giovedì, gennaio 31, 2013

Quello che so sull'amore

Quello che so sull'amore
di Gabriele Muccino
con Gerard Butler, Jessica Biel, Uma Thurman, Catherine Zeta Jones, 
Usa 2012
durata 100


Una cosa è certa. Ogni film di Muccino è destinato a soffrire in partenza di una diffidenza che ha pochi eguali nel cinema italiano. Una tendenza che è svincolata dalla qualità delle sue opere, e che probabilmente ha a che fare con le conseguenze di un successo in Italia ed all'estero sfuggito alle previsioni di chi crede di poter orientare gusti e tentenze. Venendo all'attualità bisogna però dire che "Quello che so sull'amore" è forse il suo film più debole sia dal punto di vista formale che su quello dei contenuti. Al centro della storia un ex stella del football che per riconquistare il figlio diventa l'allenatore della squadra di calcio della cittadina in cui il bambino vive insieme alla madre ed al nuovo compagno di lei. Per riconquistare gli affetti familiari George Dreyer dovrà vedersela con delle bellissime "Desperate Housewife" che tenteranno di distrarlo dalla meta infilardosi nel suo letto.
Con sentimenti ed emozioni assicurati dal contrastato rapporto familiare Muccino dispensa il dovuto glamour attraverso l'appeal di due star come Thurman e Zeta Jones, dark Lady simpatiche e sexy che tentano di far breccia nel cuore dell'aitante protagonista. A conti fatti però il nucleo centrale della storia, quello che riguarda i rapporti tra Dreyer e la sua famiglia risulta vampirizzato dai continui inserimenti del filone narrativo legato alle avventure boccaccesche del protagonista, che, è bene dirlo, non assumono mai la fisionomia di una vera e propria alternativa al perbenismo messo  in mostra dalla simpatica famigliola per l'episodicità delle situazioni, e la mancanza di spessore dei personaggi di contorno, troppo abbozzati per lasciare il segno. A differenza di altre volte però la debolezza della scrittura non è confortata dalla talento della mdp questa volta un pò pigra nel seguire gli sviluppi della vicenda. L'intrattenimento è piacevole ma innoquo. "Quello che so sull'amore" scorre via senza problemi ma di lui non rimane niente. Provaci ancora Gabriele.

mercoledì, gennaio 30, 2013

Film in sala dal 31 Gennaio 2013

LES MISERABLES
di Tom Hooper
con Anne Hathaway, Amanda Seyfried, Hugh Jackman, Russel Crowe, Helena Binham Carter, Sacha Baron Cohen
Drammatico 160 min - GB 2012


THE IMPOSSIBLE
Lo Imposible
di Juan Antonio Bayona
con Naomi Watts, Ewan McGregor, Geraldine Chaplin
Drammatico 114 min - ESP 2012


THE LAST STAND - L'Ultima Sfida
The Last Stand
di Kim Jee-woon
con Arnold Schwarzenegger, Johnny Knoxville, Rodrigo Santoro, Forest Whitaker, Luis Guzman
Azione 107 min - USA 2013


LOOPER - In Fuga dal Passato
Looper
di Rian Johnson
con Joseph Gordon-Levitt, Bruce Willis, Emily Blunt, Paul Dano
Azione 118 min - USA 2012


ASPROMONTE
di Hedy Krissane
con Franco Neri, Pier Maria Cecchini, Andrea De Rosa, Maria Pia Calzone
Commedia 78 min - ITA 2012


CIAO ITALIA
di Barbara Bernardi, Fausto Caviglia
con Robert Wieckiewicz, Benno Furmann, Agnieszka Grochowska, Maria Schrader
DOC 52 min - ITA/GER 2012


EVIL THINGS - Cose Cattive
di Simone Gandolfo
con Marta Gastini, Sara Lazzaro, Pietro Ragusa, Jennifer Mischiati
Horror 94 min - ITA 2013

martedì, gennaio 29, 2013

Mai Stati Uniti

Mai Stati Uniti
di Carlo Vanzina
con Ricky Memphis, Vincenzo Salemme
Italia 2013
durata, 90


Questione di sinergie ma anche di calcolato pragmatismo. Nel primo caso parliamo delle banche che hanno finanziato il film e dei possibili riflessi che questo può avere avuto sui giudizi positivi espressi dai giornali ad esse collegate a proposito di “Mai Stati Uniti”. Il secondo invece rispecchierebbe le riflessioni a voce alta di molti addetti ai lavori che vedono nel successo di film come quello dei Vanzina l’unica possibilità di finanziare il cinema d’autore destinato per sua natura a pagare il dazio in termini di incassi, e quindi proprio per questo bisognoso di essere sostenuto da quello popolare, di dubbia virtù ma altamente remunerativo. Da qui la necessità degli addetti ai lavori di sostenere il prodotto a scatola chiusa, indipendentemente dal suo effettivo valore. Sarà. Di sicuro c’è che questa nuova fatica dei fratelli Vanzina altro non è che una sorta di cinepanettone annacquato, edulcorato e ripulito degli aspetti più triviali dello storico filone, ma come quello assemblato omogeneizzando in modo caricaturale pregi e difetti, vizi e virtù della stirpe italica con l’intento di dare vita ad una serie di situazioni ad alto tasso di riconoscimento, di cui poter ridere ma allo stesso tempo sentirsi solidali. In questo caso il pretesto per mettere insieme la solita galleria di tipi umani è un viaggio in America che cinque fratelli devono compiere per compiere le ultime volontà di un padre di cui avevano sempre ignorato l’esistenza. A motivarli la ricompensa postuma di un eredità miliardaria da dividersi al termine del viaggio. Un’ impalcatura da film on the road con relativa presa di coscienza – al termine del viaggio la fratellanza per caso diventerà un sentimento reale e condiviso - raggiunta non prima di aver sciorinato l’inevitabile dose di conflittualità – che i Vanzina portano avanti in maniera meccanica, inanellando schetck televisivi che come sempre girano intorno ai piaceri della carne, fintamente rimossi dal linguaggio ripulito adottato dai protagonisti e dalla mancanza di attrici veline, ed invece presenti con la solita dose di doppi sensi funzionali ad innescare una serie di incomprensioni che vorrebbero far ridere. Il risultato è uguale alla faccia di Ricky Memphis, sguardo allibito e quasi catatonico. Sempre meglio della frenesia tarantolata dei colleghi, perennemente sopra le righe, come se il divertimento coincidesse con la forzatura dei gesti e con il tono di voce da brooker di Piazza Affari. Ad Anna Foglietta va il premio per il conflitto di interessi assegnatogli per la contemporanea presenza nell’altro film di Natale firmato Neri Parenti.

lunedì, gennaio 28, 2013

Pazze di me

Pazze di me
di Fausto Brizzi
con Francesco Mandelli, Loretta Goggi, Claudia Zanella
Italia, 2013
durata, 94


Le famiglie disfunzionali generano divertimenti catastrofici. Sono questi gli intenti che stanno alla base di una commedia come "Pazze di me", il nuovo film targato Fausto Brizzi, alle prese con uno script che riprende il suo dittico dedicato alla guerra dei sessi ("Maschi contro femmine", 2010 e "Femmine contro Maschi, 2011") variandolo a favore di una preponderanza femminile espressa nel numero dei personaggi proposti e nell'enfasi delle esasperazioni caratteriali rappresentate dal collettivo di Erinni messo in scena dalla storia.

All'origine di tutto c'è un abbandono, quello del padre di Giorgio, da allora chiamato a sostituire la figura paterna in un contesto capitanato da una madre dominatrice e castrante, e con nonna, sorelle ed anche una badante che in un modo o nell'altro finiscono per sfogare su di lui le frustrazioni ereditate dall'antico trauma familiare. Vittima di uno schema che ne condiziona le scelte della vita quotidiana, Giorgio vede fuggire una dietro l'altra le fidanzate di turno, spaventate dalla folle invadenza di quel consesso, fino all'incontro con Giulia, la donna della sua vita, che lo convince a ribellarsi una volta per tutte dalle perigliosa compagnia.

Se Giorgio - un Francesco Mandelli unmasked ed in versione slapstick - è il perno attorno a cui ruota il resto del film, non c'è dubbio che "Pazze di me" per l'overdose di voci femminili costituisca un'eccezione le cui proporzioni, sempre per restare al cinema di genere, devono essere rintracciate nel prototipo firmato da un maestro come Mario Monicelli che nel suo "Speriamo che sia femmina" (1986) dava spazio ad un universo femminile monopolizzante e maggioritario, e poi per fare un esempio più recente al cineteatro rappresentato dal film di Cristina Comencini "Due partite" (2009). Nei fatti però il film di Brizzi più che dare spazio ad una serie di "ritratti" utilizza l'elemento femminile, con le nevrosi e le contraddizioni che gli appartengono, come oggetto contundente capace di legittimare il tormentone del titolo, ma soprattutto come miccia per innescare una quantità di situazioni talmente assurde da giustificare le peripezie dello stralunato protagonista. In questo modo la presunta follia entra in gioco in maniera intercambiabile, e, ove si eccettui il personaggio Veronica (Claudia Zanella), a cui è dato il tempo di andare oltre il radicalismo del suo femminismo per tratteggiarne l'insicurezza, escludendo a priori l'universo che le contiene, e di conseguenza le psicologie che l'hanno prodotta. Così l'intransigenza materna della madre interpretata da Loretta Goggi, la risibile frivolezza di Federica, il perfezionismo di Beatrice e finanche l'opportunismo della badante romena più che peculiarità dei singoli ruoli diventano il riassunto della loro essenza, riducendo quelle personalità a puro stereotipo. In un contesto simile è ovvio quindi che a contare non sono le sfumature comportamentali e gli scarti emozionali ma la capacità del meccanismo di concatenare i fatti e di mantenere alto il ritmo degli inconvenienti che si abbattono progressivamente su Giorgio. E se questo succede, facendo quasi dimenticare la carenza del contesto in cui le situazioni si verificano, le coincidenze forzate - come quella che ad un certo punto fa si che Giorgio incontri sempre Veronica in compagnia del padre della sua fidanzata di cui la sorella si è pazzamente innamorata - o il cambio di direzione repentina in cui Giorgio da vittima delle sorelle diventerà una sorta di dottor Stranamore, in grado di risolverne i problemi sentimentali, allora in fondo, "Pazze di me" riesce ad essere all'altezza delle sue aspettative. Giunto alla sua settima regia Brizzi è già costretto a far quadrare i conti per il flop del precedente "Come bello far l'amore" (2012). Da qui forse il fatto di assegnare il ruolo principale a Francesco Mandelli, attore "caldissimo" per l'exploit de "I soliti idioti" (2012) e poi di affidarlo all'esperienza di animali da palcoscenico come Loretta Goggi, appena tornata al cinema, di Maurizio Micheli, caratterista a tutto campo e qui nei panni del portiere innamorato neanche tanto segretamente della madre di Giorgio, e da un mix di attrici giovani e meno giovani puntualmente professionali come Marina Rocco (Federica) ormai abbonata ai ruoli di bellina senza testa. Di suo Brizzi, qui meno pop del solito ci mette un universo che tracima a piene mani dal fumetto - Mandelli con il suo fisico esile e gommato potrebbe essere un disegno del Rebuffi di Tiramolla - e dal cinema americano. Evidente è l'influsso di PT Anderson per il personaggio di Veronica omologa del Frank TJ. Mackey di "Magnolia" (1999) anche per la somiglianza del contesto in cui ci viene presentato (il monologo di lei è simile al pensiero "Seduci e distruggi" del "womanizer" interpretato da Tom Cruise) ed ancor più per quello di Giorgio, versione italiana, almeno fino ad un certo punto del Barry/Adam Sadler di "Ubriaco d'amore"(2002), sottovalutato capolavoro del regista americano, ripreso non solo nella sottomissione al proprio nucleo familiare ma anche nei modi laconici in cui questa si esprime. Ed è forse proprio la distanza da quest'ultimo modello a far riflettere, sulla mancanza di coraggio di certa commedia nostrana, qui palesata con un finale paradossalmente machista e consolatorio (alla fine le donne si rivelano "donnette" ed è il maschio a dover correre in loro aiuto). Certamente utile agli incassi ma sicuramente superficiale nel cogliere una parte importante della nostra contemporaneità.
(pubblicato su ondacinema.it)

Film Telecomandati - Vendicami

Film Telecomandati
VENDICAMI
Regia: Johnnie To
Cast: J. Hallyday - A. Wong
In onda nella notte tra lunedi 28 e martedi 29 alle ore 01.15 su Rai 3.


vendicami ! La francese Irene vive a Macao insieme al marito e ai suoi due bambini.In una giornata che sembra uguale alle altre, l'intera famiglia viene presa d'assalto da tre spietati killer.
La donna, rimasta miracolosamente in vita, riceve la visita del padre Costello (J. Hallyday) giunto appositamente dalla Francia, al quale chiede di vendicare la sua famiglia. Costello ha però diverse difficoltà; si trova in un Paese a lui sconosciuto e sopratutto convive con seri problemi di memoria, dovuti ad un proiettile conficcato nella testa che non può essere estratto.
Per raggiungere il suo scopo chiede aiuto a tre killer del luogo capitanati da Kwai (A. Wong).

Per questo western metropolitano tutto pioggia e neon, il regista asiatico, attinge al polar francese,
riferimento obbligato per tutti i noir incentrati sulla figura solitaria del sicario.

Vendicami è un omaggio palese e incondizionato a FRANK COSTELLO - FACCIA D'ANGELO di Melville, datato 1967 e infatti il personaggio interpretato da Hallyday si chiama appunto Costello e indossa sempre un impermeabile come il Frank Costello interpretato da A. Delon nel capolavoro di Melville; inoltre se teniamo presente che il titolo originale del polar transalpino era LE SAMURAI, non bisogna sforzarsi neanche tanto per capire dove Johnnie To vuole andare a parare.
Vendicami è il "solito" film di Johnnie To: dolore, rancore, fratellanza, mattanze, pistole e killer, il tutto "alleggerito" dalla spettacolarità e dalle coreografie che tanto piacciono a Q. Tarantino.

Script semplice, conflitti a fuoco che sembrano danze con gli spari a fare da sottofondo musicale.


sabato, gennaio 26, 2013

Flight

"Flight"

di: R. Zemeckis

con: D. Washington, K. Reilly, T. Tunie, N. Velazquez, J. Goodman, D. Cheadle,
B. Greenwood.

- USA 2012 -

138'



A tre anni abbondanti da "The Christmas carol" (2009), torna Robert Zemeckis deponendo per l'occasione la "performance capture" a favore di una vicenda classica, ovvero questo "Flight", storia drammatica di un comandante pilota di linea, Whip Whitaker (Washington), che dopo una sciagura aerea circoscritta nei danni un po' per ventura un po' per destrezza e un quasi subitaneo innalzamento a rango di eroe nazionale, constata come la ricostruzione dei fatti da parte della commissione del trasporto aereo, nonché i suoi demoni personali (alcool e cocaina), lo incalzano altresì sempre più da vicino, dandosi spesso il cambio e
brigando per una sua definitiva resa.

Fatto salvo l'insinuante uso del sonoro, vero e proprio personaggio aggiunto al cast e dopo la brillante sequenza del "quasi disastro", coinvolgente e
diretta - seppure non inedita - impostata con puntualità stilistico-espressiva
(grazie anche all'apporto della fotografia di Don Burgess e agli immancabili
effetti speciali), tra accelerazioni e sospensioni che s'intrecciano a creare
la suspense; rapidi cambi di prospettiva e silenzi improvvisi a dilatare il
momento fatale, acuendo l'impressione d'inesorabilita', la pellicola si assesta
- metaforicamente smarrendo per strada pure il celeberrimo "tempo asincrono"
della batteria di Charlie Watts nel commento stonesiano ("Gimme shelter") - su
un ritmo meno nervoso, attendista, incerto fra le analisi delle contraddizioni
e i chiaroscuri del cosiddetto "eroe per caso" - figura di un certo rilievo
dell'immaginario anglosassone - e una più decisa virata introspettiva a
rovistare i meandri dell'inferno personale voluto/tollerato,
combattuto/blandito da Whitaker/Washington.

Adagiata sugli assunti che la fondano, tra vaghi echi del "Fearless" di Weir,
l'opera a cui si assiste e' un ibrido un po' anodino, appassionante solo a
tratti e come in permanenza sulla difensiva: a contrappunti crepuscolari e
misantropi (più che una debolezza, una sorta di condanna ammanta la dipendenza
di Whitaker), ad accenni melo' (il trascinarsi dei suoi attriti familiari), si
affiancano, infatti, svolte sbrigative o protratti indugi, e numerose
suggestioni accarezzate sono lasciate a meta' o fatte del tutto cadere (il
rapporto "a perdere" con Nicole, il personaggio della Reilly, troncato
pressoché di netto), fino a spingere l'inerzia dell'intero racconto entro le
strutture rigide delle procedure legali e del dibattimento.

Washington - manco a dirlo, candidato di nuovo all'Oscar - rallentato e
imbolsito, tratteggia un personaggio scostante con dimessa indolenza e
malcelata perplessità, tenendolo insieme con un campionario limitato di
variazioni (per lui) elementari e un tanto ovvie (per noi), e disponendolo
senza troppe ritrosie a quel paio di acrobazie sul genere
ravvedimento/espiazione che la sceneggiatura gli/(ci) riserva per il finale.

John Goodman si ritaglia due apparizioni a meta' fra amico fidato e risolutore-
di-problemi di tarantiniana memoria.

TFK

giovedì, gennaio 24, 2013

Qualcosa nell'aria

Qualcosa nell'aria
di Oliver Assayas
con Clement Metayer Lola Creton
Francia 2012
durata, 122


Parlare di se stessi e delle proprie esperienze è un’ arma a doppio taglio. Per un verso la conoscenza dell’argomento aiuta nell’estensione dei fatti, dall’altro il fatto di esserne stati coinvolti in prima persona rischia di produrre una lettura poco lucida per eccesso di emotività. Ancor prima di essere girato il problema di Olivier Assayas rispetto a “Qualcosa nell’aria”, la sua nuova creatura, era proprio questo. Riuscire a trasmettere un punto di vista personale sugli effetti del 68 parigino senza diventarne parte in causa. Trasmettere l’emozione di quei ricordi, ed al tempo stesso tempo mantenere la giusta distanza. L’assunto in questo caso aiutava, perché la storia del gruppo di liceali impegnati a tenere vivi gli ideali del maggio sessantottino si collocava "non lontano dalla Parigi del 1971" — ma comunque fuori dalla capitale — identificandosi con le prospettive di una generazione che aveva vissuto quel periodo attraverso il resoconto dei fratelli maggiori. C’erano quindi le premesse per far rivivere un momento cruciale della nostra storia mostrandone entrambe le facce, con i sogni e contraddizioni ugualmente distribuiti nel corso della vicenda. Sul piano strettamente filmico si si trattava in definitiva di far convivere la rappresentazione dei fatti di cronaca e di costume, in sostanza la componente oggettiva dell'opera, con uno sguardo personale che il regista francese decide di far arrivare mediante le vicissitudini di Gilles, una specie di alterego del regista, e del suo gruppo di amici. Il film in costume e di costume, si doveva intrecciare con il romanzo di formazione (dei protagonisti, alle prese con una storia di "passaggio") mettendo in moto un cortocircuito emozionale derivato sia dall’immedesimazione con il contesto ambientale, sia dalla messa in discussione di quegli ideali che il film da una parte esalta attraverso l’eccitazione provocata “dall’aria di cambiamento” a cui il titolo accenna, e dall’altra sconfessa con il jaccuse che Gilles e compagni legittimano mediante il progressivo disimpegno. Una frattura che il film fa arrivare a metà strada, durante il viaggio in Italia organizzato per sfuggire alle grinfie della polizia che li tiene sotto tiro, con la scena in cui il protagonista, ragazzo talentuoso con una particolare predilezione per il cinema, discute sulle conseguenze di una lotta di “liberazione” diventata paradossalmente strumento di morte (in quel periodo la guerra del Vietnam e la rivoluzione culturale cinese mietono vittime innocenti) che opprime le classi sociali più deboli. Da quel momento, complice anche l'introduzione dell'elemento sentimentale che porterà alcuni di loro ad inseguire uno stile di vita vicino a quegli ideali borghesi tanto criticati ma inevitabilmente impressi nel dna degli interessati, il film diventa frammentario, perdendo la compatezza che inizialmente aveva favorito la dialettica tra ambiente e personaggi. Tutto risulta episodico e fin troppo programmatico nel trasformare i singoli filoni narrativi in situazioni paradigmatiche, collocate a mosaico per dare vita al nostalgico presepe: dall’amore libero ripreso nella fragilità dei legami – di Gilles tanto per fare un nome, i cui rapporti amorosi si chiudono senza un reale perchè – alla droga, assunta come mezzo per sfuggire ad un quotidiano altrimenti insopportabile, dal richiamo esercitato da un'altrove seducente e salvifico rappresentato dal lontano oriente (ed il riferimento all' Afghanistan come paradiso in terra la dice lunga sul passare del tempo e degli uomini) all’importanza dell’arte, trait union che riduce gli effetti della diaspora amicale e funziona come sublimazione alla delusione dell’attivismo politico. A Convincere poco è anche la recitazione degli attori, tutti alle prime armi ad eccezione di Lola Creton, già vista ne "Un amore di giovinezza" (2012), quasi in posa nell'assolvere le esigenze del copione. Premiato per la migliore sceneggiatura all'ultimo festival veneziano

mercoledì, gennaio 23, 2013

A proposito di "The Master"

America. Fine anni '40, primi anni '50. Si può scampare, persino ad una guerra. E' possibile fare questo. Tornare a casa, come si dice. Ancor più
complicato, pero', e' stabilire cosa farsene della vita subito dopo essere stato sul punto di perderla. E soprattutto se esistono - esistono davvero - le
condizioni per scegliere di giocartela a modo tuo, di essere te stesso. Libero. Presunzione che la prossimità alla morte rende addirittura impellente. Lo
slancio "naturale" verso la vita, arrivati ad una stretta del genere, spesso si approssima alla linea di minor resistenza. Di conseguenza, altrettanto sovente,
implica costi molto alti da pagare.

D'altro canto, e' possibile pure mettere insieme un'audace e convincente
ipotesi di se stessi e delle cose - a tratti elegante, a tratti energica - e
col tramite di questa tentare di rimescolare le carte che regolano il gioco del
mondo, ìn specie quello con gli altri uomini, che di questo mondo, bene o male,
fanno parte. La "via" razionale e' più articolata, meno diretta, meno
spontanea, piena di angoli bui, rischiarati - di rado - da una luce flebile:
una via magari rigorosa, magari solo affascinante, addirittura nobile, a volte,
ma ugualmente irta d'insidie e soggetta a pedaggi parimenti onerosi.

Queste due figure così irriducibili e tipiche dell'immaginario americano - la
versione a stelle-e-strisce del primigenio dissidio tra Natura e Cultura - si
concentrano nel campo visivo di un film delle ambizioni e dello stile di "The
master", sesta prova del "nuovo classico" Paul T. Anderson, nella forma, da un
lato, del Sogno (il Sogno Americano, appunto) paradiso/inferno
dell'affermazione individuale, paradigma della rivolta vitalistica, emblema di
un rapporto ancora presente per quanto conflittuale con la realtà sensibile e
sensuale: la Natura, insomma. (Ma Sogno anche al di fuori della sfera
metaforica, se e' vero che diversi snodi del film sono contrassegnati da
momenti in cui Freddie Quell, il personaggio di Joaquin Phoenix, si ridesta,
fantastica ad occhi aperti, riposa su miraggi di regressione primordiale). E,
dall'altro, della sua Narrazione/Manipolazione (il Grande Romanzo Americano,
per dire una delle tante varianti di questa figura di cui il cinema e' forse il
più popolare dei mezzi di espressione), ovvero lo sforzo lucido e calcolato di
ricondurre quelle energie e quelle spinte enormi ma disordinate entro un
canone, una struttura logica che controllandone gli scarti e le
imprevedibilità, le consegna alle possibilità del linguaggio, trasfigurandole
in letteratura, in Mito (il mito dell'uomo americano, ad esempio, pragmatico,
sicuro di se', così come depositario di valori spirituali sempre in tensione
fra tradizione e modernità).

In "The master", s'intravedono entrambi, un po' discosti, nel caleidoscopio
delle loro molteplici facce: il Sogno/Natura quasi sullo sfondo (latita il
paesaggio, nell'opera, o non ha il respiro ampio che proietta l'azione oltre il
suo dipanarsi) e un tanto più a fuoco, il suo gemello eterozigote - nato con
qualche secondo di scarto ma ansioso di rifarsi - la Narrazione o Grande
Romanzo (il tentativo di costruire/restituire un uomo nuovo sottratto alle
presunte secche dell'istinto attraverso l'assimilazione di una verità inedita e
sconvolgente). Nel film, questi "oggetti sacri" che concorrono non poco alla
quotidiana sussistenza del Mito Americano, a dire le sue rispettive
incarnazioni - il quasi brutale Freddie Quell/Phoenix da un canto: marinaio a
riposo della Marina degli Stati Uniti, rispedito in patria al termine del
secondo conflitto mondiale, preda di sbalzi d'umore e di scatti d'ira,
americano solitario, "hobo" ante-litteram, distillatore e consumatore
d'intrugli alcolici, compresso tra gli stenti steinbeckiani e le insofferenze
di Thoreau, tutto sommato integro quanto disadattato senza scampo,
dall'incedere circolare e la loquela da cornacchia; e, dall'altro, il più
scivoloso Lancaster Dodd/Philip Seymour Hoffman: arringante piazzista dello
spirito, potenziale magliaro, gran teorico della propria stessa dottrina (manco
a dirlo ribattezzata "La Causa"), affabulatore morbido quanto centrato sul
punto, di modi misurati e argomentatore capziosamente lezioso eppure d'indubbia
maestria autoritaria, intrigante e insidioso, di accenti tardo fitzgeraldiani
già compromessi da strette e pericolose affinità con la scaltrezza opportunista
degli arrampicatori di Dreiser, tanta carne liscia e rosata con al centro vispi
occhi di volpe - s'incontrano e si scontrano di continuo, si cercano e si
evitano, si blandiscono e si odiano ma non si mostrano mai indifferenti l'uno
all'altro.

Ecco allora il Sogno - inteso qui come l'individuo animato quasi solo
dall'insieme delle sue pulsioni - distratto dalle necessita' biologiche dalle
circonvoluzioni ardite del pensiero e della dialettica (Quell e' irretito e
turbato dalle sedute propostegli da Dodd a base di domande intime spesso
ripetute, dalla cadenza quasi ipnotica e dal periodare allusivo). Ed ecco la
Ragione che cova un misto di fascinazione/ripulsa, una malcelata invidia per
l'apparente illimitata energia che Quell mostra di possedere (Dodd apprezza i
cocktail "inventati" da Quell; non gli fa mistero dell'importanza della sua
presenza; teme/ammira la sua imprevedibilità, la sua scarsa arrendevolezza).

Eppure c'è qualcosa che impedisce una conciliazione definitiva. Anzi, a ben
vedere, proprio le stesse ragioni che spingono il Sogno a cercare riparo
nell'ordine di una Narrazione e la Narrazione ad inseguire la libertà del Sogno
sbilanciano il rapporto, prefigurando - in virtù dell'esigenza di stabilire
norme precise, principi basilari, precetti assertivi, di fondare e promuovere
una "Causa", addirittura - lo spettro della manipolazione, ossia della
prevaricazione, dell'arbitrio. Non e' un caso, infatti, che nell'originale il
sostantivo "master" conservi l'ambiguita ' che corre sulla sottile linea di
confine che separa il "master" come "maestro", nel senso di colui che trasmette
un insegnamento attraverso la parola e l'esempio, dal "master" inteso come
"padrone", a dire colui che, sic et simpliciter, dispone degli altri
esercitando su di loro un'autorità.

La manipolazione (Tecnica, in senso più generale), altro tema portante del
lavoro di Anderson, e' da sempre lo strumento utilizzato dalla Ragione per
piegare la Natura al suo volere. Recalcitrare, ribellarsi - anche con violenza
- e' la risposta ultimativa della Natura come istinto di autoconservazione.
Quell ribadisce se stesso respingendo sovente i dettami di Dodd definendoli
"stronzate". Oppure si sottrae con un gesto beffardo: oppone manipolazione a
manipolazione. Quanto lui si masturba di fronte all'oceano in uno sperpero di
se' frenetico, adolescenziale quanto liberatorio e in fondo innocuo (in "campo
aperto" Quell e' a suo agio, e' a casa), Dodd e' costretto a "soddisfarsi" nel
chiuso di un bagno, dentro al lavandino, al cospetto dello specchio che gli
rimanda le sue stesse smorfie, persino "assistito" dalla moglie, in ogni caso
lontano dal sesso, per non parlare dal piacere.

La Ragione e' gelosa dell'Istinto perché non può permettersi la libertà che
lui invece si concede; l'Istinto frequenta la Ragione perché il magma al suo
interno rischia di lanciarlo in tutte le direzioni e disperderlo. Non c'è
tregua, pero'. E non può esserci pacificazione. Anderson analizza da par suo il
dissidio eterno tra Natura e Cultura, tra Tecnica e Istinto (ai singoli
stabilire come, fino a che punto e con quali esiti) secondo i termini classici
emersi dalla vicenda americana: l'individuo che non intende piegarsi alle
regole della comunita'; una società nel profondo ancora abitata stabilmente
dalla repressione - che più dichiara la sua ammirazione per la libertà e più
briga per circoscriverla, cioè addomesticarla - e una nemmeno tanto latente
schizofrenia e sostanziale solitudine di coloro più portati a "sentire" che a
"capire".

TFK

Film in sala dal 24 GENNAIO 2013

LINCOLN
di Steven Spielberg
con Daniel Day-Lewis, Sally Field, Josepg Gordon-Levitt, Tommy Lee Jones
145 min - USA 2012



QUARTET
di Dustin Hoffmann
con Maggie Smith, Tom Courtenay, Billy Connolly, Pauline Collins
95 min - GB 2012


IN DARKNESS
W Ciemnoshi
di Agnieszka Holland
con Robert Wieckiewicz, Benno Furmann, Agnieszka Grochowska, Maria Schrader
145 min - Polonia 2011


FLIGHT
di Robert Zemeckis
con Denzel Washington, Kellt Reilly, John Goodman, Don Cheadle
139 min - USA 2012


PAZZE DI ME
di Fausto Brizzi
con Francesco Mandelli, Loretta Goggi, Paola Minaccioni
93 min - ITA 2012


FUKUSHAME: il Giappone Perduto
Fukushame - The Lost Japan
di Alessandro Tesei
con Francesco Mandelli, Loretta Goggi, Paola Minaccioni
DOC 65 min - ITA/JAP 2012

Film telecomandati - I PADRONI DELLA CITTA'

Film telecomandati I PADRONI DELLA CITTA' (1976) 
Regia: Fernando Di Leo 
Cast: Vittorio Caprioli - Jack Palance - Al Cliver - Harry Baer

In onda: mercoledi 23 alle ore 23.10 su La 7D

"I Padroni della città" è lontano dai capolavori noir del regista foggiano, ma tenendo presente il risicato budget a disposizione il risultato non è malvagio. Oscillando tra farsa e tragedia, tra commedia e gangster-movie, la pellicola coinvolge lo spettatore sino all'epilogo, realizzato con una sequenza girata in maniera impeccabile.

La parte ironica e beffarda del film ruota intorno al personaggio interpretato dal mitico Vittorio Caprioli, quasi sempre il "portavoce" delle idee del regista dauno, in quasi tutta la sua filmografia.

Il film ci racconta della piccola manovalanza criminale (il titolo va interpretato in maniera beffarda) che sogna il potere quando invece si tratta di spacconi dalle dimensioni di un moscerino agli occhi dei veri boss della città. Un gruppo di delinquenti di piccolo calibro privi di orgoglio e dignità.

I Padroni della città è l'ultimo film prodotto dalla Daunia 70, la casa di produzione dello stesso Di Leo.

Tarantino ha dichiarato che è stato proprio I padroni della città, il film che gli ha fatto scoprire Fernando Di Leo.

Frase cult: "ricordatevi che l'organizzazione a delinquere nun è come'a fessa in man a 'creature".

lunedì, gennaio 21, 2013

The Master

The Master
di PT Anderson
con Joaquim Phoenix, Seymour Hoffmann
Usa 2012
Durata 144'


Il prestigio di un regista non si misura solamente dalle reazioni suscitate dalla visione dei suoi film ma anche dall’interesse con cui la comunità cinefila ne segue le varie ipotesi progettuali. In questo l’attenzione spasmodica provocato dalla notizia di un nuovo film firmato PTh Anderson “The Master” incentrato sulla figura di Ron Hubbard, il fondatore di Scientology, varrebbe da sola ad inserire il suo regista nell’olimpo degli autori.

Nella fattispecie è certo che almeno negli Stati Uniti ad infiammare gli animi abbia contribuito la scelta di un soggetto controverso e duramente criticato per i metodi di organizzazione interna e di proselitismo.
Sarà stata la scoperta di una sostanziale mancanza di riferimenti ed aneddoti collegati a quel movimento ed al suo ideatore ad aver raffreddato l’entusiasmo nei confronti del film, sottovalutando in qualche modo il lavoro di un regista come Anderson, poco interessato a realizzare la "cinebiografia" del personaggio ma piuttosto intenzionato ad utilizzarne il ritorno carismatico ed il periodo storico che lo riguarda per allargare il discorso ad una certa idea di americanità.
Hubbard nella persona di Lancaster Dodd (Philipp Seymour Hoffmann) non è solo il sacerdote di un nuovo credo, ma piuttosto il portavoce del verbo che mette ordine al caos in un paese che ha appena perso la sua giovinezza nel corso di una guerra di cui ancora non capisce il senso.


Ma non solo, perché gli anni 50 del film segnano la cesura con un certo tipo di mentalità vittoriana costretta di lì a poco a fare i conti con la propria ipocrisia. In questo senso “The Master” attraverso il rapporto tra Dodd e Freddie Quell, il reduce di cui il primo si occupa e forse si invaghisce, si può considerare un film sulla repressione, morale, sessuale, sociale di una comunità. Ad esserne schiavo in una maniera che è paradossale rispetto alle sue credenziali è innanzitutto Dodd, generalmente compassato e padrone della situazione ma in realtà irascibile ed isterico quando viene messo alle strette con domande ed osservazioni che potrebbero metterne in dubbio leadership e dogma; lo è la figlia, appena sposata ma incapace di mettere a freno l’attrazione per il nuovo arrivato, ed anche la moglie, pronta a nascondere ogni cosa, anche le possibili mancanze del marito, pur di vederne  salva la reputazione agli occhi della comunità. A dimostrarlo poi sono due sequenze fondamentali che arrivano a metà film, una dietro l’altra: la prima è una sorta di allucinazione in cui Freddie, depresso dagli esercizi del mentore che tenta invano di fiaccarne la ferinità, trasforma la festa da ballo a cui assiste senza partecipare in un vero e proprio baccanale, immaginando donne nude che accompagnano danzanti l’esibizione di Dodd; la seconda differente nel contesto - intimo anzichè pubblico -  ma simile nell’allusione ad una sessualità rimossa e quindi deviata,  ci mostra i due coniugi coinvolti in un erotismo sofferto, con la moglie “madre” che aiuta Dodd a masturbarsi davanti allo specchio.

Anderson traduce i contenuti del film in un lungo faccia a faccia tra discepolo e maestro, dapprima storicizzandolo all’interno di un epoca resa da un impianto visivo prelevato tra gli altri da Rockwell ed Hopper, successivamente ponendolo al di fuori di qualsiasi contesto per farlo assurgere a simbolo di uno incontro scontro tra uomo e natura, la sua e quella del creato, tra ragioni imposte ed impulsi primordiali, tra verità e finzione. Un film immenso quindi, forse troppo, che alla fine rimane vittima di un gigantismo che inizia e finisce nella centralità dei personaggi, e nella mostruosa bravura dei due interpreti, anteposti non solo dalle esigenze di sceneggiatura ma anche dalla rispettive impostazioni: sofferta, istintiva, a nervi scoperti quella di Phoenix (Freddie), equilibrata, dominante, ambiguamente sottile quella di Hoffmann, capace di lasciare in bilico il giudizio su un demiurgo che sta a metà strada tra inferno e paradiso. Sono loro a mangiarsi un film che a metà del suo cammino sembra quasi fermarsi a guardare i protagonisti più che a raccontarli, da una parte mettendo in scena la rappresentazione di una mancata seduzione, perchè alla fine Freddie torna sui suoi passi rinunciando alla cura della sua patologia (depressione, pazzia oppure lucida follia), dall'altra alimentando  incertezza sulla plausibilità di quanto aveva precedentemente asserito, attraverso la ripetizione ossessiva e finanche ridicola delle pratiche a cui Freddie viene sottoposto da parte di Dodd. Così facendo il film pur mantenendo inalterato il gradiente di fascino e di mistero diventa inconsistente sul piano dei contenuti. In un livello generale che si mantiene comunque elevato ancora una volta il cinema di Anderson si fa amare soprattutto per la sua messinscena. In questo caso oltre alla direzione degli attori c'è la capacità di lavorare sull'immagine per rendere la dimensione psicologica in cui si gioca la vicenda. Anderson la richiama facendo ricorso ad elementi psicanalitici come la presenza continua dell'acqua del mare su cui la regia stacca a conclusione di sequenze di massima tensione (a leggittimare forse l'avvenuto scioglimento della stessa) o del sogno, presente in tutti gli snodi del film e nella sua conclusione, oppure ambientando la storia principalmente in non luoghi (un grande magazzino, alberghi, il deserto, un cinema) che scorporano gli avvenimenti dalla loro contingenza rendendoli astratti e difficilmente collocabili, ed ancora corredando il tutto con una colonna sonora paranoica, scandita da un ritmo sincopato e disturbante. Un lavoro eccellente che avrebbe avuto bisogno di maggiore concretezza per diventare quel capolavoro che "The Master" ha solo sfiorato.

domenica, gennaio 20, 2013

La scoperta dell'alba

La scoperta dell'alba
di Susanna Nicchiarelli
con Margherita Buy, Sergio Rubini
Italia 2013
Durata 92'


Gli anni di piombo sono notoriamente un nervo scoperto della storia italiana. Il cinema, nel tentativo di aiutare il paese a metabolizzarne le conseguenze, ha posto una reticenza che è il segno più tangibile di come ancora oggi le ferite non si siano rimarginate.

La difficoltà di raccontare quegli anni, e soprattutto di accettare le motivazioni che li hanno prodotti, è stata acuita dal fatto che le persone chiamate a parlarne ne sono state in qualche modo coinvolte, magari tra barricate di una protesta sfuggita di mano, oppure solamente per aver provato la paura di giorni dominati dall'odio e dalla morte. L'ultimo tentativo in tal senso arriva dal festival di Roma che presenta nella sezione "Prospettive Italia" il secondo film di Susanna Nicchiarelli, "La scoperta dell'alba", ricavato con qualche cambiamento dall'omonimo libro di Walter Veltroni.

Il film racconta di una frattura temporale che, attraverso un cortocircuito telefonico, mette Caterina nelle condizioni di tornare ai tempi della sua adolescenza, entrando in comunicazione con il suo alter-ego. Allo stupore iniziale subentra quasi subito la scoperta di una serie di indizi che la portano a dubitare sulle ragioni della scomparsa del padre, un professore universitario rapito dalle Brigate Rosse per aver collaborato alla stesura di una legge che tradiva la causa del proletariato. Nel tentativo di invertire i fatti della storia, Caterina inizia ad indagare sul passato del proprio genitore per arrivare ad una scoperta che cambierà le prospettive della sua esistenza e di quella della sua famiglia.

Equamente diviso tra passato (gli anni 70) e presente, e immerso per quanto riguarda la sezione dedicata agli anni 80 nei colori e nelle musiche del periodo, "La scoperta dell'alba" più che spiegare il terrorismo e le sue conseguenze assomiglia ad un kammerspiel in cui a contare non sono tanto la narrazione dei fatti e gli sviluppi dell'intreccio, ma i rapporti tra i personaggi, le interazioni e le emozioni che li attraversano nei vari passaggi del racconto. Come se si trattasse di una nuova "recherche" in cui la possibilità di recuperare il tempo perduto funziona da catarsi rispetto ai non detti che appartengono analogamente ai protagonisti del film, ed insieme anche a quelli dello spettatore, la Nicchiarelli lavora sui due piani temporali come fossero uno solo: in questo modo evita di cascare negli stereotipi e nel coté di situazioni che normalmente accompagnano la scoperta del fantastico e dell'inverosimile, preferendo la costruzione di un'atmosfera in grado di rispecchiare il dualismo di un momento - gli anni 80 - in cui l'angoscia dello scontro armato scoloriva nella speranza di esserne finalmente usciti.

È questa la ragione di una colonna sonora da juke-box ("99 luftbollons" e "Video Killed the Radio Star" sono le due canzoni tormentoni) sovrapposta a momenti di drammatica tensione, e dell'utilizzo di corpi e di interpretazioni anomale e goffamente divertenti, come quelle del chitarrista del gruppo musicale prodotto dalla sorella di Caterina (ad impersonarlo è lo stralunato attore de "L'ultimo terrestre"), imbranato e debilitato dai mal di pancia provocate dalle cozze che continua a mangiare nonostante ne sia allergico, oppure del marito della protagonista (Sergio Rubini, nuovamente arruolato in un film della regista), un disegnatore di cartoni animati con la testa fra le nuvole ed ignaro dei turbamenti della moglie che a sua insaputa si ritroverà sul punto di lasciarlo. Allo stesso tempo rende tangibile la paura e i dubbi della protagonista con ralenti e carrellate in avanti e all'indietro che enfatizzano il senso di perdita e l'alienazione provocato dalla vertigine di una realtà che si va ridisegnando di fronte agli occhi di Caterina.

Se la scelta di drammatizzare maggiormente i conflitti interiori rispetto a quelli materiali - quando la violenza presente è filtrata dal ricordo e dalla distanza temporale - è strutturale alla genesi dell'opera, per cui, di fatto, risulta più scioccante scoprire il tradimento del genitore che la morte di un uomo innocente, "La scoperta dell'alba" non riesce ad essere efficace laddove vorrebbe. A risultare troppo debole non è solamente il meccanismo che dovrebbe provocare la sospensione di incredulità, dato per scontato troppo presto e più simile a una regressione psicanalitica, ma anche lo spessore dei personaggi secondari, quelli funzionali ad oggettivare il tormento interiore della protagonista.

Così, in mancanza di una vera dialettica, "La scoperta dell'alba" finisce per girare su se stesso, indugiando all'infinito sullo sbigottimento dell'umanità di cui racconta, ma senza riuscire ad argomentarne le ragioni. Un'occasione mancata e la conferma che certe cose sono ancora troppo recenti perché tutti ne abbiano il necessario distacco.




(pubblicato su ondacinema.it)

sabato, gennaio 19, 2013

Il Kino ospita il Raindance Festival

                                                                   

 
23 / 27 gennaio 2013 c/o Il Kino - Roma

(via Perugia 34, Roma)

Il Kino ospita il Raindance Festival:
aperte le iscrizioni ai workshop con il guru Elliot Grove,
proiezioni e incontri sulla produzione low e no budget  


Dal 23 al 27 gennaio 2013, il Kino ospita il Raindance Film Festival di Londra. Conosciuto in tutta Europa, il Raindance è – e non solo ironicamente, come si evince dal nome – la versione europea del Sundance di Robert Redford e arriva in Italia, dopo essere già da un anno sbarcato a Berlino al cinema Sputnik. Sinonimo di produzioni indipendenti, low budget, no budget, corti, lungometraggi e documentari, il Raindance è diventato la vetrina europea dei veri indipendenti, quelli che alle spalle, oltre a non avere un broadcaster, non hanno che gli amici – seppur bravi e talentuosi.

Ospite d’onore del festival, il fondatore Elliot Grove, convinto fautore dello “Yes, we can” in versione cine-narrativa, che ha impresso al Raindance il sigillo del laboratorio: da vetrina, si è infatti trasformato in fornace di talenti.  Con i suoi workshop noti in tutto il mondo (frequentati, tra gli altri, anche da Sacha Baron Cohen, Guy Ritchie e Christopher Nolan), Grove sostiene che “non insegniamo film-making, noi facciamo film-makers”.


L’apertura della rassegna, mercoledì 23 gennaio alle ore 18:30 è affidata a un evento gratuito, dal titolo 99 Minutes Film School, un incontro che, offrendo consigli e trucchi del mestiere, spiega le basi per fare un film, fino a fornire i mezzi indispensabili per lanciare un prodotto cinematografico. Da come trovare una sceneggiatura fattibile, al reperimento di cast e troupe, a come far vedere e circolare il vostro film, senza scordare l’uso dei social media per filmmakers. Quindi, in crescendo, come arrampicarsi sulla  scala del successo, come distribuire un film e infine..come farsi pagare! A margine di questo primo incontro, i due workshop a pagamento (tutte le info sul sito www.ilkino.it e alla mail info@ilkino.it).

giovedì, gennaio 17, 2013

Film Telecomandati - VAMOS A MATAR COMPANEROS

Film Telecomandati
VAMOS A MATAR COMPANEROS (1970)
Regia: Sergio Corbucci
Cast: Franco Nero - Tomas Milian - Iris Berben - Jack Palance - Fernando Rey
In onda: nella notte tra il 17 e 18 gennaio alle ore 01.15 su Iris.



Vamos a matar companeros è uno dei maggiori esempi di spaghetti-western appartenente al sottofilone politico-rivoluzionario.
Questo sottofilone (che ebbe riflessi anche nel cinema d'autore con film come Quien sabe? di Damiano Damiani) miscelava, a volte in maniera troppo ardita, istanze terzomondiste, filosofia maoista e istinti rivoluzionari, catapultando il tutto in un mondo fatto di pistoleri, rivoluzionari duri e puri, cacciatori di taglie, arroganti proprietari terrieri, traditori del popolo.

Solita coproduzione italo-spagnola con partecipazione tedesca, il film di S. Corbucci si posa su una sceneggiatura solida che si serve della rivoluzione messicana per raccontare le avventure picaresche dei protagonisti.

Cast di assoluto livello con un Franco Nero al meglio e Fernando Rey che garantisce quel qualcosa in più.
Su tutti svetta Tomas Milian (non doppiato) con basco alla Che Guevara e ghigno irresistibile.

Una particina anche per la tedesca Karin Schubert, che a metà degli anni '80 divenne una delle attrici porno più note.
Film imperdibile anche per i non frequentaori del genere.
Indimenticabile il motivo musicale di Ennio Morricone che porta lo stesso titolo del film:

Levantando en aire los sombreros
vamos a matar, vamos a matar, compañeros!
Pintaremos de rojo sol y cielos,
vamos a matar, vamos a matar, compañeros!
Hay que ganar moriendo, pistoleros,
vamos a matar, vamos a matar, compañeros!
Hay que morir venciendo, guerrilleros,
vamos a matar, vamos a matar, compañeros!
Luchando con el hambre, sin dineros,
vamos a matar, vamos a matar, compañeros!
Estudiantes, rebeldes, bandoleros,
Vamos a matar, vamos a matar, compañeros!
Hermanos somos, reyes y obreros,
Vamos a matar, vamos a matar, compañeros!

Cloud Atlas

Cloud Atlas
di Wachowsky, Tykwer
con Tom Hanks, Halle Barry, Ben Whishaw
USA, Germania, Singapore, Hong Kong
durata 172
 
Strano percorso quello dei fratelli Wachowski. Habituè del cinema mainstream di cui certamente utilizzano le forme, i due autori ad ogni film non smentiscono la loro fama di registi alternativi procedendo con metodica determinazione alla costruzione di una cosmogonia che partendo da situazioni note della nostra contemporaneità la rimodellano secondo i parametri di un sincretismo filosofico e spirituale aggiornato alle consapevolezze del nuovo millennio. E così dopo il botto del primo “Matrix”(1999) ed alcuni episodi interlocutori la “nuova religione” torna a farsi viva in questo “Cloud Atlas”, ultima fatica dei fratelli Wachowski per l’occasione affiancati dal collega tedesco Tom Twicker (Lola corre,1998). Sviluppando un canovaccio che interseca personaggi e storie diluite nel tempo e nello spazio gli autori del film affermano l’esistenza  di un “anima mundi” capace di riflettersi e moltiplicarsi attraverso i secoli della storia, presentando situazioni e personaggi apparentemente distanti ed invece collegati tra di loro dall’unicità di quella fiamma primigenia da cui tutto deriva. All’insegna delle vite precedenti, le esistenze dei vari protagonisti si srotolano come un unico grande romanzo dove a cambiare è solo l’involucro, adattato di volta in volta alle varie contingenze ma sempre accompagnato da una concatenazione di anime che alla maniera dell’araba fenice muoiono e si rigenerano assecondando corrispondenze misteriose ed affascinanti. Come un boomerang scagliato da un ignaro lanciatore ogni gesto, ogni azione, bella o cattiva che sia, si riflette nell’universo temporale abbracciando le vite di altrettanti ignari destinatari che lo accolgono trasformandolo in qualcosa di diverso eppure uguale, in qualche modo ricollegato al punto di partenza. 

Per questo motivo la bellezza di un film come “Cloud Atlas”, impegnativo sia nella lunghezza del minutaggio (si superano le tre ore) che nei continui andirivieni spazio temporali non risiede nell’analisi dei singoli microcosmi che il film mette in piedi, ma nella visione complessiva, in cui l’assunto del film, “Tutto è connesso”, viene reso da un montaggio davvero sopraffino, capace di realizzare un rapporto causa effetto a volte chiaro, altre volte sottile, che si rivela soprattutto a chi è capace di sintonizzarsi con il ritmo di un film che procede come flusso di coscienza. In questo modo lo spettatore più che appassionarsi alle singole vicende, di per se abbastanza scontate tanto negli sviluppi quanto negli esiti, può trovare le sue soddisfazioni  nel purezza delle immagini, naive come si conviene ad un film che ha l’ardire di rappresentare le forme dell’anima. Interpretato da un cast  di multiforme lucentezza (Tom Hanks, Halle Berry, Ben Whishaw tra gli atri) “Cloud Atlas” deluderà le aspettative di quanti avrebbero voluto il seguito di “Matrix”. Qui invece il dettaglio spettacolare è sopraffatto dal senso di una riflessione che si nutre di meraviglia e di scoperta più che delle possibilità offerte dagli effetti digitali. Il make up vistosamente applicato sulle facce degli attori rende come meglio non si potrebbe il carattere accessorio della corporeità dell’essere umano: tanto artificiali e goffe sono alcune di quelle acconciature, tanto è leggero e vitale lo slancio che da esse viene fuori.

mercoledì, gennaio 16, 2013

Cercasi amore per la fine del mondo

Cercasi amore per la fine del mondo
(Seeking a friend for the end of the world)

regia di Lorene Scafaria
con Kiera Knightley, Steve Carell
Usa, 2012
durata, 94

Quando due attori riescono a salvare un film, anzi quando due attori all’interno di una scena possono salvare un film. Anzi per dirla tutta, quando due attori all’interno di una sequenza indimenticabile riescono a dare senso ad un film altrimenti dimenticabile. Gli attori sono Steve Carrell e Keira Knightley, la sequenza è quella che li vede rispettivamente nei ruoli di Dodge e Penny, distesi sul letto a consumare gli ultimi istanti di un mondo che sta per scomparire.

Quel momento è il culmine di una storia d’amore anomala, nata in circostanze altrimenti impossibili, non tanto per la differenza di età tra Dodge, maturo quarantenne, e Rose, ragazza della porta accanto, ma piuttosto per una predisposizione mentale che fino a quel momento aveva impedito ad entrambi di accorgersi dell’altro nonostante la vicinanza quotidiana. Il film sceglie quindi di forzare le cose utilizzando il subbuglio emotivo provocato dall’infausta circostanza per immaginare un incontro nato dalla voglia di esternare le rispettive delusioni sentimentali.

Dodge infatti è stato appena mollato dalla moglie per un uomo di cui ignorava l’esistenza; per Penny invece si è trattato solamente di prendere atto di una storia che non aveva mai funzionato.
Con questa predisposizione la loro intesa assume dapprima i connotati di un patto di mutuo soccorso: in mezzo ad un mondo che cade a pezzi ed in cui tutti perdono la testa, abbandonandosi agli istinti ed alla disperazione, l’esistenza è ancora in grado di fornire un ultimo desiderio: lui intende incontrare la donna che aveva amato prima di sposarsi, lei invece vorrebbe ricongiungersi con il resto della famiglia. Mete diverse che i due decidono di raggiungere insieme per darsi manforte lungo il viaggio, o forse perché l’amicizia si sta trasformando qualcosa di più.  In mano a Lorene Scafarla la vicenda si sviluppa come un classico “buddy movies” in cui i due protagonisti scopriranno l’amore nel corso di un viaggio costellato di piccoli imprevisti e grandi emozioni. Nulla di eccezionale, e se vogliamo in linea con le opere che ultimamente sono nate sulla scia delle profezie sulla fine del mondo, incentrate su una sorta di de profundis in cui personaggi liberati, per ovvi motivi, dalle proprie inibizioni. sono liberi di essere se stessi fino in fondo.

A differenza dei suoi predecessori però sotto il velo di mestizia e malinconia “Seeking a Friend for the End of the World” è capace di sviluppare un sentimento d’amore reale e profondo. A renderlo tale soprattutto la bravura dei due attori, e l’alchimia che gli consente di parlare con gli occhi e con il cuore prima ancora  che con le parole. E poi quella scena finale, da vietare non solo a chi si commuove facilmente, ma anche a chi ha fondato la propria virilità sul controllo delle emozioni. Difficile farlo mentre lo schermo si riempie delle lacrime di Penny, e della voce rotta dal pianto di chi vorrebbe vivere per sempre quell’amore così bello. Accanto a lei non è meno commovente Dodge, che la affianca con lo sguardo di chi è grato alla vita per aver conosciuto un sentimento così grande. Farell e Knightely sono di un’intensità stupefacente ma la regista ci mette del suo quando lascia che sia l’ anelito di un contatto fisico continuamente sublimato a sancire la perfezione di quell’unione.
(icinemaniaci.blogspot.com)

(recensione del 20-dic-2012)

Film in sala dal 17 GENNAIO 2013

CERCASI AMORE PER LA FINE DEL MONDO
Seeking a Friend for the End of the World
di Lorene Scafaria
con Steve Carrell e Keira Knightley
101 min - USA 2012



DJANGO UNCHAINED
di Quentin Tarantino
con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Kurt Russell, Sacha Baron Cohen, Samuel L.Jackson, Kerry Washington, Leonardo Di Caprio
165 min - USA 2013



QUALCOSA NELL'ARIA
Après Mai
di Olivier Assayas
con Clement Metayer, Lola Creton, Felix Armand, Carole Combes
122 min - FRA 2013



GHOST MOVIE
A Haunted House
di Michael Tiddes
con Marlon Wayans, Nick Swardson, Alanna Ubach
80 min - USA 2013



REC 3 - LA GENESI
Rec 3: Génesis
di Paco Plaza
con Carla Nieto, Leticia Dolera, Diego Martin, Ismael Martinez
90 min - ESP 2012

Film Telecomandati - ...E TU VIVRAI NEL TERRORE! L'ALDILA'

Film Telecomandati
...E TU VIVRAI NEL TERRORE! L'ALDILA' (1981)
Regia: Lucio Fulci
Cast: David Warbeck - Katherine MacColl - Sarah Keller
In onda: il 16 gennaio alle ore 00.40 su Iris


Probabilmente l'opera più visionaria di Lucio Fulci, che si lancia nella moda horror del momento, quella delle case infestate, infatti, all'epoca, erano freschi di successo Shining di S. Kubrick e Inferno di D. Argento.

New Orleans: un pittore sospettato di stregoneria è al lavoro presso un hotel. Dal fiume a bordo di una barca arrivano alcuni uomini incappucciati armati di catene e torce. Il pittore viene portato nella cantina dell'albergo e crocifisso! Partenza sparata per il maestro Fulci che durante questa pellicola "delizierà" gli spettatori con scene diverse raccapricianti grazie agli effetti speciali di Giannetto De Rossi e Maurizio Trani.

Prodotto da Fabrizio De Angelis e sceneggiato da Dardano Sacchetti, L'aldilà arriva nelle sale il 29 aprile 1981 ed incassa meno di 750 milioni di lire, ma come spesso succede con i film di Fulci, successivamente conquista i mercati esteri.

L'aldilà, come consuetudine per tutti i film di Fulci fu stroncato dalla critica, di seguito alcuni esempi:

"...il primato il film lo tocca soltanto nello stomachevole. E siamo sinceri: a tale livello,è più tollerabile la pornografia." - (Corriere della Sera 14.06.1981);


"...il risultato è solo quello del solito teatrino del macabro interpretato da personaggi scontati..." (La Repubblica 06.06.1981).

Ovviamente la versione televisiva è alleggerita delle sequenze più truci.

lunedì, gennaio 14, 2013

Django Unchained

Django Unchained
di Quentin Tarantino
con Jamie Foxx, Cristoph Waltz, Leonardo Di Caprio
Usa 2012
Durata 165'

Comunque la si voglia mettere e nonostante i suoi malesseri  la tradizione del cinema italiano continua ad essere fonte d’ispirazione per i registi di tutto il mondo. E se non stupisce l’attenzione e la stima verso le pagine più fulgide del nostro movimento, dal neorealismo alla commedia italiana, sorprende per più di un motivo quella di recupero nei confronti del cinema meno nobile, omaggiato in lungo ed in largo ed ora, per la seconda volta dopo il precedente “Bastardi senza gloria”(2009) preso in considerazione da Quentin Tarantino come fonte d’ispirazione per il suo nuovo film, “Django Unchained”, rivisitazione del famoso personaggio interpretato da Franco Nero ed insieme omaggio allo spaghetti western a cui la serie di Django è legata.

Un western dunque, ma alla maniera di Tarantino che non solo introduce nella sua versione una variante fondamentale, perché il protagonista del film è un ex schiavo diventato cacciatore di taglie dopo essere stato liberato dall'uomo ( il dottor Schultz interpretato dal premio oscar Christoph Waltz) che gli insegnerà il mestiere facendolo diventare suo secondo, ma, ed è forse la cosa più importante, decide di collocare la storia nel sud degli Stati Uniti alla vigilia della guerra civile, facendo entrare in gioco quella parte di storia americana che deve fare i conti con il tema dello schiavismo. Accade infatti che dopo aver usufruito dei suoi servigi il dottor Schultz decide di aiutare Django a liberare la moglie dalla grinfie dei suoi sfruttatori, accompagnandolo a Candyland la piantagione dove Bromhilda è ridotta in cattività dal mefistofelico Calvin Candie (un cattivissimo Leonardo Di Caprio).

Tarantino non si smentisce neanche questa volta, quando, prendendo in prestito le forme di un cinema che non gli appartiene lo trasforma in qualcosa di assolutamente nuovo divertendosi a decostruirne i codici, inserendovi manie ed ossessioni che fanno capo innanzitutto alle sciarade linguistiche ed alla tipizzazione dei caratteri. Così in questo occasione a farla da padrone è il personaggio interpretato da Waltz, contraltare ironico e beffardo alla serietà composta e vendicativa di quello incarnato da Jamie Foxx. Metronomo del film per il tempo che gli è consentito lo strampalato Schultz è il vero depositario del verbo tarantiniano; è attraverso di lui che il regista americano si rivela, infilando quà e là guizzi d’intelligenza e spunti di grottesca comicità in un contesto generale dominato dal sangue e dalla vendetta, e dove ad emergere è il cuore oscuro di un america divisa tra Master and Servant. Un Tarantino divertente ma al tempo stesso impegnato a fornire la sua versione dei "fatti", a proposito della quale non sono mancate le polemiche se è vero che Spike Lee ha invitato al boicottagio dell'opera per l'utilizzo di un linguaggio ritenuto offensivo nei confronti della comunità afro americana.

Detto questo aggiungiamo che rispetto alle opere che lo hanno preceduto "Django Unchained" appare meno compatto, suddiviso in parti che faticano a stare insieme. Parliamo ad esempio dello scarto esistente tra la prima sezione dedicata alle avventure di Shultz e Django in veste di bounty killer
, con la seconda, dove con un pretesto risibile i due diventano amici per la pelle condividendo i rischi connessi con la liberazione di Bromhilda. Viene quasi da pensare che il cinema di Tarantino nella sua inevitabile evoluzione si sia adeguato alle aspettative dei produttori e quindi del botteghino, cercando di far coincidere gli aspetti divistici qui assicurati dalla presenza di Di Caprio e Foxx con quelli più personali, connessi con la sua poetica d'autore e che “Django Unchained” stia a “Kill Bill” (2003/2004) e “Bastardi senza gloria” come “Jackie Brown” (1997) stava alle “Le iene” (1992) e “Pulp Fiction”(1994). Un film di transizione quindi, seppure di alto livello e superiore alla media dei prodotti in circolazione.

sabato, gennaio 12, 2013

Buon Anno Sarajevo

Buon Anno Sarajevo
di Aida Bejic
con Marija Pikic, Ismir Gagula
Bosnia-Herzegovina, Germania, Francia, Turchia 2012
Durata 90'

Le guerre sono tutte uguali, così come lo sono le conseguenze sopportate da chi riesce a sopravvivergli ma, per questioni di vicinanza geografica, e per la tipologia di un conflitto trasformatosi in scontro fratricida, quella balcanica era destinata inevitabilmente a rimanere più impressa di altre nella nostra memoria. E così, sulla scia del melodramma familiare firmato da Sergio Castellitto ("Venuto al mondo", 2012) arriva a stretto giro di boa, e dopo i consensi raccolti nei festival di mezza Europa "Buon Anno Sarajevo", opera seconda di Aida Begic che, allo stesso modo del film italiano ci parla di un presente, quello vissuto dai cittadini di Sarajevo, costantemente rivolto alla scena del delitto, nel tentativo di metabolizzare l'atroce misfatto. E pur con le dovute differenze, su cui non è il caso di dilungarci, in entrambe le pellicole a giocare un ruolo decisivo è la memoria di quei fatti, indelebile e struggente, ed ancora una presenza femminile che non riguarda solamente la carta d'identità delle autrici ( "Venuto al mondo" nasce appunto dall'omonimo romanzo di una scrittrice, Margaret Mazzantini per l'appunto) ma anche alla loro creazione artistica, essendo questo film, allo stesso modo di quello italiano, incentrato su un personaggio femminile che incarna attraverso i ricordi e le ferite del presente, la crudeltà di quel periodo.

"Buon Anno Sarajevo", è la traduzione italiana che traduce l'originale "Djeca" (bambini) con un'ironia ed una speranza che ribalta il senso di mestizia di una film senza scampo, in cui c'è poco da sorridere. D'altronde non potrebbe essere altrimenti nella Sarajevo di oggi, segnata nel corpo e nello spirito dalle conseguenze di un passato rovinoso, e ridotta allo stremo dalla corruzione politica e dalla crisi economica. A cercare di resistervi i due fratelli della nostra storia, Rahima e Nadim, orfani condizionati da precarietà finanziaria . Per "liberarsi da quella vita" (secondo le parole pronunciate ad una certo punto dalla donna) Rahima, mussulmana con il velo spende il tempo lavorando in un ristorante gestito da un padrone irascibile e prepotente, ed occupandosi del fratello, adolescente irrequieto alle prese con i problemi di una crescita messa a rischio dalla mancanza della normalità familiare. Il destino si accanisce contro di loro quando, a causa di una rissa scolastica Nadim rompe il cellulare del figlio del ministro. Ripagarlo comporterà dei sacrifici.

Costruito su un plot semplice e diretto, con un personaggio, Rahima, chiamato a funzionare sia come termometro esistenziale, sia come occhio privato sullo stato delle cose, "Buon Giorno Sarajevo" è un film acustico e visivo per l'importanza che le due componenti hanno nell'economia della storia. Scegliendo di raccontare una ferita, quella di Rahima, costretta a convivere con le reminiscenze di una città sotto assedio e con l'orrore da esse suscitato, la regista bosniaca decide di rappresentarla riducendo le parole e privilegiando una regia fatta di suoni e di spazi che la telecamera indaga e fa sentire (i rumori della città, complice anche la vigilia di capodanno, con botti sempre pronti a scoppiare riportano alla mente la deflagrazione delle bombe) seguendo, o per meglio dire, inseguendo l'indomita ragazza con una serie continua di piani sequenza: nella prima parte del film, quando gli indizi sono ridotti al minimo e Rahima è solo un "corpo al lavoro", attraverso riprese effettuate per lo più da tergo, e successivamente, a causa della contingenza che la spinge a relazionarsi con gli altri, e di conseguenza a rivelarsi, arricchite della situazione opposta, con sequenze dello stesso tenore ma questa volta frontali che precedono la giovane nella sue azioni, ed insieme testimoniano una partecipazione totale, ampiamente dichiarata dal modo con cui la macchina da presa sposa il punto di vista dei personaggi, immergendosi a livello sensoriale con l'esperienza in atto. La Begic è brava a non lasciarsi prendere dalla retorica - basterebbe vedere il modo con cui Rahima reagisce alla proposta del ministro che gli chiede di risarcirlo con una prestazione sessuale - raffreddando l'emotività dei contenuti con una ripetitività di gesti e situazioni che corrispondono alla volontà del personaggio di soffocare il dolore nella routine del quotidiano. Nel riconoscere le qualità di un'opera che si distingue per l'efficacia della sua messinscena e l'importanza del tema trattato, non si può non segnalare il senso di deja vù che la stessa nel suo complesso produce quando si confronta con il proprio contesto cinematografico, alla stregua della protagonista del film, impegnato a fare i conti con una transizione ancora lungi dall'essere superata.
(pubblicato su ondacinema.it)

giovedì, gennaio 10, 2013

A Royal Weekend

A Royal Weekend
di Roger Michell
con Bill Murray, Laura Linney, Olivia Williams
UK 2012




Tra le tante magie che la settima arte dispensa, quella di rendere la vita più bella e generosa è una costante di molto cinema classico. A questo genere di film appartiene per l'appunto “A Royal Weekend” di Roger Michell,  il regista diventato famoso per aver diretto Hugh Grant e Julia Roberts nel celeberrimo “Notthing Hill”(1999). La citazione del quale non nasce da una necessità puramente nozionistica, ma piuttosto dal fatto che le due opere, seppure diverse per finalità ed intenti hanno in comune il fatto di umanizzare personaggi e situazioni a dir poco straordinarie. Così se nel primo caso si trattava di mettere insieme appassionatamente un uomo comune ed una star cinematografica, facendoli innamorare nel pittoresco scenario del sobborgo londinese, in questo caso a far saltare il banco dei protocolli e delle regole già scritte sono niente di meno che il presidente americano Franklin Delano Roosevelt (Bill Murray) ed il re d'Inghilterra Giorgio VI, da poco omaggiato ne "Il discorso del re"(2012),  destinati ad incontrarsi in un weekend del 39, per sancire il patto d’alleanza che avrebbe spinto gli Stati Uniti ad intervenire a favore dei cugini durante il secondo conflitto bellico. Un evento passato agli annali della storia che il film racconta dietro le quinte,  ipotizzando non solo la nascita di un’amicizia tra i due “statisti”, ma soprattutto testimoniando la relazione, desunta dai diari postumi dell’interessata, tra il politico e Daisy Suckley (Laura Linney) lontana parente destinata a condividere anche a livello sentimentale – la donna di fatto diventerà l’amante di Roosevelt - le escursioni presidenziali ad Hyde Park sull’Hudson, dimora in cui si svolsero i cerimoniali per la firma del trattato.

“A Royal Weekend” è un opera che a prima vista potrebbe spaventare gli amanti del cinema disimpegnato, ed invece, pur svolgendosi in un contesto formalmente ineccepibile, con attori popolari soprattutto tra i frequentatori di cinema d’essai – a parte Murray che pero è ormai lontano dalla popolarità di “Ghostbuster” (1984) -  il film appartiene a quella categoria destinata ad ottenere consenso incondizionato per una leggerezza che diventa sublime nel sottotono della vicenda amorosa vissuta dai due protagonisti, tanto improbabili nelle diverse appartenenze sociali e culturali, quanto complementari nella tendenza a ricercare una vita lontana dai riflettori. E poi nella titubanza e negli scambi di battute tra i consorti reali, spaventati da una realtà così lontana dai rigidi protocolli di Buckingam palace. Modi differenti di intendere la vita che il film si diverte a sottolineare con scene esemplari come quella del re che continua a salutare una folla inesistente – essendo in campagna ed in un posto isolato non c’è nessuno ad aspettare il suo passaggio – oppure con il tormentone dell’hot dog, pezzo forte del banchetto presidenziale, che invece i due ospiti considerano inadeguato per il loro lignaggio e che per questo vorrebbero evitare di mangiare. Un’ eterogeneità culturale ed antropologica, presente anche nei rispettivi codazzi, destinata a ricomporsi nella villa di Hyde Park, alla pari di altre famose dimore cinematografiche, pensiamo a “Casa Howard” oppure a “Gosford Park”,  simbolo nostalgico di un mondo ormai scomparso. La bravura di Michell è quella di far sembrare estemporaneo le conseguenze di un meccanismo perfettamente oliato. E se il rischio più grande è quello di un sublime manierismo, ci pensa la bravura degli attori, tutti grandi senza nessuna distinzione, a restituire il sapore di un intrattenimento evergreen.

Le nostre Classifiche dei FILM 2012




TheFisherKing

1. L'arte di vincere / Moneyball
2. The Bourne legacy
3. Skyfall
4. The amazing Spiderman
5. Killer Joe
6. Moonrise kingdom
7. Argo
8. Io e te
9. Contraband
10.Take shelter

Migliori

REGIA:
B.Bertolucci "Io e te"

ATTORE
B.Pitt "L'arte di vincere" / "Moneyball"

ATTRICE:
R.Weisz  / "The Bourne legacy"

SCENEGGIATURA:
A.Sorkin, S.Zaillan / "L'arte di vincere"/"Moneyball"

FOTOGRAFIA:
B.Ackroyd  / "Contraband"

INCIPIT:
Skyfall

EPILOGO:
The Company you Keep


Scena Catastrofica:
LO HOBBIT (la battaglia degli orchi)

BATTUTA:
John Wayne è appena morto e questo paese già non sa più che cazzo fare
(A.Arkin / Argo)

Stupido:
TOTAL RECALL

Super Eroe:
Spiderman

HORROR:
Take Shelter

Ricostruzione Storica:
Arthur Newman

Scena d'Azione:
The Bourne Legacy (inseguimento)

COMMEDIA:
Moonrise Kingdom

Attore non protagonista:
A.Arkin (Argo)

Attrice non protagonista:

A.Adams (Ancora in gioco)

Performance Musicale:
Moonrise Kingdom

CATTIVO:
Javier Bardem (Skyfall)
CANE:
A.Baldwin (Rock of Ages)

RIVELAZIONE:
J.Gilman / K.Hayward (Moorsie Kingdom)

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FaBRiZiO

1.  Reality
2.  Amour
3.  Sister
4.  Drive
5.  E' stato il figlio
6.  Cosmopolis
7.  Pietà
8.  Diaz
9.  Acab
10. Monsierur Lazhar

FILM HORROR
Chernobyl Diaries

miglior CATTIVO
Peppe Servillo/Marchese Lanzi (Paura 3D - Manetti Bros.)

FILM PIU' BRUTTO/VORREI MA NON POSSO
Benvenuti al Nord

miglior ATTORE/ATTRICE PROTAGONISTA
Jean Luis Trintignant - Emmanuelle Riva  (Amour)

miglior ATTORE non protagonista
Ben Mendelsohn (Cogan)

ATTORE/ATTRICE CANE
Valentina Ludovini (Benvenuti al Nord)

miglior INCIPIT
Reality

REGIA
Matteo Garrone (Reality)

DELUSIONE
Magnifica Presenza (Ferzan Ozpetek)

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NiCK

1.   Reality
2.   Un sapore di ruggine ed ossa
3.   Oltre le colline
4.   Damsel in distress
5.   L'arte di vincere
6.   Skyfall
7.   Padroni di casa
8.   Io e te
9.   L'intervallo
10.   Il pescatore di sogni
11.   La guerra è dichiarata
12.   Shame
13.   Un amore di gioventù
14.   ACAB
15.   La Bas
16.   La sposa promessa
17.   Killer Joe
18.   Alì ha gli occhi azurri
19.   Paris Manhattan
20.  Mission Impossible

  

Migliori

REGIA:
Steve Mc Queen (Shame)
Valerie Donzelli (La guerra è dichiarata)

ATTORE:
Brad Pitt (L'arte di vincere)
Jérémie Elkaïm (La guerra è dichiarata)

ATTRICE:
Grete Gerswhig (Damsel In Distress)

SCENEGGIATURA:
Steven Zaillan/Aaron Sorkin (L’arte di vincere)

FOTOGRAFIA:
Roger Deakins (Skyfall)

MENZIONE:
A Ultima Vez Que Vi Macau
di João Pedro Rodrigues, João Rui Guerra da Mata

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PARseC

1.   Cosa piove dal cielo / un Cuento Chino
2.   Argo
3.   Moonrise Kingdom
4.   40 carati / Man on a Ledge
5.   007 SkyFall
6.   50 e 50

INCIPIT
17 ragazze (17 Filles)

REGIA
Ben Affleck (Argo)

ATTORE protagonista
Gary Oldman (La Talpa / Tinker Taylor Soldier Spy)
Ricardo Darin (un Cuento Chino)

ATTORE non protagonista
Edward Norton (Moonrise Kingdom)
Seth Rogen (50 e 50)

ATTRICE protagonista
Principessa Merida (Ribelle / Brave)

ATTRICE non protagonista
Anna Kendrick (50/50)

SCENEGGIATURA
Chris Terrio (Argo)
Pablo F.Fenjves (40 Carati)

DELUSIONE
il Cavaliere Oscuro - il Ritorno / The Dark Knight Rises

SOUNDTRACK
Moonrise Kingdom

FOTOGRAFIA
Moonrise Kingdom

CATTIVI
la CIA ed il governo iraniano in Argo
il cancro in 50e50

MOMENTO WEIRD
Marillon Cotillard quando muore in
The Dark Knight Rises

BATTUTA
"Qual è il suo hobby, Bond?"
"La Resurrezione"
(007 Skyfall)


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CARmen

1. Amour
2. Reality
3. Cosmopolis
4. Pietà
5. Diaz
6. Monsieur Lazhar
7. E' stato il figlio
8. Sister
9. Argo
10. Romanzo di una strage

INCIPIT
Reality

EPILOGO
Pietà

Scena catastrofica
DIAZ

STUPIDO
è nata una star

Super Eroe
ERIC PARKER (Robert Pattinson / Cosmopolis)

HORROR
Chernobyl Diaries

ATTRICE
Emmanuelle Riva (Amour)

ATTORE
Jean Louis Trintignant (Amour)

FOTOGRAFIA
è stato il figlio

Sex Symbol
BRAD PITT (Cogan)

Scena Hot
LE BELVE




mercoledì, gennaio 09, 2013

Film in sala dal 10 gennaio 2013


 CLOUD ATLAS

di Andy Wachowski, Lana (Larry) Wachowski, Tom Tykwer

Drammatico - USA 2012 - 164"


Tom Hanks, Hugo Weaving, Jim Sturgess
Halle Berry, Hugh Grant
Susan Sarandon, Ben Whishaw, Jim Broadbent
Keith David, James D'Arcy
Zhou Xun, Doona Bae, Alistair Petrie







 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
LA SCOPERTA DELL'ALBA
 
di Susanna Nicchiarelli

Drammatico - ITA 2012 - 92"

Margherita Buy, Sergio Rubini, Susanna Nicchiarelli
Lina Sastri,Gabriele Spinelli, Lucia Mascino
 
















 


 A ROYAL WEEKEND
(Hyde Park on Hudson)
di Roger Michell
Biografico - GB 2012 - 95"

Bill Murray, Laura Linney, Olivia Williams, Elizabeth Marvel
Sam Creed, Blake Ritson, Samuel West, Elizabeth Wilson
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
QUELLO CHE SO SULL'AMORE
(Playing for Keeps)

di Gabriele Muccino

Commedia - USA 2012 - 100"

Gerard Butler, Jessica Biel, Judy Greer, Dennis Quaid
Uma Thurman, Catherine Zeta-Jones 



















 



ASTERIX E OBELIX AL SERVIZIO DI SUA MAESTA'
(Astérix et Obélix: Au Service de Sa Majesté)

di Laurent Tirard
Commedia - FR/SPA/ITA/HUN 2012 - 109"

 
Valérie Lemercier, Gérard Depardieu, Edouard Baer
Fabrice Luchini,Catherine Deneuve, Guillaume Gallienne
Vincent Lacoste,Charlotte Lebon, Jean Rochefort
Gérard Jugnot, Dany Boon