Super 8
di,J.J.Abrams.
con Joel Courtney, Elle Fanning
con Joel Courtney, Elle Fanning
genere, fantascienzaUSA 2012
durata, 112'
durata, 112'
Giunto tra noi nel '66 - l'anno di "Fahrenheit 451", per dire, ma pure di "Un milione di anni fa" curato da Harryhausen e di "Katango" di Honda, come del terremoto musicale di "Pet Sounds" - J.J.Abrams (Jeffrey Jacob), alla terza regia con "Super 8", decide di fare tutto da solo in sede di scrittura e regia e di cominciare il lucido itinerario degli omaggi mirati della sua operazione affettuosa ma non devozionale a partire dalla co-produzione (Spielberg), dall'egida sotto cui darle forma (la Amblin Entarteinment, assieme alla Bad Robot e alla Paramount) e dall'officina specializzata a cui attingere per le meraviglie visive (la ILM, figlia prediletta della LucasFilm). Alla fine il risultato, lo si può dire subito, è un'opera che amalgama fantastico e romanzo di formazione - di gusto amabilmente retrò, passione cinefila e ricalco della medesima - messa a contatto con tensioni giovanili di vario genere (emotive, sessuali, legate al rivelarsi del mondo e all'apprendimento) e venature horror, elementi entrambi trattati con occhio più vicino alla contemporaneità.
La vita è dura per chiunque a qualunque latitudine ma nel cuore della provincia americana, gli anni '80 alle porte, una madre scomparsa in circostanze tragiche e pochi anni sulle spalle, può assumere anzitempo sfumature orientate alla disperazione, se non s’è dotati d’una tenace fantasia e - perché no - d’una non comune abilità artigianale. Joseph Lamb, detto Joe, orfano di madre (elegante bellezza all-american che appare tanto di rado quanto più si fissa nella memoria) tenuta sempre vicino al cuore dentro un ciondolo e da far rivivere nelle immagini dei filmini amatoriali di famiglia (il primo super 8), costruisce modellini, legge fumetti, gira in bici e fa parte della troupe - tecnico per il sonoro, gli effetti speciali e il trucco - d’un film a tema zombie, in corsa per un premio scolastico, curato dal coetaneo regista e migliore amico Charles Kaznik, fanatico dell'horror e sempre a caccia d'inquadrature memorabili. Incastrando a fatica i pezzi della grande opera, Kaznik s’accorge della mancanza d’un ingrediente decisivo: l'altra metà del cielo. Quale utopia più grande, allora, del ruolo di protagonista per la più bella della scuola (di cui sia lui che Joe sono innamorati), la biondissima Alice Dainard (una assai più sorprendente della sorella Dakota, Elle Fanning), che di sicuro "non accetterà mai", invece accetta ? La storia è destinata comunque a prendere una piega se possibile ancor più imprevista, nell'istante in cui girando in esterno, al crepuscolo, presso una linea ferroviaria, l'intero gruppo di ragazzi (altri tre amici completano la combriccola dei cineasti in erba: Martin, Preston e Cary) assiste al deragliamento - indotto dalla presenza d’un pick-up che marcia contromano sui binari - d’un misterioso treno lanciato a velocità folle targato US Air Force dal quale, a frittata fatta, qualcosa fugge nella notte…
Le ragioni del Cinema fantastico si differenziano da quelle degli altri generi (pensiamo, molto schematicamente, alla rocciosa solidità dei canoni western; alle inderogabilità di un meccanismo logico - o sovvertitore della logica - per il noir; alla scansione dei tempi nella commedia e nel melodramma) per una specie di magica coesistenza di atmosfere, di suggestioni, di rimandi, tale da far sì che ogni narrazione abbia, insieme, il rarissimo sapore dell’esperienza ultimativa e il respiro lungo d’un'unica gigantesca avventura (della vita adesso, con tutto quello che può starci dentro, e dei tempi a venire, ossia di ciò che sarà domani): un continuum sul serio in grado di rendere più permeabili le barriere dello spazio e del tempo. In tal senso, un lavoro come "Super 8", prodigo di riverberi, di recuperi, di quasi millimetriche riproposizioni, si pone come punto di vista supplementare - leggermente scentrato, più malinconico e ansioso - nel flusso di questa perenne epopea dell'inventiva. Per tale ragione, gli evidenti debiti contratti con l'immaginario in primis spielberghiano - la provincia, il generico midwest tutto villette e prospettive alberate dai cui incroci ritrarsi verso l'alto con morbidi dolly a catturare punti di fuga più ampi; il cielo notturno stellato che s’appoggia/incombe sulle cittadine silenti; le numerose famiglie allargate più o meno disfunzionali con - quando presenti - genitori indaffarati e bonari, torme di fratelli e sorelle, in specie i piccoli e piccolissimi, chiacchieroni e spaccatutto; pomeriggi trascorsi in bicicletta con l'amico del cuore a fare le pulci al mondo; quella dimensione del sovrannaturale, dell'extraterrestre, accostata davvero come una possibilità reale ma più ancora come stupore,incanto per le sorprendenti fattezze che può assumere quella strana condizione che è esistere, scarto antropologico miglia e miglia lontano dall'atteggiamento di altero scetticismo che antepone sempre o quasi la rielaborazione tragica o simbolica tipica di contesti e mentalità più razionali - si saldano quasi per intero allorché Abrams s’appropria di quegli snodi, di quelle soluzioni formali per declinarle nei termini d’una sensibilità che alla ribalderia e all'ottimismo del meraviglioso del Maestro di Cincinnati oppone un qual disinganno e una malcelata mestizia. Ecco che, allora, ai voli senza rete dei bikers infanti in "ET", si risponde con le corse contro il tempo in cunicoli sottoterra, bui e ingombri di corpi/riserve-di-cibo e rottami. Così come, alla blanda guerra generazionale all'interno dei nuclei familiari (se non a una chiara sovrapposizione di ruoli - adulto/adolescente - per il Dreyfuss di "Incontri ravvicinati..."), fanno distorta eco gli attriti brutali - e si lascia immaginare persino violenti - reiterati nel vincolo antagonista tra Joe, ragazzino ferito dall'assenza della madre, e il padre Jackson, vice-sceriffo chiamato dagli eventi a tenere le redini dell'intera comunità: alla stessa maniera di quello tarato su un’iniziale indifferenza e incomunicabilità tra Alice e il di lei padre Louis. E alla spensieratezza della prima giovinezza, s’affiancano qui i germi d’una condizione simile all'innamoramento (l'attrazione già detta di Joe e di Charles per la bella-dall'aria-triste Alice); le pose cool mutuate dal rock (in gruppo si accenna "My Sharona”). All'abbraccio interculturale tra forme di vita (noi e gli alieni), si sostituisce l'ostilità venata di disperazione d’una creatura costretta ad agire da mostro (risultando così, a ben vedere, più imparentata allo xenomorfo distruttore di "Cloverfield" - produzione abramsiana di tre anni prima - che agli strani bambini di "Incontri" o al tenerissimo moccioso ET). Ma sopra ogni altra cosa, alla fascinazione ludico/sportiva connaturata all'età, si sovrappone la precoce predilezione per la manipolazione della materia, per l'esercizio pratico dell'immaginazione (i modellini e il trucco per Joe, richiamo esplicito a un'intera tradizione artistica made in USA che a partire dal genio di Disney si replicherà tante volte, in tanti altri itinerari non meno geniali, come quelli di Arnold, di Harryhausen, appunto, per giungere a quello di Corman, inesauribile tuttofare della settima arte), prerogativa per definizione senza spazio e senza tempo. E da qui al piacere di narrare storie, il passo non può che essere breve. Da qui al Cinema c'è Charles Kaznik e il suo film sugli zombie, ossia il super 8 propriamente detto (assieme alle camerette tappezzate di locandine di "Halloween" e "Star Wars", nel cui tipico disordine, tra felpe, guantoni da baseball e palloni da basket, fanno capolino pile di fumetti, libri illustrati e telescopi), con le sue riprese incerte, le sue acerbe invenzioni, il suo bisogno d’essere sviluppato, proprio come la pellicola che scorre dentro la cinepresa e produrrà la visione segreta e rivelatrice della realtà. Di conseguenza, il gesto di Abrams ha poco d’agiografico (quindi di consolatorio) ma si caratterizza più per essere un tentativo d’ulteriore prolungamento delle coordinate del fantastico, nel senso d’un'accorta quanto appassionata catalogazione/revisione dei suoi elementi più esteriori e d'immediata fruibilità, ovvero d’una parte consistente della struttura portante di questo mondo.
Su tale linea e seguendo la medesima inerzia, si può muovere anche un ragionamento circa i corpi e i volti (quelli dei ragazzi, in particolare, gli adulti essendo caratteristi più o meno affermati, quindi quasi sempre una garanzia di continuità, almeno per il cinema a stelle e strisce) sui quali è stata giocata una delle scommesse (vinte) del film. L'incarnato chiaro, allora, le facce pulite su cui si rincorrono imbarazzi e meraviglie, riecheggiano, per immediate corrispondenze, l’America trionfante e soddisfatta di Rockwell. Al di sotto, però, s’agitano animi travagliati e tutt'altro che paghi, la cui febbrile curiosità è già legata a doppio filo (indipendentemente dai drammi personali) alle inquietudini e alle accelerazioni d’una società in cui la rivoluzione tecnologica detta anche i tempi d’una maturazione interiore sempre più serrata e inderogabile che nei fatti tende a erodere proprio quelle che, in ogni luogo e istante, sono considerate le prerogative dell'età: leggerezza, entusiasmo, ingenuità. Joe, Charles, Alice e il resto del gruppo, in altre parole, con i loro walkie-talkie, i primi walkman, le cineprese, la guida senza patente, il rapporto con l'Altro/Alieno di certo timoroso ma impostato da subito secondo la prassi adulta del dialogo e della comprensione, paiono con naturalezza andare a collocarsi - in un’immaginaria galleria di ritratti della giovane America - dalle parti d’una anticipata seppur informe assennatezza che, prendendo congedo dal piglio invece più propriamente scanzonato e infantile dei pari età spielberghiani, s’approssima a un punto d’equilibrio moderno fra estremi rappresentati, da un lato, dalle monadi devianti e desolate di Araki e Korine (e per altri versi, di Van Sant e di Solondz) e, dall'altro, dalla naivetè caustica e deliziosamente saccente dei pargoli di Anderson.
TFK
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