Final Portrait
di Stanley Tucci
con Geoffrey Rush, Armie Hammer, Clémence Poésy, Tony Shalhoub
UK, 2017
genere, biografico, drammatico
durata, 90’
L’artista svizzero Alberto Giacometti vive a Parigi negli anni ’60. Ha un atelier ed i suoi lavori sono abbastanza quotati ed ha un grande successo. Lo scrittore americano James Lord si trova anche lui a Parigi e commissiona un suo ritratto all’artista. Inizialmente il ritratto avrebbe dovuto essere ultimato in pochi giorni, ma poi, di fatto, il lavoro si protrae per quasi venti, restando comunque incompiuto. Lord irritato e sconfortato riparte per New York con il quadro, pubblicando poi un suo manoscritto – resoconto su questi 20 giorni passati nell’atelier con Alberto Giacometti. Alla sua quinta regia Stanley Tucci con “Final Portrait” decide di portare sulle scene proprio l’Arte con tutte le sue caratteristiche, prima tra tutte quella dell’incompiutezza di un‘opera, incompiutezza che racchiude la stessa natura ontologica dell’Arte. Ogni artista, da sempre, in ogni secolo, ha vissuto sulla sua pelle il dramma conflittuale del non raggiungere mai la perfezione nelle proprie opere. E, di conseguenza, spesso lasciare la propria opera incompiuta è stata la precisa scelta dell’autore per lasciare che sia lo spettatore ad avere diverse ed infinite opportunità di valutazione.
Nello stesso modo sceglie di comportarsi Stanley Tucci nel suo “Final Portrait”: è la storia di un ritratto, quello dell’intellettuale americano James Lord interpretato da Armie Hammer, un ritratto commissionato a Giacometti dallo stesso Lord durante il suo soggiorno a Parigi nel 1964. Il ritratto è l’occasione, o se vogliamo, la banale scusa, per rivelarci l’indole dell’artista ed il suo rapporto, non solo con i suoi lavori, ma anche con i suoi “modelli” in posa. Per tutto il film e durante le lunghissime 18 giornate di posa nell’atelier, Giacometti ogni giorno di più si diverte a giocare e prendere in giro il suo modello, a torturarlo in qualche modo e a renderlo, alla fine, completamente asservito ai suoi capricci. Giacometti ama questo gioco che ripercorre con ogni suo modello; egli è come un bambino cresciuto e vive come tale: ha una moglie che lo accetta con tutti i suoi tradimenti e mancanze, ed un fratello che lo aiuta e supporta ogni giorno nel suo lavoro. Giacometti può fare ed essere un Peter Pan proprio grazie a queste due figure che, nonostante di primo acchito ci appaiano delle vittime, senza alcuna personalità, in realtà sono centrali e giocano un ruolo fondamentale nella vita di Alberto Giacometti. Il quale esiste ed è creativo anche grazie a loro.
Giacometti è un carnefice e vittima allo stesso tempo di fronte all’Arte ed al suo ritratto di James Lord. Per questo a volte ama con un entusiasmo esagerato come è riuscito a raffigurare lo scrittore americano, mentre altre, odia completamente ciò che ha dipinto al punto da cancellare tutto il suo lavoro. Equilibrio difficile e insostenibile tra gioia e depressione catatonica all’ennesima potenza: la personalità borderline di Giacometti nell’atelier nelle oltre due settimane di posa si va ad incontrare/scontrare con quella dello scrittore James Lord. Lo spettatore viene pertanto catapultato dentro la scena, dentro l’atelier, senza poter tirarsi indietro e si ritrova così costretto a soffrire con Lord delle intemperanze e dei capricci del pittore il quale innervosisce sempre di più lo spettatore con le sue improvvise maniacali depressioni. L’uso della camera a spalla come scelta del regista accentua questo senso di irritazione nello spettatore. Che non può non notare che la stessa evoluzione del ritratto divenga così occasione di svolgimento di diverse sessioni psicoanalitiche tra analista (Giacometti) ed il proprio paziente di turno (Lord). Giacometti provoca continuamente Lord, quasi in un rapporto sadomasochistico in cui mette alla prova la forza del proprio potere, intimandogli di restare immobile per tutto il tempo e marcando così il proprio territorio. Il risultato è che il ritratto fatto dall’artista resta incompiuto – o meglio – è lo stesso Lord, ossia il modello destinatario del quadro stesso che stanco decide con uno stratagemma di prenderselo così come è e farselo spedire a New York.
Dunque per l’Arte il ritratto è un’opera incompiuta, come d’altro canto, intimamente desiderato sin dall’inizio da Giacometti (“non si può fare qualcosa senza prima disfarlo” sostiene lo stesso Giacometti). Per James Lord, di converso, il ritratto è stato un’occasione per conoscere il Maestro e divenirne in un certo senso “amico”, attraverso le lunghe passeggiate con lui al cimitero durate i break dalla posa, parlando di Cezanne (unico grande vero pittore per Giacometti) e di Picasso (denigrato invece da Giacometti che lo accusa di aver copiato da tutti gli altri artisti). Tucci nel suo film - anche grazie alla straordinaria somiglianza tra Geoffrey Rush e Alberto Giacometti – riesce a rivelare lo sguardo creativo schizoide di Giacometti, artista affidabile e geniale ma totalmente inaffidabile nella propria vita privata. Di fronte c’è James Lord che incarna la borghesia intellettuale americana, ordinata e rigorosa. Lui è bello come una scultura greca che luccica ancor di più dinanzi al caotico sciatto e non curato Giacometti.
Film curato e attento in ogni dettaglio, ma che si rivela nel suo svolgimento troppo lento e ossessivo nonostante la bravura indiscussa del cast e dei due protagonisti pur se molto lontani tra loro per formazione e generazione. Un biopic che non è un vero classico biopic, bensì un estratto della vita dell’artista volto a sancire e consacrare il concetto che l’Arte è un’Idea e come tale è Infinita.
Forse Tucci in quest’opera è stato fin troppo focalizzato sul particolare al punto da perdere di vista la globalità dell’intera storia sull’artista, che ci lascia a luci spente sui titoli di coda il sapore dell’occasione mancata.
Michela Montanari
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