giovedì, maggio 31, 2018

ANNA


Anna
Charles-Olivier Michaud,

con Anna Mouglalis e Pierre-Yves Cardinal
Francia, 2015
genere, drammatico
durata 109 minuti



Scarmigliata, con la sigaretta in bocca e senza un filo di trucco, l’estetica di Anna Mouglalis concentra su di sé le caratteristiche del nuovo film di Charles-Oliver Michaud focalizzato sulla vicenda di una fotoreporter – Anna Michaux – impegnata a fare luce sul traffico di esseri umani e, nella fattispecie, sul dramma delle ragazze costrette a prostituirsi per conto di una potente triade tailandese. Scegliendo un’attrice come Mouglalis per un ruolo che in qualche maniera ne mortifica la beltà dei lineamenti, Michaud fa della protagonista  l’ambasciatrice di una sguardo che pur rimanendo all’interno del cinema di finzione – per la presenza di personaggi fortemente caratterizzati, funzionali allo sviluppo del tessuto narrativo – non rinuncia a osservare la realtà con occhio documentaristico, soprattutto quando si tratta di perlustrare – insieme a lei – i bassofondi della capitale thailandese, restituiti con scampoli di inquietante verità.

Ambizioni, quelle appena menzionate, destinate a non essere le sole messe in campo dal regista nel corso del film. Da un lato, infatti, Anna vuole essere innanzitutto un thriller a tutto campo: efficace sul piano della tensione, quando si tratta di raccontare l’indagine ad alto rischio che porta la donna a sfidare gli aguzzini, determinati a chiuderle la bocca attraverso una raccapricciante rappresaglia; coinvolgente, per il fatto che le reazioni a catena scaturite dalla persistenza con la quale Anna porta avanti la sua missione procedono di pari passo con la ricognizione esistenziale del personaggio al quale Mouglalis si presta con adesione da Actors Studio. Dall’altra, il film non rinuncia alla propria militanza, cogliendo ogni volta l’occasione per ricordarci l’orrore che si nasconde dietro l’apparente civiltà delle nostre vite e, in sottordine, prendendosi la briga di ragionare sulla professione del giornalista di cui Anna rappresenta la faccia più viscerale e combattiva. Girato nel 2015 e presente in numerosi festival internazionali, Anna pur mostrando una veste autoriale funziona meglio come prodotto di genere.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

martedì, maggio 29, 2018

TUO, SIMON


Tuo, Simon 
di Greg Berlanti
con Nick Robinson, Josh Duhamel, Jennifer Garner
USA 2018 
genere, Commedia, drammatico, sentimentale
durata, 110’

Simon Spier (Nick Robinson) è un diciassettenne che ha una vita ordinaria, una famiglia che lo ama e tanti amici, ma ha un segreto: è gay ma non riesce a dichiararlo.
Inizia per caso a scambiare messaggi via email con uno sconosciuto probabile coetaneo di cui non conosce l'identità e che si nasconde sotto lo pseudonimo di "Blue".  Il tutto a poco a poco si trasforma in un vero e proprio innamoramento, pieno e passionale. Ma qualcosa di non calcolato potrebbe radicalmente modificare la vita di Simon: un'email destinata a Blue nelle mani sbagliate potrebbe far diventare di pubblico dominio quello che è il suo segreto. 
La nuova commedia drammatica di Greg Berlanti, tratta dall'omonimo romanzo "Love, Simon" di Becky Albertalli è una divertente e commovente storia adolescenziale su quell'eccitante fase della vita in cui si ricerca se stessi e si scopre per la prima volta l'amore. Il regista è apertamente gay ed ha già lavorato in  “Tre all'improvviso” (2010) e “Il club dei cuori infranti” (2000), ma è principalmente  conosciuto come sceneggiatore e produttore della serie tv “Dawsons's Creek”. 
“Tutti meritano una grande storia d'amore”. Con questa frase il film si presenta e viene pubblicizzato, portato all’attenzione del suo pubblico. Un pubblico adolescenziale sicuramente di primo acchito, ma non solo. Si perché le storie d’amore – le grandi storie d’amore (o forse anche le piccole, se ne esistono poi di “piccole”) non sono mai facili, non hanno mai vita facile. E così avviene nel caso del diciassettenne Simon, protagonista di “Tuo, Simon”, il nuovo film diretto da Greg Berlanti.

Nick Robinson ritorna sul grande schermo dopo “Noi siamo Tutto” ed ancora interpretando e vivendo una coinvolgente storia d’amore. Un Amore stavolta non più impedito da una malattia della propria ragazza, la SCID (Severe Combined Immuno deficiency), ma reso difficile dalla Diversità, dall’essere fuori dalle righe. E’ infatti un amore omosessuale, e per Simon la paura di essere giudicato ed emarginato dai propri amici e dalla sua scuola è più forte del desiderio di fare “coming out”. Un Amore dunque che non può essere gridato al mondo, ma che trova la sua espressione in uno scambio epistolare di altri tempi, con email intense e vibranti con un altro ragazzo che si firma con un nickname “Blue”. Blue in inglese significa infatti “triste”: la tristezza consiste nel fatto di non potersi rivelare al mondo, di non poter mostrare la propria natura, le proprie ali di farfalla.

Una tristezza che sente anche Simon e che condivide con Blue nelle email, mentre tutto il mondo intorno a loro non nota la metamorfosi in atto ed il dolore costante di non poter mostrare la loro anima vera e iniziare a volare per davvero.

Blue come Simon non vuole rivelare la sua vera identità, è intrappolato nella paura delle convenzioni, del bullismo dilagante anche al liceo, preferisce proteggersi dietro lo schermo di un computer.

Ma è lo scambio epistolare che lentamente li porterà ad una nuova consapevolezza, a mostrare alla loro comunità di essere cigni e non brutti anatroccoli. Lentamente ma inesorabilmente riusciranno ad esprimere se stessi nella loro modalità e nel momento per loro ritenuto opportuno.

Così come faceva Maddy la protagonista in “Noi siamo tutto”, Simon trova la forza di cambiare al punto che non ha paura più di volare per davvero su quella ruota panoramica che faceva sentire spesso Blue bloccato, come sospeso nell’aria, senza riuscire ad andare né avanti, né indietro. Perché ancora una volta come diceva Maddy  “La differenza tra sapere e vedere con i propri occhi è la stessa che c’è tra sognare di volare e volare per davvero”.

L’amore che si schiude e si intensifica attraverso la mente prima ancora di essere sentito con il corpo. E le email scambiate diventano una lunga e appassionata lettera d’amore, in cui a volte Blue e Simon sembrano lasciarsi per sempre per poi invece riprendersi, quasi in una danza passionale e struggente in cui l’uno non può veramente fare a meno dell’altro.

Si perché le email altro non sono se non interminabili lettere d’amore, dichiarazioni dei propri sentimenti anche se non stigmatizzate su un foglio di carta come un tempo. Alla fine – sempre grazie alle email – verrà offerta una soluzione a Simon su come poter abbandonare la propria vecchia pelle per abbracciare e riconoscere la sua diversità e potersi alzare in volo. Su quella ruota panoramica. Senza più paura.
Michela Montanari

lunedì, maggio 28, 2018

SOLO - A STAR WARS STORY


Solo - a Star Wars Story
di Ron Howard
con Alden Ehrenreich, Woody Harrelson, Emilia Clarke
USA, 2018
genere: azione
durata: 135’


Tempi duri per la Galassia, forze oscure tramano nell'ombra e minacciano la Repubblica. Ma Ian è ancora troppo giovane per occuparsi delle cause dei grandi. L'unica cosa che desidera davvero è pilotare una nave spaziale per sfuggire l'oppressione con Qi'ra, la ragazza che ama. Intrepido e sfrontato, ha carattere da vendere e il coraggio di provarci ma nella fuga qualcosa va storto e il destino lo separa da Qi'ra. Ian si arruola come pilota, guadagna il cognome e promette di tornare a prenderla. Perché ha carattere da vendere e un amico wookiee che lo aiuta nell'impresa. Disertore per amore e poi ladro, imbroglione e contrabbandiere, vince a carte il Millennium Falcon e impara sul campo le regole del gioco.
Situato cronologicamente prima di “Star Wars Episodio IV - Una nuova Speranza”, “Solo: A Star Wars Story” è consacrato alla giovinezza di Ian Solo, il mitico contrabbandiere interpretato da Harrison Ford. Spin-off, alla maniera di “Rogue One”, standalone story annunciato nel 2016 come il primo di una serie infinita, “Solo” è un blockbuster inerte che gratta la superficie come il Millennium Falcon in atterraggio di emergenza. 
Non approfondisce mai la mitologia spaziale in cui hanno pescato con estro creativo e vorace i suoi predecessori, gli sceneggiatori fanno avanzare l'azione a colpi di laser e baci rubati, scrivendo un racconto convenzionale privo di qualsiasi spinta epica o qualsivoglia efficacia narrativa. La trasgressione di Ian, quello di George Lucas e di Harrison Ford, è di un altro ordine. Ron Howard lo ignora, limitandosi a perpetuare un cinema d'avventura che rallegra lo spirito dello spettatore, invece di condurlo nel mito.

L'antieroe farabutto e irriducibile che ha cavalcato il nostro immaginario a bordo del Millennium Falcon e a fianco dell'inseparabile Chewbecca non ispira più di questo a Ron Howard. Alla maniera di “Heart of the Sea”, incapace di aprire gli abissi metafisici che inghiottono il lettore di "Moby Dick", “Solo” non trova nuova forza per una vecchia saga. Privo di invenzioni formali, questo western intergalattico non riporta la magia dell'origine e delle origini di Ian, battezzato Solo da un burocrate in divisa e convertito all'azzardo. A ereditare il ruolo leggendario del fuorilegge canaglia è Alden Ehrenreich, rivelazione folgorante in “Ave, Cesare!”. 
Lo spin-off di Howard immagina la giovinezza del nostro cogliendolo prima del suo incontro con la Ribellione e Luke Skywalker. Prima del suo amore per Leila e dell'umorismo canaglia che la innamora. Congedati per "divergenze artistiche" Phil Lord e Chris Miller, Ron Howard si aggiudica il film ma non la partita. Il desiderio di tornare sempre a Star Wars e di rimetterlo in discussione, lanciando l'eredità del passato verso l'avvenire, è al cuore della saga e di quello che ha di più naturale. È l'equilibrio della forza. Farla morire o rivivere. Ron Howard sceglie una desolante sopravvivenza. 
Riccardo Supino

sabato, maggio 26, 2018

RITORNARE ALLA RADICE: INTERVISTA A DARIO ALBERTINI, IL REGISTA DI MANUEL



Rispetto ad altri film italiani in Manuel si sente la volontà di tornare alle radici dell’umano per raccontare ciò che dell’esistenza è veramente indispensabile. In questo senso il tuo mi sembra un cinema basico, per certi versi simile alle prime opere di Bruno Dumont. È questa una giusta definizione del tuo lavoro?

Assolutamente si e sono felice che tu lo abbia colto. Io e Simone Ranucci, con cui ho scritto il film, siamo partiti da un’idea generale di sottrazione, pensando, come dicevi tu, di ritornare alla radice. Così ci siamo concentrati su ciò che per noi era importante e quindi sulla crisi del protagonista che, ad un certo punto, si ritrova davanti a un bivio. Per questo motivo molte cose che lo riguardano vengono omesse: non conosciamo, per esempio, per quale motivo la madre è in prigione, come neppure che fine abbia fatto il padre. Ci sembravano cose inutili, ma per escluderle dal film ci abbiamo ragionato parecchio tempo, ritornandoci sopra diverse volte, finendo mese dopo mese per togliere sempre di più. All’inizio, per esempio, si parlava del denaro e del bisogno di lavorare da parte di Manuel, ma alla fine il tutto è stato riassunto nella scena del forno in cui il ragazzo si reca per farsi fare i documenti da presentare all’assistente sociale. Molti dialoghi sono spariti per lasciare spazio ai silenzi. Avremmo potuto scrivere tante cose ad effetto.

Dici bene, perché ognuno degli incontri che scandiscono l’esistenza di Manuel aveva in nuce un potenziale drammaturgico così forte da fare storia a sé all’interno del film. Intendo dire che il materiale a disposizione era talmente enorme e denso da offrirti numerose possibilità di sviluppo sia in termini di caratterizzazione formale che di toni.

Quando hai a che fare con giovani come quelli che ho incontrato preparando il documentario sulla Repubblica dei ragazzi (2015) metti da parte un sacco di storie, di idee geniali e di cose folli da cui potresti ricavare non so quanti film. Molte di queste erano divertenti e singolari ma finivano per allontanarmi dal tema che mi stava a cuore. Avendo incontrato il vero Manuel ne conoscevo i dubbi e i silenzi; sapevo che la mancanza di parole era figlia dell’incertezza su ciò che lo aspettava una volta fuori dalla casa famiglia e della consapevolezza di avere poco tempo per imparare l’essenziale per sopravvivere. Da qui l’idea di creare una serie di incontri che, nell’insieme, costituissero l’apprendistato del personaggio, il modo con il quale egli impara a comportarsi in un mondo che non ha mai conosciuto.

Questo tipo di struttura narrativa era rischiosa perché poteva risultare programmatica, invece sullo schermo la successione dei personaggi che Manuel incontra avviene in maniera del tutto naturale.

Allora ti dico una cosa che non ho mai detto finora e cioè che in realtà quasi tutti gli incontri sono ripresi da esperienze che mi sono successe in momenti diversi della vita. La scena con Franchino, il mendicante che rimane in panne con il motorino e a cui Manuel dà una mano, è stata creata esattamente come l’ho vissuta io mentre mangiando un panino a Civitavecchia ho visto quest’uomo in difficoltà e ho deciso di aiutarlo.

La corrispondenza tra i tuoi incontri e quelli di Manuel vale anche per i sentimenti raccontati nel film?

Guarda, la scena con Giulia Elettra Gorietti è qualcosa che ho sperimentato quando ero più giovane e che ho ritrovato molto in Manuel e in Andrea Lattanzi, l’attore che lo ha interpretato: parlo di quel disagio che si prova di fronte a una figura femminile che, come spesso capita, è più spigliata e determinata di noi. Nella sequenza in questione Manuel mi ha ricordato molto l’Antoine Doinel di Truffaut e, quindi, si può dire che c’era un buon mix di cose personali e di quelle che volevamo raccontare attraverso il film.

Manuel si occupa delle persone più fragili nella consapevolezza di esserlo lui per primo, mentre gli altri non danno la sensazione di volersi mettere nei suoi panni. La disparità di questi rapporti non potrebbe essere anche una visione di ciò che succede nella nostra società?

In realtà non era mia intenzione allargare il discorso nella maniera che dici tu. Penso invece che davanti a una purezza così esasperata come quella di Manuel qualsiasi confronto risulti inevitabilmente molto più duro.

A proposito di confronti, inevitabile è quello tra noi e Manuel, nel senso che il film, alla maniera de Il ladro di bambini di Gianni Amelio, mette lo spettatore nella condizione di domandarsi cosa farebbe lui se si trovasse di fronte al protagonista.

Era esattamente una delle cose che volevamo suscitare nello spettatore, spingendolo a chiedersi come sia possibile che tutto questa succeda a un ragazzo che potrebbe essere nostro un nostro nipote o figlio. Per riuscirci, abbiamo cercato di far parlare il cuore nella consapevolezza di avere tra le mani una materia che poteva sfuggirci e prendere direzioni non desiderate. Per me era anche una questione di responsabilità: avendo vissuto e collaborato per due anni con la Repubblica dei ragazzi mi è venuto naturale assegnare un ruolo di guida ai sentimenti provenienti da quella esperienza. Tieni conto che c’è stata una seconda fase di scrittura scaturita dall’incontro con Andrea; il suo volto mi ha suggerito soluzioni che in un primo tempo non avevo sposato.

A proposito, la faccia di Andrea Lattanzi sembra uscita da un disegno di Andrea Pazienza.

Questa non me l’aveva detto nessuno ed è bellissimo. Io poi ho un amico che a casa sua ha un disegno di Pazienza e penso che quest’ultimo possa avermi ispirato. Erano mesi e mesi che cercavo di capire dove avevo già visto il volto di Andrea…

Se ci pensi il personaggio di Manuel potrebbe essere uscito da una storia dell’autore di Zanardi.

Andrea ha questa faccia incredibile; funziona perché i suoi lineamenti sono come dici tu, alieni; hai detto bene, lui è alieno, viene da fuori e la sua fisionomia rimane intatta, non si impregna di altre facce. Vivendo tanti anni dentro questa casa famiglia mi sono reso conto che ci sono tantissime tipologie, tantissimi casi pedagogici, ma soprattutto che vista da fuori questa realtà sembra nel suo complesso tragica, mentre, al contrario, il novanta per cento di queste persone sono bravi ragazzi. Il cinema italiano non aiuta a sconfessare lo stereotipo, raccontandoli quasi sempre attraverso un tessuto di microcriminalità. Certo è che se punti la mdp in superficie viene fuori quella roba lì, ma a me questo non interessa.

Mi ha colpito il contrasto tra la fisiognomica spigolosa e irregolare di Manuel e la tenerezza di certe espressioni. Tu a un certo punto lo fai piangere come un bambino indifeso, rinunciando in ciò a qualsiasi tentativo di ‘eroicizzazione’ del personaggio.

Allora ti dico una cosa. Per trovare la faccia di Manuel ho impiegato parecchio tempo, facendo migliaia di provini. L’unica cosa che ho avuto sempre chiara è che il protagonista dovesse avere una faccia modellabile, di quelle che puoi decidere di portare ovunque vuoi. Andrea è credibile sia come criminale sia come un bambino smarrito.

Esatto, in certi momenti il protagonista è indifeso come un bambino piccolo. I fermo immagine sul suo volto lo mostrano in maniera evidente.

Credo dipenda molto da come il film ti porta davanti a quell’immagine e questo dipende dalle esperienze che fai e da chi hai la fortuna di conoscere. Io l’ho voluto portare dentro un mondo che ho conosciuto in prima persona. Agganciato come sono alla realtà, penso che se se avessi conosciuto una comunità di ragazzi sbandati avrei certamente filmato una crime story. Diversamente, la mia esperienza mi ha spinto verso una realtà molto meno cinematografica e di intrattenimento. Ai tempi de La repubblica dei ragazzi Don Marcello, che era il prete responsabile della comunità, aveva sempre negato la possibilità di girare all’interno dell’istituto perché la televisione e i programmi come quelli di Barbara D’Urso erano interessati innanzitutto a conoscere i motivi per cui i ragazzi erano entrati a farvi parte. Io invece gli dissi che a me interessava solo stare con loro, riprenderli e condividerne il momento, Tant’è vero che se tu guardi il documentario non si vedono mai le facce dei bambini perché per legge non potevano essere riprese. Questo per dirti che dipende tutto da quello che vuoi raccontare. Io capisco che il filone del crime sarebbe stato più attraente, ma era inadatto a replicare la realtà dei fatti.

Per collocazione ambientale, tipologia di personaggi e uso del linguaggio, Manuel potrebbe essere accostato al filone cui hai appena accennato. In realtà se ne differenzia per la peculiarità di cui in parte abbiamo già detto.

Purtroppo quando tu racconti la periferia e senti parlare al cinema o in televisione in romanesco o in dialetto napoletano torni inevitabilmente a Gomorra o a Suburra. Questo all’inizio poteva costituire un problema; ci sono film come Fiore o Cuori puri che devi essere bravo a rendere sul piano dell’action, cosa che io non so fare. Li ho visti e mi sono piaciuti molto, ma non sarei in grado di rifarli. Il mio occhio non cade su questi aspetti.


Per ritornare allo spartiacque che esiste tra il protagonista e il resto del mondo, a rimanere impressa è la frase dell’avvocato, il quale rivolgendosi a Manuel gli dice “Cosa c’entra la speranza, qui contano i fatti”.

È una frase illuminante rispetto al contesto della storia in cui l’esperienza di Manuel, che esce dall’istituto e affronta il mondo, è equiparabile a quella di un neonato immerso per la prima volta nelle nostre abitudini quotidiane. Cose che a noi sembrerebbero normali per lui sono ostacoli molto impegnativi. L’avvocato ha ragione dicendo che nel caso specifico servono fatti e non speranze perché è il mondo che funziona così. D’altro canto se Manuel negli anni in cui è vissuto in comunità non avesse avuto la speranza magari non c’è l’avrebbe mai fatta a uscirne con lo spirito positivo che dimostra di avere di fronte alle difficoltà. Manuel, dunque, è come un neonato che si affaccia al mondo per la prima volta. È anche vero che, se c’è un limite da imputare al progetto legato alla Repubblica dei ragazzi è che funziona talmente bene da diventare un microcosmo autonomo, al punto da isolare i ragazzi dal resto del mondo. In questo modo a 18 anni ti ritrovi come capita a Manuel, cresciuto nel modo migliore ma sprovvisto degli strumenti per capire l’esterno. Quando esci di lì potresti essere molto più velenoso di altri per le esperienze da cui  provieni, ma per altri versi anche più fragile e senza difesa. Ritornando alla tua osservazione iniziale, la faccia di Andrea Lattanzi era come un marmo da scolpire. Ci sono facce molto più identificabili, molto più malandrine, adatte al cinema di cui stavamo parlando. La sua sta in una terra di mezzo: molto dipende anche da come guardi il film.

L’essenzialità della messinscena è il segnale di un punto di vista sul mondo esente da giudizi. Questo permette allo spettatore di farsi la propria idea rispetto alla storia.

È proprio così. Quando abbiamo scritto il film con Simone una delle pagine su cui ci siamo bloccati è stata quella relativa al finale, perché non riuscivamo a capire come poteva concludersi la storia di questo ragazzo. Dopo molti ragionamenti, abbiamo compreso che nessuno di noi aveva il diritto di farlo. Un’altra parte che ci ha fatto penare è stata quella dell’uscita dall’istituto.

Tra l’altro quella è una scena che avete realizzato eliminando la tipica enfasi del momento. In essa non ci sono saluti nè consigli da lasciare in eredità a chi rimane.

Nella realtà ognuno vive quel momento in maniera diversa. Ci sono alcuni che fanno una grande festa, e io avevo anche considerato di fare qualcosa di simile per il mio film. Poi ho capito di non essere interessato a sapere come Manuel avrebbe passato la vigilia della sua partenza. Ho invece cercato di capire quale sarebbe stata l’ultima parola prima di andarsene, e quale sarebbe stata l’ immagine del suo congedo.

Addirittura, tu non fai vedere neanche la faccia del prete che accompagna Manuel alla stazione se non inquadrandone a malapena una parte del profilo.

La escludo perché io voglio stare con Manuel. Quando ho fatto il film, ho pensato solo a me stesso e a chi stava con me. Amo un certo tipo di cinema e di scelte registiche, per cui ho pensato che era inutile andare con il controcampo sulla faccia del prete. Magari mi interessava ciò che diceva, ma io volevo stare sulle reazioni di Manuel.

Succede anche nella sequenza ambientata nella biglietteria della stazione. Lì decidi di inquadrare Manuel escludendo il bigliettaio di cui sentiamo solo la voce.

Si, anche il quel caso non vado mai sul controcampo degli altri perché sono concentrato sul protagonista. Il cinema di solito gioca sull’alternanza dei primi piani, mentre nei momenti più importanti io volevo restare con Manuel; volevo vedere come ascolta ciò che gli succede intorno, che è molto più importante della faccia del bigliettaio. Quando quest’ultimo gli dice che i treni sono sospesi perché è stata investita una persona lui reagisce alzando un po’ il sopracciglio che è comunque una reazione che mi sarei perso se avessi inquadrato il suo interlocutore. Poi mi rendo conto che sono scelte difficili.

Senza nulla togliere all’anima del film che rimane sempre fortemente emozionale e riagganciandomi a quanto stavi dicendo, mi pare di poter affermare che Manuel è anche lo studio di un’esistenza contemporanea.

Guarda, in realtà sto continuando un po’ la ricerca che ho fatto con il documentario. Anche nel modo di girare non vedo questo film lontano dai miei lavori precedenti. Tieni conto che sia questo che i tre documentari sono stati girati a Civitavecchia. Manuel è solo l’ultima tappa di una ricerca sul territorio intesa come porzione di spazio capace di far convivere esistenze diverse. Per questo motivo Manuel lo riporto lì. In Francia, dove il film è andato molto bene, volevano sapere il nome dei luoghi in cui avevo filmato; scrivendo che si trattava di Ostia hanno rivelato la necessità di riportare la storia all’interno dei filoni conosciuti e di cui abbiamo appena parlato. Anche in Italia ho sentito parlare del territorio di Roma e di Ostia a proposito del mio film.

Ho letto anche io titoli del genere e paragoni con il filone dei film ambientati nelle borgate. Cosa che Manuel non è.

In realtà il mio protagonista non sa neanche cosa sia una borgata. Pochi hanno capito che non si trattava di quel tipo di realtà. Si vuole uniformare tutto, e a proposito del mio film si è parlato in maniera positiva ma inappropriata di neorealismo. È lecito farlo, ma non era questo ciò a cui noi puntavamo.

Venendo agli aspetti visuali, ho notato che nel tuo film, a fronte di una mdp che rimane costantemente attaccata al protagonista ci sono aperture improvvise che non sono dettate da interesse antropologico o dalla necessità di ricostruire l’ambiente ma piuttosto da una funzione esistenziale che viene fuori dal rapporto tra la figura di Manuel e il vuoto dello spazio che lo circonda. Quando le ho viste mi hanno trasmesso la solitudine del protagonista come pure il peso delle responsabilità che gli piombano addosso.

Sai, è la stessa cosa che mi ha detto Marco Tullio Giordana dopo aver visto il film. Anche in queste sequenze c’è qualcosa di molto scorretto a livello cinematografico. Sovente evitiamo di passare per il mezzo campo spalancando la mdp come i manuali dicono non bisognerebbe mai fare, ma francamente non mi interessa. Volevamo restare sull’uomo e sull’importanza dell’aria che respira, ove per questa si intende il territorio, lo spazio in cui si svolge una determinata azione. È questa la ragione per cui all’improvviso allargo il campo visivo. Filmo le emozioni di Manuel, e ti dico dove si stanno generando; subito dopo torno a stringere su di lui. Venendo dalla fotografia e dal reportage, il territorio per me ha un valore importante, ma nel film non assume mai un valore scenico. È decisivo per far vedere dove sta accadendo ciò che racconto. Se guardi il cinema dei Dardenne ti accorgi che loro non adotterebbero mai il tipo di scelte visive presenti nel mio film. Così facendo diventa quasi impossibile accorgersi che tutti i loro film sono ambientati nel quartiere di Bruxelles in cui sono nati. Al contrario, io ho bisogno di sentire e di vedere dove accadono le cose, dove si formano le emozioni.

In termini visivi, questi improvvisi allargamenti di campo hanno un impatto molto forte sulla vista dello spettatore e si traducono in pura emozione.

Durante il montaggio le persone rimanevano un po’ contrariate vedendo queste aperture, ma ho fatto prevalere il mio istinto e me ne sono fregato. Per dirti, sono sempre stato un fan dei film senza musica e invece qui ho sentito la necessita di sottolineare certi momenti con dei suoni creati da me. Di questa libertà devo ringraziare Angelo Barbagallo, perché mi ha permesso di fare il film  che avevo in mente. Tutte le scelte sono state appoggiate da lui senza nessuno problema.

Tornando ad Andrea Lattanzi, volevo chiederti come avete lavorato insieme, visto che stiamo parlando di un esordiente.

Si, è il primo film che fa, mentre per me è il primo di finzione. Anche da questo ti puoi rendere conto quanto fosse forte la scommessa produttiva decidendo di caricare su di lui così tanta responsabilità. Quando andai da Barbagallo gli dissi scherzando che volevo fare un film ma che non volevo i soldi (ride), alludendo alle limitazioni artistiche che spesso derivano dall’averne.

I soldi per esempio ti avrebbero impedito di scegliere Lattanzi per il ruolo di Manuel, perché di solito l’investitore si sente più rassicurato se nel film ci sono attori già famosi.

Li c’era un discorso ben preciso: io avevo necessità di identificarmi con il personaggio; in più, qualsiasi altro volto mi avrebbe ricondotto a film che erano stati già fatti. Venendo dal documentario, capitava che ogni cosa che mettevo su carta il giorno dopo non mi sembrasse reale per il fatto di non averla vissuta in prima prima persona. Cosi, per ritornare alla tua domanda, con Andrea abbiamo fatto un lavoro particolare: intanto lui non ha letto mai la sceneggiatura; l’unico lusso che ci siamo permessi è stato quello di girare in maniera cronologica. Abituato a procedere al buio, senza  sapere cosa mi aspetta quando sto per girare, ero terrorizzato dall’avere un programma prefissato, con date di inizio e fine del film. Per rimediare, abbiamo deciso di recuperare parte dell’improvvisazione perduta nel personaggio di Andrea. Lui aveva letto la sinossi, e io ho iniziato a raccontargli la storia di Manuel ma senza farlo accedere alla sceneggiatura, tanto che alla fine di ogni giornata mi diceva “Domani cosa mi succederà?”. Tra l’altro, per intensificare il processo di immedesimazione, lui è arrivato a dormire sul set e nei luoghi dove stavamo girando. In questo modo è riuscito a isolarsi, provando realmente le sensazioni che si vedono sullo schermo.

Direi che i risultati sono stati eccellenti. Penso che anche tu ne sia stato molto soddisfatto.

Da regista ti dico che avevo in mano qualcuno che mi permetteva di osare molto. Avevamo tanti problemi, a cominciare dalla mancanza dei permessi per girare in strada per cui arrivavamo come un armata Brancaleone e in tempo zero facevamo le riprese. Però, una volta che Andrea è entrato nel personaggio tutti quanti ci siamo immedesimati nella sua vicenda e cosi facendo si è verificato il miracolo. Non poche volte è successo che abbiamo dovuto cambiare quello che avevamo previsto. Il film si è modellato sul campo, anche in base alla condizioni metereologiche. Per dirti, Andrea e l’attrice che interpreta la madre (Francesca Antonelli) si sono incontrati per la prima volta solo il giorno delle loro riprese insieme. Avevo dato loro la sceneggiatura, ma alla fine le parole che abbiamo messo sono state le loro. Come in altri casi, il testo scritto è diventato una linea da seguire durante la quale era comunque possibile intervenire e modificarla. E questo perché hai degli attori come Andrea che ti permettono di farlo.

Ho letto che il film ha avuto gran successo in Francia.

Noi dovevamo andare in concorso ufficiale a Locarno o a Torino, poi Barbagallo ha deciso di mandare il film a Jean Labadie, che è uno dei grandi distributori francesi, il quale ha risposto quasi subito, dicendo che voleva a tutti i costi il film per occuparsene in Francia. È stato lui a decidere che sarebbe stato meglio andare al festival di Venezia, dove peraltro il passaggio è stato velocissimo. La cosa clamorosa però è successa due settimane dopo, quando siamo partiti per Montpellier dove c’è un grande festival di cui abbiamo vinto i tre premi principali. Da lì ne sono seguiti altri, cosi come tanti sono stati gli apprezzamenti ricevuti da registi del calibro di Mungiu, che hanno espresso stima nei riguardi del film.

Per quanto riguarda la distribuzione, sai già se il numero di copie è destinato a crescere allargandosi alle città del nord?

La distribuzione è molto mirata, ma per esempio da questa settimana saremo in cartellone anche al Nuovo Sacher di Roma, oltre che al Quattro Fontane, due sale molto prestigiose. Alla fine dovremmo arrivare a circa 30 copie, che è un numero buono per un progetto come il nostro. Sono soddisfatto.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su Taxidrivers.it)

venerdì, maggio 25, 2018

MONTPARNASSE- FEMMINILE SINGOLARE


Montparnasse - Femminile singolare (Jeune Femme)
di Leonor Seraille
con Laetitia Dosch, Souleymane Seye Ndiaye, Grégoire Monsaingeon
Francia, 2018
genere, commedia, drammatica
durata, 97'



Significativi sono i primi momenti di Jeune Femme, quelli in cui a essere rappresentata non è Paula, la protagonista della storia, bensì il suo stato d’animo. In preda a una crisi di nervi per essere stata mollata dal compagno e alle prese con le cure necessarie a riparare i danni di uno sfogo finito all’ospedale, la protagonista fatica a restare dentro l’inquadratura, per l’incapacità di quest’ultima di contenerne la debordante fisicità. Prima di affondare la macchina da presa dentro la storia della ragazza e sulle cause che hanno determinato la fine della relazione, la regista Léonor Séraille si mantiene sulla superficie degli eventi e sul corpo ferito e insofferente dell’attrice Laetitia Dosch, chiamata a immedesimarsi nei dolori della giovane protagonista. Ed è proprio nel rapporto esistente tra il vuoto emotivo confessato da Paula e la pienezza di segno del suo inarrestabile movimento a trasferire sullo schermo l’energia sprigionata dalla personalità della protagonista. La quale, onnipresente e marcata stretta dall’occhio della regista, mette in scena il proprio lutto facendo di Parigi la mappa di una caccia al tesoro, il cui premio finale consiste nella riconquista dell’equilibrio perduto.

Da questo punto di vista, la ricognizione del paesaggio urbano da parte de Jeune Femme trasfigura la città, facendo del disordinato girovagare di Paula e dei suoi inconcludenti incontri il riflesso del caos che scuote l’interiorità della donna. Così, pur senza raggiungere lo stesso livello d’astrazione, appare evidente come la Seraille organizzi la narrazione secondo quella deriva tipica della Nouvelle vague, nella quale l’andare a zonzo dei personaggi diventa il modo per esprimerne la condizione esistenziale. Certo, rispetto ai film dei giovani turchi quello della Seraille è figlio di una sceneggiatura più scritta e meno libera, come pure di una visione del mondo in cui lo smarrimento della protagonista e il suo perdersi nel non sense del quotidiano non è una dichiarazione d’anarchia nei confronti delle regole quanto un modo per rientrare a farvi parte. Eccessivo come la sua protagonista anche per un minutaggio che nuoce sulla premesse di leggerezza attribuite al film, Jeanne Femme è nei toni meno leggero di quanto vuol far credere. Vincitore della camera d’or all’ultima edizione del festival di Cannes, Jeune Femme è soprattutto l’occasione per verificare le capacità interpretative della Dosch, attrice in ascesa di cui sentiremo ancora ancora parlare.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidriver.it)






giovedì, maggio 24, 2018

ABDELLATIF KECHICHE: TROPPO LIBERO PER ESSERE ANCHE DI MODA


Riflettendo a proposito della tiepida accoglienza riservata a Metkoub, My Love - Canto uno esiste il sospetto che a influenzare il disamore nei confronti dell'opera dell'autore franco tunisino non vi sia solo la lesa maestà provocata dalla presunta visione maschilista del corpo femminile, cosa di cui il regista si sarebbe imprudentemente (in epoca di Me too) macchiato soffermandosi oltre il dovuto sul fondoschiena della sensuale Ophélie Bau. Pensiamo infatti che la predetta disaffezione sia anche frutto di qualcos'altro e, per esempio, dello scarto estetico e di contenuti lasciato intravedere con la realizzazione de La vita di Adele, opera accolta non senza diffidenza e con qualche fastidio per la spregiudicatezza con cui viene filmata la passione tra le due protagoniste, e oggi confermato con un progetto come quello di Metkoub, My Love, incentrato sull'estate di un gruppo di giovani belli e vacanzieri.

Così, se nella prima parte di carriera a suscitare il consenso nei confronti di titoli come La schivata, Cous Cous e Venere Nera era stata l'attitudine engagé di certi temi e la presenza di personaggi "forti" e fuori dagli schemi, non sorprende più di tanto che la celebrazione di una gioventù priva di sovrastrutture politiche e sociali, e votata ai godimenti tipici della propria età fatichi a conquistare gli appassionati della prima ora. L'overdose di felicità, l'insopprimibile voglia di vivere e la ricerca del piacere che contraddistingue l'esistenza di Amin e dei suoi coetanei mette a disagio e provoca sconcerto tra gli amanti del cinema d'autore. Senza sofferenza e privo di appigli ideologici il cinema di Kechiche rischia di essere considerato inattuale e sorpassato anche se in realtà non lo è. Non si tratterebbe comunque di una novità: a suo tempo è successa la stessa cosa anche a Kusturica e Von Trier, passati dalle stelle alle stalle per ragioni che poco c'entrano con la settima arte.
Carlo Cerofolini

mercoledì, maggio 23, 2018

IL FILM DELLA SETTIMANA: MEKTOUB, MY LOVE - CANTO UNO


Mektoub, My love Canto Uno
di Abdellaif Kechiche
con Shaim Boumedine, Opheliè Baufle, Salim Kechiouche, Lou Luttiau, 
Francia, 2018
genere,drammatico
durata,180'

Le fotogeniche nudità di due dei protagonisti di “Mektoub, My love - Canto Uno“ mettono in secondo piano il dettaglio più importante della sequenza iniziale che è quello del punto di vista esterno e allo stesso compartecipe di Amin, il quale capitato per caso presso l’abitazione di Ophelie preferisce aspettarne la fine dell’amplesso prima di bussare alla porta come nulla fosse successo. Se le caratteristiche biografiche e materiali di Amin - di origine tunisina e sceneggiatore cinematografico - ne fanno l’ideale alter ego del regista, la scena poc’anzi descritta sembra sintetizzare l’approccio filmico di Abdellaif Kechiche che, ancor di più dei film precedenti, lo vedono testimone compartecipe degli avvenimenti che racconta. 

Primo capito di una trilogia di cui è stato già girato il secondo episodio, “Mektoub, My love - Canto Uno” ci introduce nell’esistenza di un gruppo di ragazzi e di ragazze che nella Francia meridionale degli anni 90 celebrano l’estate dividendosi tra le giornate di mare inebriate dalla luce abbacinante della costa marsigliese e le notti in discoteca scandite dal ritmo dei migliori hit dell’epoca. Reduce dal successo de “La vita di Adele”, il regista francese continua a esplorare l’esistenza nella sua età più vitale e spregiudicata, raccontandola attraverso le vicissitudini amoroso sentimentali di un coacervo di personalità unite da un eguale e irresistibile voglia di vivere. Da questo punto di vista “Mektoub, My love Canto Uno” rappresenta un passo in avanti rispetto alla capacità di coinvolgimento dimostrata dal cinema di Kechiche, poiché, anche a costo di risultare eccessivo, il regista organizza il suo film attraverso una serie di veri e propri movimenti, ognuno dei quali caratterizzato da una precisione ambientale (la spiaggia, la discoteca, una camera da letto, il ristorante) e sentimentale (amore, fratellanza, ma anche amicizia e tradimento si scambiano equamente le parti) che, nella mani di Kechiche, si trasformano in un flusso di coscienza capace come un fiume in piena di investire i sensi dello spettatore. 

Come nessuno riesce più a fare nel cinema contemporaneo il regista è in grado di sostenere lunghe sessioni di conversazione in cui il ritmo sincopato dei dialoghi e la passionalità degli interpreti producono un movimento interiore che travalica la stasi della scena, permettendo allo spettatore di non sentire il peso di un durata che sfiora le tre ore. Ma non finisce qui, poiché, se è chiaro che nella sensuale e panica messa in scena della vita “Mektoub, My love - Canto Uno” ne sia l’evidente esaltazione, con l’eros vittorioso su thanatos (a questo proposito non ci stupiremo che nel rapporto tra le diverse parti della trilogia la seconda possa essere segnata da sentimenti e atteggiamenti di segno opposto), ciò non toglie che il film sia anche l’affermazione di una libertà artistica che non ha paura di essere fraintesa (durante l’anteprima veneziana la vista ripetuta del fondoschiena della bella Ofelia ha scatenato stizziti paragoni con l’ultimo cinema di Tinto Brass), preferendo rinunciare al proprio coté intellettuale piuttosto che perdersi anche una sola goccia delle vita da cui si abbevera. Capolavoro! 
Carlo Cerofolini 

martedì, maggio 22, 2018

GLI INVISIBILI: DIVERGE

Diverge
di James Morrison
con, Ivan Sandomire, Erin Cunningham, Jamie Jackson, Andrew Sansenig, Chris Henry Coffey
USA 2016 
genere, fantascienza
durata, 95’


Some are quick
to take the bait
and catch the perfect prize
that waits among the shelves
- America -


Magari c’è davvero poco da fare. Il futuro che ci stiamo preparando - con buona pace dell’ottimismo programmatico e furbastro che ogni giorno viene somministrato con zelo fin troppo insistito per non essere almeno sospetto - non è che un miserabile inganno malamente dissimulato a base di armonia e prosperità, in realtà uguale in tutto e per tutto a una desolazione uniforme e senza fine.
Rimarrebbe troppo elusiva, altrimenti, la perseveranza con cui una parte del Cinema odierno (quella che per abitudine continuiamo a definire fantascientifico o del futuribile ma che, forse, dovremmo seriamente cominciare a considerare come spia rivelatrice di qualcosa che già preme negl’interstizi della Modernità arrivando a lambire l’equilibrio stesso delle condizioni che garantiscono la nostra permanenza sul pianeta) sviluppa il proprio discorso per immagini a partire da una visione pressoché unanimemente poco incline a illustrare il destino della stirpe sapiens se non entro i contorni scoraggianti d’un’eventualità oltremodo sofferta/residuale o, tout court, tragica.

La vicenda di Chris/Sandomire, ricercatore e Anna/Cunningham, sua moglie, solitari e raminghi sopravvissuti nelle smorte vastità sabbiose d’una contemporaneità prossima devastata dal dilagare di un virus pandemico dall’origine non così misteriosa come sembrerebbe, s’allinea, infatti e quasi senza attrito, in questo “Diverge” di Morrison - pacata e mesta anabasi - alla nutrita compagine di scampoli d’umanità che con le proprie illusioni infrante abita il corpo afflitto di opere nel complesso - e al di là della loro riuscita - come incredule e stanche, talvolta astiose ma per lo più spossate, a testimonianza d’una comune perplessità lasciata senza risposta, del rammarico tardivo per un azzardo giocato con jolly falsi rispetto al protervo avventurismo idolatrato dal (nostro) presente nella forma di una suasiva (perché unanime) allucinazione globale. Chris, nei peripli a vuoto tra le piatte immensità silenti sugli sfondi delle quali, sfalsate da una prospettiva a perdita d’occhio, di tanto in tanto, s’intravedono nere colonne di fumo provenienti da ciò che resta di metropoli in rovina, cura con amore e dedizione sfiniti la sua giovane donna, il cui stadio d’infezione avanzato cerca di contrastare con la somministrazione di un composto ottenuto dal tritato dei fiori lilla d’una particolare pianta, oggetto di studio e promettente ipotesi di contrasto al morbo quando esso, tempo prima, non aveva ancora compiuto il salto di specie e l’incertezza del suo utilizzo oscillava tra le premure interessate dei potentati accademici e gli appetiti monopolistici di una grande multinazionale del farmaco. L’aleatorietà di tale rimedio, conseguenza anche delle esigue riserve del principio attivo vegetale, unito a un incontro casuale però rivelatore e metaforico, spingono l’estremo Odisseo, per quanto riluttante, a considerare poi non così folle (e infine, di fatto, a subirla) la scommessa di viaggiare nel tempo allo scopo di ribaltare l’inerzia di un sé stesso preso in mezzo tra una comunità scientifica vischiosa e sleale, la macchina industriale tanto rapace come pure indifferente alle conseguenze d’una logica supina - figurarsi - a scenari coincidenti con più che potenziali profitti colossali e l’imperativa ingiunzione a modificare con il proprio diverso agire il corso della Storia.


Costruito, nonostante gli scarti imposti dalle fratture temporali, sulla linearità riflessiva dell’apologo/monito, il film di Morrison trova il suo ubi consistam - tra riletture minimali di alcuni cliché di genere (l’uomo di scienza ferito negli affetti chiamato ad assumersi una responsabilità più grande del proprio orgoglio personale; la pervasività all’apparenza inarrestabile del virus come iperbole dello stato di disgregazione raggiunto da una consuetudine meramente utilitaristica che sola disciplina i legami all’interno di una comunità d’individui, et.), un cauto misoneismo di fondo e soluzioni stilistiche che compendiano suggestioni molteplici ma concordi tanto al campione prevalente d'un immaginario percorso da vibrazioni pre/post-apocalittiche riassumibile in un generico filone after-the-fall, quanto agli specifici umori di questo tentativo che ne profila una delle possibili rappresentazioni (gl’incarnati diafani, quasi infantili nel loro pallore, dei protagonisti, spesso colti nell’esitazione ravvicinata di un gesto o nella frenesia furtiva di una risoluzione; il cielo e la terra di domani stretti in una densa opacità pastello giocata sui grigi, sull’avorio lattiginoso e sui bruni, che spezza la continuità dei piani e dei punti di fuga generando un’inquieta sospensione in grado di proiettare - per esempio - il brulicare del formicaio umano per eccellenza, New York, prima della catastrofe, in una dimensione di dubbia verosimiglianza, d’inconsapevole attesa, d’ignara normalità) - nell’assorto sconcerto del suo sentimento prevalente, sorta di precipitato in cui la malinconia del passato, la cui dolcezza rimanda a momenti promettenti, a volte persino felici, si sfalda per aggrumarsi subito dopo in quella sempre aspra e avvilente del futuro.
TFK