono costretti a convivere per qualche giorno sull'isola a causa del maltempo che impedisce il movimento dei traghetti. Insomma cose già viste e risapute che però permettono a Muccino di ritornare sulla difficoltà dei rapporti famigliari ("Io sono cresciuto orfano, a me la famiglia mi sta sul cazzo!" afferma Pietro) e su temi come dell'impossibilità di vivere una vita normale ("Le vite normali non esistono" dice Alba, a cui presta il volto Stefania Sandrelli), da sempre in primo piano nella sua filmografia. A distanza di tempo e di lungometraggi come "L'ultimo bacio" e "Ricordati di me", Muccino sembra ritrovare sempre la stessa umanità, afflitta come Carlo, Paolo e Sara dalle insoddisfazioni di matrimoni finiti o mai iniziati, e per questo disposta a tutto pur di innamorarsi un'altra volta. In questo senso, la presenza di Stefano Accorsi e del personaggio da lui interpretato è esemplare. Paolo, infatti, rappresenta l'ultimo capitolo di una continuità sentimentale espressa indipendentemente dal ruolo ricoperto dall'attore bolognese, il quale, pur figurando nella parte che nel film del 2001 fu di Martina Stella, (single tentatore pronto a far girare la testa alla controparte), e lasciando alla bella di turno, tristemente maritata, quella del Carlo de "L'ultimo bacio", è destinato, comunque, a rimanere un personaggio a metà del guado, eternamente sospeso tra desiderio di trasgressione e voglia di normalità.


Semmai, come fattore di novità, c'è da registrare il ruolo tutto sommato marginale assegnato alla compagine adolescenziale e, più in generale, ai personaggi più giovani. Altrove al centro dell'attenzione, in questo caso il "come te nessuno mai" dei giovani fidanzati Luna ed Edoardo risulta marginale nell'economia della storia e viene utilizzato più che altro per esprimere un punto di vista critico e distaccato di fronte all'insensatezza del mondo degli adulti. In questo senso, anche la fine, con ciò che ne sarà dei rapporti (vecchi e nuovi) posti in essere durante la forzata convivenza, è indicativo di una crisi generalizzata di fronte alla quale si rimane attoniti come succede a Carlo (Pier Francesco Favino, uno dei tanti attori "mucciniani" presenti nel film) nella scena finale di fronte alle parole che gli rivolge la moglie prima di salire in macchina.



Allineato con il resto della sua filmografia, "A casa tutti bene" si porta dietro pregi e difetti del suo autore, i quali, in ordine sparso, sono quelli di una messinscena capace di non perdere di vista le (micro) storie relative ai molti protagonisti della vicenda e di un uso della mdp, la cui fluidità sembra ritornata a livello delle opere migliori. Qualità, queste, impoverite da un edonismo che prevale sul tentativo di scavare nelle psicologie, così come nella preferenza di soluzioni accattivanti ma stereotipate Prova ne sia in "A casa tutti bene" il ricorso sistematico a scene di gruppo in cui i personaggi si ritrovano a cantare sulle note del pianoforte suonato da uno di loro. Se è vero che il karaoke di alcune celebri canzoni è strumento drammaturgico capace di spezzare e prendersi una pausa dal crescendo di nevrosi e tensione, è altrettanto lapalissiano che una trovata del genere risolva nella maniera più facile e ammiccante la volontà di far risaltare la struttura corale della storia. E che dire, per esempio, della premessa narrativa costituita dalla "vacanza" sull'isola, in altri film (quelli di Guadagnino) capace di diventare un altrove in grado di sfruttare il fuori campo e di entrare in dialettica con la mitologia del paesaggio italiano e qui, invece, annullata da una regia, di fatto, interessata a girare solo in interni. Nessuno dice che "A casa tutti bene" sia un film da non vedere, perché almeno dal punto di vista dell'intrattenimento può soddisfare le aspettative del suo pubblico, ma come la mettiamo con il fatto che usciti dal cinema dello stesso non si ricordi più nulla?
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)