giovedì, marzo 30, 2017

LIFE - NON OLTREPASSARE IL LIMITE

Life- non oltrepassare il limite
di Daniel Espinosa
con Rebecca Ferguson, Jake Gyllenhaal e Ryan Reynolds
USA, 2017
genere, fantascienza
durata, 


Senza considerare i vari sequel e prequel di prossima programmazione, basterebbe l’enormità di lungometraggi - originali o apocrifi -    collegati al primo “Alien” diretto da Ridley Scott per capire con quale predisposizione si possa accogliere il nuovo film di Daniel Espinosa, concepito per replicare con qualche piccola variazione il prototipo del 1979. I dubbi sulla necessità di una versione riveduta e corretta del film nasce spontanea non tanto per le convergenza esistente tra i contenuti di “Life - Non oltrepassare il limite” e quelli della pellicola diretta da Scott, quanto per la povertà di soluzioni formali e di espedienti narrativi capaci di poter far dire a chi guarda che i soldi spesi   sono stati ben impiegati. Invece niente: tutto si svolge secondo copione ma anche senza emozioni, con la creatura venuta dalla spazio pronto a fare un sol boccone dei malcapitati di turno, predisposti al massacro con le regole d’ingaggio variate (rispetto alla tradizione) dal fatto che l’equipaggio della Pilgrim si sposta da una parte all’altra dell’astronave senza toccare il pavimento della nave spaziale  ma fluttuando nell’aria per assenza di gravità. 

Ordinato ma privo di sorprese (se si esclude quella finale), ogni cosa in “Life - Non oltrepassare il limite” si mantiene sotto la soglia dell’entusiasmo, a cominciare dal malefico ectoplasma che, un po' per l’ anonimato fisiognomico a cui lo relegano la poca fantasia dei suoi creatori, un po' per l’incapacità di chi dovrebbe dotarlo di mistero e di carisma, non riesce ad assurgere neanche per un attimo a quella purezza aliena che aveva reso mitica la creatura di Ridley Scott. Se non bastasse questo a illuminare lo spettatore su ciò che lo aspetta si potrebbe aggiungere qualcosa sulla resa attoriale, soffermandosi per esempio sull'impalpabilità delle figure femminili (in particolare di quella impersonata da Rebecca Ferguson, molto meglio nei panni della desperate housewife de “La ragazza del treno”), lontane anni luce dalla personalità della bad girl interpretata da Sigourney Weaver ma anche dalle meno famose seguaci che nel corso degli anni hanno cercato di prenderne il posto; oppure sulla mancata resa di attori sulla creata dell’onda come Jake Gyllenhaal e Ryan Reynolds, il cui passaggio sullo schermo non lascia traccia nel cuore di chi guarda.  


IN A LONELY PLACE

In a Lonely Place
di Davide Montecchi
con Luigi Busignani, Lucrezia Frenquellucci
Italia, 2017
durata, 82'


Detto che al momento il film non ha trovato ancora la via delle sale, quello che qui preme sottolineare è come la bontà del risultato finale sia destinata almeno per il momento a una schiera di fortunati non così numerosa come invece meriterebbe. La quale cosa è un vero peccato, perché Montecchi mette in pratica come meglio non si potrebbe le regole del cinema indipendente, senza dimenticare che tensione e paura dipendono innanzitutto da ciò che non si conosce e quindi, in termini cinematografici, dalla capacità delle immagini di evocare ciò che rimane fuori dal campo visivo. Da questo punto di vista la vicenda narrata dal film è di quelle che stimolano l’immaginazione dello spettatore, poiché la situazione di pericolo in cui versa la giovane donna ci viene presentata senza che di lei e del suo persecutore si conoscano precedenti e motivazioni. Spogliata di qualsiasi movente psicologico o materiale che non sia quello dell’insana follia dell’uno e dell’altro e rinchiusi in un albergo andato in disuso, la relazione tra l’uomo e la donna per quanto definita nei suoi  rapporti di forza (lei per la maggior parte del film è legata mani e piedi su una sedia sotto la minaccia del coltello impugnato dal malefico carceriere) viene continuamente rimessa in discussione da detour visivi e sensoriali all’interno dei quali ruoli e rapporti sembrano perdere il loro significato originario, risultando il frutto di un singolare passatempo amoroso.

Un po’ come nel cinema di Lynch, in cui nulla è reale e tutto è permesso, In a Lonely Place decostruisce  il reale per poi ricomporlo con i tasselli di un’esistenza più sognata che vissuta, più desiderata che consumata, riuscendo a sostenere le ambizioni di un film fuori dalla norma grazie alle caratteristiche di un dispositivo che lavora sul tempo cronologico e sullo spazio ambientale, trasfigurando il presente narrativo all’interno di un contesto in cui le musiche retrò, gli interni impolverati e spogli dell’albergo prigione si fondono con il processo d’astrazione operata sulla realtà attraverso la particolarità del formato filmico (una sorta di cinemascope) e mediante l’utilizzo sistematico di campi medi e lunghi che, allontanandole dalla vista, trasforma le fattezze delle figure umane, e in special modo quella del luciferino protagonista (Luigi Busignani), in qualcosa che trascende l’umano e che assomiglia alla personificazione dei sentimenti d’orrore e di passione presenti nel corso della storia. Passato con successo in diversi  festival e concorsi dedicati al genere di riferimento, In a Lonely Place è un debutto di cui prendere nota.
(pubblicato su taxidrivers.it)



martedì, marzo 28, 2017

YOUR NAME

Your Name
di, Makoto Shinkai
genere, animazione
Giappone, 2016
durata, 106'

Ma quando i due si sfiorano il pavimento cede
...
La notte è sempre giovane
la notte è già iniziata
Arriva la cometa
e la cometa è andata
- Elettrojoyce -


Dovessimo collocare, concentrandolo in un punto, lo stato sentimentale della moderna, avanzata e libera comunità occidentale (di fatto perlopiù ridotto all'allucinazione d'uno pseudo ottimismo petulante e fondamentalmente cretino), esso s'adagerebbe mesto in prossimità del rigor mortis al centro degli assi cartesiani. La cosa, di per sé, potrebbe perdersi senza troppi patemi nelle pieghe d'un qualche tipo di aneddotica documentale non fosse che, riguardandoci molto da vicino, prima o poi, si presterebbe ad un inopinato recupero con conseguente riesame per via della sua manifesta incompletezza, ovvero l'evidenza per cui altrove, in particolare in quell'altro mondo che tuttora è l'Oriente, la prassi (fino ad oggi o non del tutto) non funziona così.

Piccola ma luminosa testimonianza ne è "Your name", animazione intrisa di smarrimenti, di stupefatta ingenuità eppure testardamente aperta alla possibilità, alla promessa implicita contenuta in ogni legame umano - lambito, tessuto, spezzato e forse riannodato - curata dal poco più che quarantenne Shinkai. Nella parabola esistenziale tracciata in parallelo al passaggio (e alla catastrofe potenziale prima, inverantesi poi) di una cometa, sulla cui linea si ritrovano due liceali - Mitshua, riflessiva e inquieta, cresciuta orfana di madre e con un padre assente nel villaggio (di fantasia) di Itomori; Taki, riservato e laborioso adolescente, viso-nella-folla nel brulicare indifferente della Tokyo contemporanea - al punto di risvegliarsi al termine del sonno quotidiano uno nel corpo dell'altra, meravigliandosi e impaurendosi di primo acchito, fraternizzando pian piano con la nuova condizione fino a scambiarsi strategie di comportamento sociale, quindi dimenticando per tornare ai rispettivi ruoli e contegni, traspare senza reticenze - nella sospetta fiducia che bene o male si ripone nell'altro; nell'ascolto offerto ai segni provenienti dall'ambiente naturale (al valore metaforico che essi acquisiscono nel loro circolare riproporsi); nella strana indulgenza ancora concessa al lezioso o al patetico; nella coscienza profonda e non di rado tragica del trascorrere del tempo; nella ricerca, proprio al tempo relata, della misura, dell'armonia tra gesto e intenzione - tutta la distanza psicologica che separa un universo di riferimenti culturali, spirituali e morali, per quanto assimilati o diluiti dal materialismo imperante, dalla cinica e spesso compiaciuta rassegnazione che alligna in gran parte di ciò che resta del sentire nelle terre-del-tramonto.


Mitshua e Taki si sentono tanto quanto si cercano, pur non essendosi mai conosciuti oltre la dimensione del sogno, in una sorta di serendipità sovradimensionata a cui l'astro fatale, inscrivendo le vicende entro l'alone di una superiore necessità, conferisce, allo stesso tempo, la dimensione di racconto esemplare e l'estro imprevedibile di un magico capriccio del caso. Tale prepotente fantasmagoria passionale non genererebbe però lo stesso impatto, smarrendosi magari nella ripetizione o nel melenso, se non fosse sostenuta, per un verso, da una sotterranea tensione alimentata vuoi da uno scarto, un mancanza, di cui i due ragazzi avvertono spesso il peso ("Sento che mi manca qualcosa", ripetono), vuoi dal volgere, sebbene su piani temporali sfalsati, della traiettoria della cometa; per l'altro, da uno splendore visivo e una raffinatezza immaginativa che per molteplici aspetti lasciano ammirati. Di rado, infatti e ad esempio, ci si è sforzati di rendere così vivi e come immortali dal lato dell'esuberanza, i colori dell'autunno: variazioni rugginose, sull'ocra, sul carminio, si rincorrono concordi tra rami d'alberi monumentali nel paesaggio rurale nipponico opponendosi - sfidandole per contrasto - alle geometrie altere e alle tinte razionali della megalopoli, come al caos delle sue sovrapposizioni o all'insipienza immemore dei suoi degradi.


Shunkai, come già nel precedente "Il giardino delle parole" (qui citato nell'insegna del ristorante italiano in cui presta servizio Taki dopo lo studio), si conferma inoltre agguerrito sostenitore della politica del dettaglio: là, per dire, era un'idrometra a sfruttare la tensione superficiale dell'acqua di un laghetto pubblico; qui, è la trama cangiante dei singoli fili che formano l'intreccio in divenire su un telaio. Più in generale, è ribadita l'attenzione ai gesti minimi, agli oggetti di uso quotidiano, alla manualità dell'attività umana (sia Taki che Takao, protagonista de "Il giardino delle parole", coltiva tra i propri interessi il disegno), alla stratificazione invadente degli agglomerati postindustriali, ogni aspetto a caratterizzare la predilezione per una manciata di temi ricorrenti: l'adolescenza come complicata età di transizione con annesse prime impreviste delusioni; la famiglia unità spesso mal funzionante, incubatrice di precoci solitudini e pressanti desideri di fuga; l'immutabilità indolente dei rituali agresti e l'anonimato senza scampo delle circolarità metropolitane. Non ultima, l'intuizione d'indagare il flusso non lineare del Tempo, unica dimensione affine a quella del lavorìo interiore, passo asincrono che permette a Mitshua e Taki, nonostante tutto, di sottrarre un po' di futuro alla Morte.
TFK

lunedì, marzo 27, 2017

HOME VIDEO: ANIMALI NOTTURNI

I CANDIDATI ALL’OSCAR® AMY ADAMS AND JAKE GYLLENHAAL
PROTAGONISTI DEL THRILLER SBALORDITIVO E SEDUCENTE DELL’ACCLAMATO REGISTA TOM FORD 

ANIMALI NOTTURNI

VINCITORE DEL GOLDEN GLOBE® PER IL MIGLIOR ATTORE
NON PROTAGONISTA - AARON TAYLOR-JOHNSON

CANDIDATO AL DAVID DI DONATELLO® COME MIGLIOR FILM STRANIERO

FINALMENTE IN DIGITAL HD DALL’8 MARZO 2017
DA MERCOLEDÌ IN DVD E BLU-RAY™ 
CON UNIVERSAL PICTURES HOME ENTERTAINMENT ITALIA


Animali notturni

di Tom Ford
con Amy Adams, Jake Gyllenhall
USA, 2016
genere, thriller, drammatico
durata, 





Se voleva trovare un modo per rendere indimenticabile la sua entrata in scena alla Mostra di Venezia, Tom Ford non poteva aprire il suo film in un modo migliore. La sequenza iniziale è a dir poco spiazzante perché di fronte a noi, in un crescendo di pose, ammiccamenti e nudità integrali, si esibiscono una dietro l'altra alcune modelle che farebbero la felicità di un regista come Ulrich Seidl, già apprezzato estimatore di nudità extralarge nel famigerato e ai tempi scandaloso "Canicola".  Qui però, a fare la differenza con il lungometraggio del regista austriaco, e quindi a risultare sorprendente invece che osceno, sono le aspettative create da "Animali notturni" che si annunciava provvisto di una confezione che faceva del mistero e di un'estetica bella e raffinata i suoi riconosciuti punti di forza. Detto che preferiamo lasciare il lettore con il dubbio a proposito della maniera in cui si evolve il finale della scena a cui abbiamo appena accennato, ci sembra importante evidenziare come tale inizio sia la firma di un regista che dimostra di saper aggiungere al mezzo cinematografico le invenzioni e la fantasia che ne contraddistinguono il lavoro nel campo della moda. Il cortocircuito tra le facce opposte della stessa medaglia presente in quei primi fotogrammi, e quindi l'accostamento tra il corpo esibito e opulento delle voluminose donzelle, fa il paio con la bellezza levigata e accuratamente vestita di Susan, la gallerista ricca e avvenente interpretata dalla bravissima Amy Adams stabilendo il leitmotiv visuale ed emotivo che ritroveremo per tutta la durata del racconto.






Perché "Animali notturni" è un film letteralmente scisso nella duplice personalità dei suoi personaggi e, ora possiamo dirlo, della costruzione narrativa prevista da Ford. Il quale, partendo dal libro che Susan riceve da Edward (Jake Gyllenhaal), scrittore ed ex marito, mette in scena un gioco di specchi che funziona come vaso comunicante tra le vicende narrate all'interno del romanzo (intitolato "Animali notturni") e quelle divise tra passato e presente che appartengono alla vita della donna. Ma non solo, poiché all'educazione, al bon ton, ai modi aristocratici del mondo in cui vive Susan e soprattutto alla condizione di subordinazione nei confronti della vita (e del nuovo marito) a cui la donna si è legata, "Animali notturni" fa corrispondere un universo violento ed estremo in cui caos e irrazionalità sostituiscono la morale vittoriana che regola la quotidianità del mondo reale. In questa maniera la lettura del libro e la visualizzazione dei fatti di violenza ivi raccontati diventano: da una parte, la benzina per sbaragliare la distanza che Susan ha messo tra lei e ciò che la circonda, gettandola in un tourbillon di sentimenti contrastanti; dall'altra, la chiave per innestare un processo di scoperta e disvelamento che porterà a galla la vera natura delle cose e dei personaggi.



Caratterizzato da una fotografia che alterna le esplosioni di luce del deserto texano,  dove si colloca l'ambientazione del romanzo di Edward, alle ombre in cui sono immersi gli interni della villa di Susan, "Animali notturni" è un thriller a più strati che riesce a tenere alta la tensione dello spettatore sia quando inscena squarci di inaudita brutalità (che si compiono nella pagina scritta che Susan sta leggendo), sia quando si tratta di farla vedere attraverso i non detti e gli enigmi a cui si espone la condotta di Susan. Ford lambisce David Lynch e nel frattempo si guadagna la propria identità con un'opera di sicuro valore.
(pubblicato su ondacinema.it/73 festival del cinema d Venezia)




domenica, marzo 26, 2017

LA FOTO DELLA SETTIMANA





























The Last Picture Show di Peter Bogdanovich (USA, 1971)

SLAM -TUTTO PER UNA RAGAZZA

Slam - tutto per una ragazza
di Andrea Molaioli 
con Ludovico Tersigni, Barbara Ramella, Jasmine Trinca 
Italia, 2016 
genere, drammatico
durata, 100' 


16 anni, l'amore per lo skate e il desiderio di un destino diverso dalla propria famiglia. Figlio di una madre trentadueenne e padre inguaribile furfante, Samuel possiede quel fascino angelico che tanto attrae le coetanee: non fa eccezione Alice, bella e spregiudicata, che immediatamente intuisce nel ragazzo un'aura diversa dagli altri. Innamorarsi a quell'età è un battito d'ala, così come lasciarsi, oppure complicarsi ingenuamente la vita. S'intuisce fin dalle prime sequenze che il terzo lungometraggio di Andrea Molaioli è il risultato di un percorso approfondito volto ad analizzare l'adolescenza. Se la materia di base giunge dalla penna navigata e prolifica di Nick Hornby (Slam, 2007), il lavoro di non facile adattamento ambientale risiede nello studio del regista romano, chiamato a trasferire una vicenda tipicamente anglosassone in un contesto italiano, in cui il grado di separazione tra genitori e figli è ben più vistoso. In questo senso Samuel e la sua giovane madre appaiono ancor più socialmente alienati rispetto a quanto non siano i personaggi della Londra di Hornby. Ad aumentare il distacco è la devozione del giovane verso il mitico skater Tony Hawk, un vero eroe per chi ama questo sport, ma certamente una figura assai più radicata nella cultura americana. La vita smette di essere un gioco quando i tornanti diventano le responsabilità verso una nuova creatura, quale quella che Alice rivela a Samuel di attendere proprio nel giorno del suo 17° compleanno. 


Da quel momento la narrazione cambia colore e la struttura del testo arriva ad appoggiarsi alla dimensione dell'incubo, declinata in un misterioso andirivieni temporale di incerta coerenza. Lo sguardo di Molaioli, che trova nel meccanismo di presa di coscienza una costante nel proprio cinema, mostra tutta la volontà di restare solidamente agganciato al punto di vista di Samuel, che non solo è un teenager ma è anche uno skater, e quindi si organizza formalmente in continue evoluzioni / rivoluzioni sintattiche, come stesse viaggiando sulle montagne russe. Tenere il passo di una tale ambizione poetica è impresa di raro successo e gli scivoloni narrativi e ritmici del film pagano il prezzo di un obiettivo forse troppo audace. Come se non bastasse, "su Slam - Tutto per una ragazza" grava anche il facile paragone con "Piuma" di Roan Johnson, commedia assai differente ma intessuta sulla medesima traccia. Per entrambi il genere è il romanzo di formazione, dispositivo assai più complesso delle apparenze perché tenta di specchiare un pubblico adolescente sempre più esigente.
Riccardo Supino

sabato, marzo 25, 2017

QUARRY

Quarry
di Greg Yaitanes
scritto da G.Gordy e M.D.Fuller a partire dai romanzi di M.Allan Collins.
con Logan Marshall-Green, Jodi Balfour, Damon Herriman, Peter Mullan, Edoardo Ballerini, Nikki Amuka Bird.

Stagione I
ep. I/VIII

USA 2016
durata, 475’



Now my heart's drowned in no love streams
- Cream -


Da una palude all'altra, da una giungla all'altra con, in mezzo, brevi interludi acquatici (una piscina costruita con le proprie mani; un'altra da riparare per allentare la tensione della fuga; la sponda di un fiume per occultare un cadavere; nuotare fino a sfinirsi, et...) a negare - nell'isolamento muto offerto da un elemento estraneo, nell'illusione/allucinazione di una purificazione rigenerante - la perentorietà arcigna della materia, fatta perlopiù di determinismi implacabili tenuti insieme dalle geometrie del denaro. Paralleli elementari, dunque, analogie evidenti: lo stesso suggestioni persuasive, ancor più se spogliate di quegli orpelli retorici, delle tentazioni d'autocommiserazione qua e là presenti nel sempre più metaforicamente ingombrante parente stretto del Cinema bellico, ossia quello con al centro il redux/reduce, inviso déraciné moderno, scampato per resistenza strenua o per sorte alla roulette delle trincee e riconsegnato - straniero in patria e abraso nello spirito - ad un meccanismo, la sedicente vita civile, i cui rapporti di forza, le dinamiche profonde, le reiterate e immemori scelleratezze, traslano sul piano psicologico e affettivo ciò che la guerra esige (e infligge), nel vortice nero delle sue immani crudezze, innanzitutto sul corpo.

Quando il sgt. dello USMC Mac Conway/L.Marshall-Green mette il suo corpo, minuto e smunto, a contatto col suolo amico di Memphis, contea di Shelby, stato del Tennessee, dopo due turni al fronte, ad imperversare c'è la campagna presidenziale del '72 tra Nixon e McGovern e più d'appresso un nutrito stuolo di dimostranti che gli rinfaccia (a lui e all'amico e commilitone cap. A.Salomon/J.Hector) la partecipazione ad un massacro consumatosi presso il villaggio di Quan Thang (restituito in un’eloquente, vivida sequenza), località del Vietnam centrale non distante da Da Nang e Hue, luoghi storici del conflitto. Non bastasse, il reinserimento complicato e privo di prospettive si ammanta presto di una spessa coltre di disincanto e ulteriore disgusto - ingredienti inefficaci, questi, per continuare a lavare a secco certi sgradevoli andirivieni della coscienza o armonizzare lo strano sottofondo esoterico che accompagna giorni in apparenza riguadagnati - spingendo Mac a barcamenarsi tra gli estremi senza sbocco della medesima morte sociale: da un lato, l’emarginazione (vieppiù esasperata dal ménage riallacciato con la moglie giornalista Joni/J.Balfour, tipo sensuale e tutt'altro che remissivo); dall’altro, il crimine, qui nella versione aplomb-distinto-e-sardonica-cattiveria cui conferisce spessore un elusivo Broker o Intermediario (il sempre strepitoso P.Mullan), reclutatore di personale per compiti di ripulitura ["Ci vuole un certo tipo di uomo per fare certe cose. Un uomo arido, svuotato, come una pietra. Come una cava" (quarry, appunto)], nonché capobranco d'un variegato assortimento di sicari: il sarcastico Karl/E.Ballerini, in primis, spietato tuttofare, e il non meno deciso omosessuale Sebastian detto Buddy/D.Herriman ("Se solo si rendessero conto del vuoto che hanno dentro, si ammazzerebbero da soli, risparmiandoci tempo e fatica”), alla bisogna pronto a tornare a casa dalla madre Naomi/A.Dowd, di suo patita di Elvis e lesta a metter mano, tra un drink e una sutura a rabberciare gl'inconvenienti del mestiere del figlio, agli album dei ricordi...

Adattando i romanzi di M.Allan Collins, gli sceneggiatori Gordy e Fuller e il regista Yaitanes imbastiscono attorno alla figura attonita e smarrita di Mac lo schema della trama di un mondo cupo, slabbrato, sotterraneamente rancoroso e violento - gli USA agli albori dei '70, storditi dagli echi sempre più distorti relativi agli orrori della guerra, quanto frustrati e delusi dal progressivo disfacimento degli ideali ottimisti e libertari issati a vessillo di un'intera generazione nemmeno un decennio prima - assuefatto o rassegnato a quell'inerzia brutale e distratta sottoprodotto tipico della desolazione provinciale vellicata a razioni doppie di progetti d'espansione falliti, promesse di abbondanza solo propagandate, speculazioni al contempo spericolate e catastrofiche. Mondo, a ben vedere, giunto pressoché intatti fino a noi, come testimonia - ed è solo un esempio - l'occhio di registi del genere di J.Nichols, Gordon Green e, per taluni aspetti, Van Sant e Korine, cantori più o meno tragici di quell'altra America, marginale, diffidente, in gran parte proletaria, che scruta e subisce sgomenta le trasformazioni di un paesaggio fisico, emotivo e morale del quale oramai stenta a riconoscere persino i tratti più ordinari e le ripercussioni delle cui frenetiche pulsioni interne vede giorno dopo giorno dilagare in ciò che resta di più vicino e caro.



Impasti cromatici di tonalità terrose permeate dal lucore senza indulgenza di un sole perennemente stanco; misurati piani sequenza a tallonare o anticipare le svolte di un quotidiano in cui ad affannose rincorse contro il tempo, a fugaci tregue di tenerezza stranita, s’alternano squarci d’una efferatezza fulminea, istintiva, quasi iperrealista, nella glaciale concretezza delle sue conseguenze; primi piani insistiti e indagatori dell’ambiente esterno (un Tennessee ancora in lotta per conservare quel poco del proprio passato rurale che non sia la mera recrudescenza di trascorsi razzisti, eppure già irriso dalle promesse mancate di un’industrializzazione precocemente derubricatasi ad archeologia del progresso, a stupido artificio linguistico) e di quello interiore (in prevalenza gli occhi: quelli sgranati e fissi di Mac, in particolare, quelli d’un cavallo assediato dal fuoco. Occhi che generano uno sguardo liquido, ora febbrilmente vigile, ora sinistramente assorto, lo sguardo a 10000 iarde - simile, come si diceva, a quello di “uno a cui non resta che provare a leggere le crepe dell’asfalto” - che integra in pianta stabile il corredo comportamentale del marine almeno dalla Seconda Guerra Mondiale in poi e che nel conflitto del Sud-Est Asiatico trova forse la sua più indifesa e grottesca epitome, come sottolinea anche M.Herr in una delle sue puntuali note dal fronte: La colpa era degli occhi: perché erano sempre tirati o spenti o semplicemente assenti, non c’entravano mai niente con ciò che faceva il resto del viso, e questo conferiva a tutti quanti un’aria di estrema stanchezza oppure di balenante follia… Questo marine, per esempio, sorrideva sempre. Era il tipo di sorriso che sconfina facilmente nei risolini acuti, ma i suoi occhi non mostravano né divertimento né imbarazzo né nervosismo - M.Herr, Dispatches -); un sapiente uso del silenzio come rumore presago; la minuziosa ricostruzione scenografica [berline sinuose e pick-up sgangherati, shorts alti sulle cosce, camicie dai colli e dai colori improbabili, LP in vinile per giradischi inscatolati dentro mobili a misura,  flipper, tostapane con levette a timer, sveglie rettangolari a cifre bianche su sfondo nero a scandire il tempo tipo tessere del domino. E televisori in b/n a schermo spesso e bombato, bianchi frigoriferi tarchiati, sigarette ovunque e acconciature femminili vaporose, qualche anno dopo riportate in voga in versione sbarazzina da K.Pierson e C.Wilson dei B52’s (a pensarci, Private Idaho data 1980 e ironizza attorno a un tizio alle prese con le insidie nascoste - neanche a farlo apposta - in una piscina: Beware of the pool/Blue bottomless pool…/Blind you to the awful surprise/That’s been waiting for you at/the bottom of the bottomless blue, blue, blue pool…)], fotografano l’intenzione implicita di un modello in teoria pronto al passo decisivo verso la definitiva integrazione orizzontale - quella dei consumi - in realtà condannato proprio dai presupposti su cui si fonda alla moltiplicazione esponenziale dell’esclusione e dell’amarezza, scorie ineliminabili di un benessere edificato sulla più rigida delle compartimentazioni di censo, e scandiscono, su scala individuale, il mesto pellegrinaggio di Mac tra le spire di logiche, scambi e rapporti che di fondo, a dire in relazione all’umanità del singolo, non hanno più senso (“Deve essere qualcosa che ha senso, un significato”, riflette a voce alta l’ex marine scegliendo un souvenir da portare alla moglie come simbolo potenzialmente in grado di segnare un crinale tra due stagioni della vita), non lasciano niente, mai, a nessuno, non offrono nulla, se non la ripetizione di sé stessi a mo’ di riflesso condizionato volto a rendere praticabile la perpetuazione di una serie infinita e intercambiabile d’interazioni anonime, in genere errori idioti e non di rado irrecuperabili, fedi mal riposte, miserabili grettezze. 



Di fronte a tale teorema atroce Mac - già per proprio conto orfano di variazioni adeguate o scaltre ad un personale mandala esistenziale virato su tinte fosche o comunque poco distensive (“Sono tornato in Vietnam perché pensavo che miei compagni avessero bisogno di me. Quest’idea mi dava uno straccio d’identità. Qui non ero niente, la mia vita non andava da nessuna parte”) - si trascina, quasi suo malgrado, dibattendosi tra l’anelito mai del tutto sopito per quanto ingenuo ad una piccola-vita-nuova e la feroce impellenza del sangue e del denaro, come se per strappare un brandello d’autenticità all’indolente dispersione dei giorni non restasse che disporsi a uccidere e a morire un’altra volta, e ancora e ancora…

[Colonna sonora croccante. Fra i tanti: W.Pickett, O.Redding, W.Becker/D.Fagen, T.J.White, Big Star, Uriah Heep, W.Jannings, Roxy Music, The Soul Stirrers, C.T.King, T-Rex, A.Green, Blue Öyster Cult, Spirit of Memphis Quartet].
TFK

venerdì, marzo 24, 2017

STEEKSPEL

Steekspel
di Paul Verhoeven
Peter Block, Ricky Coole, Carolien Spoor
Paesi Bassi, 2012
durata, 52'



Uno script iniziale di appena quattro minuti, circa duemila sceneggiature fornite dagli utenti del web ai quali era stato chiesto di completare la storia, e una gran quantità di materiale video inviato allo stesso scopo. Sono questi i numeri dell'ultimo film di Paul Verhoeven, "Steekspel", frutto di una scommessa produttiva a cui il regista ha affidato il suo ritorno al cinema. La trama è presto detta: una festa di compleanno che si trasforma in una giostra (è questo la traduzione del titolo originale) di emozioni e di colpi di scena, innescati dall'entrata in scena di una ragazza, la cui gravidanza potrebbe essere il frutto della relazione tra lei ed il festeggiato, sposato con moglie e figli, a capo di un'impresa in gravi difficoltà economiche. Sono questi gli elementi principali di una storia che parte come "Festen" e procede alla maniera dei "Dieci piccoli indiani", con la differenza che, al posto del delitto, a passare da un personaggio all'altro è il punto di vista sul racconto e, di conseguenza, la possibilità per ognuno di loro di essere (seppur temporaneamente) i protagonisti del film. Il risultato è di una perfezione che in termini di scrittura rivaleggia con due capolavori come "Carnage" e "Una separazione". Verhoeven ci mette del suo armonizzando gli aspetti sperimentali con una spettacolarità non forzata, e conseguente ad una fluidità che appartiene tanto al modo di girare quanto alla spontaneità della recitazione. In appena 57 minuti "Steekspel" si inventa un mondo di desideri e di paura, di erotismo e tradimenti, il cui motto potrebbe essere il famoso detto "Chi la fa l'aspetti!". Un piccolo grande film.
(pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, marzo 22, 2017

NON E' UN PAESE PER GIOVANI

Non è un paese per giovani
di Giovanni Veronesi
con Filippo Schicchitano, Giovanni Anzaldo, Sara Serraiocco, Sergio Rubini
Italia, 2017
durato, 105'


Non è un paese per giovani.

Perché i giovani qui in Italia sembrano non avere più un loro posto né alcuna speranza per il futuro.

E allora sono costretti a partire, a cercare altrove fortuna e lavoro. Ma con la loro dipartita obbligata il Paese si svuota contestualmente anche di ogni sentimento con la lettera maiuscola, ossia perde l’Amore, la Bellezza, la Fragilità, la freschezza, la Poesia..

Un po’ come il pifferaio magico che porta via con sé tutti i bambini che lo seguono come ipnotizzati dalla sua musica che esce dal piffero.

Luciano e Sandro sono i protagonisti di questa storia. Hanno circa trent’anni e la voglia di realizzare i loro progetti e desideri.

Lavorano insieme in un ristorante per sbarcare il lunario ma senza che questo lavoro possa offrire loro reali speranze.

Preferirebbero  - come tutti i ragazzi - fare i camerieri in un ristorante altrove, all’estero, come a Londra o in America ma comunque non in Italia.

L’occasione di andare a Cuba la offre Luciano a Sandro: si può fare business acquisendo concessioni dallo Stato Cubano per il WI-FI (“uifi” come viene pronunciato a Cuba e non “uaifai”).

Cuba è la terra di frontiera, è l’ultimo avamposto comunista prima che tutto cambi irreversibilmente. Perché ora anche lì tutto sta cambiando. L’embargo non c’è quasi più, i comunisti con la C maiuscola non ci sono più, o quasi e prima che scompaiano del tutto si deve andare lì ora come ultima occasione.


Almeno per quelle generazioni di comunisti dagli anni ‘60 ad oggi per i quali Cuba, Fidel ed il Che sono stati autentici miti.


La svolta economica per i due ragazzi italiani dovrebbe venire proprio dalla tecnologia capitalistica per antonomasia sempre ripudiata dai comunisti puri: Internet, la rete WI-FI, i Social ancora mezzi rari sull’isola perché oggetto di limitate concessioni governative, mezzi che – come ormai accade in tutto il mondo- dovrebbero venire offerti all’interno di un ristorante.

Cuba rappresenta nell’immaginario collettivo la nuova frontiera della speranza dove ogni cosa può ancora succedere. Ma dove bisogna anche stare attenti perché ci si può imbattere in faccendieri, in personaggi loschi che cercano il facile guadagno sulla pelle di chi è ingenuo a loro si affida per fare affari. 

I due ragazzi sperimenteranno anche questi incontri difficili e pericolosi.

Rilevante però sarà il loro incontro con Nora, una ragazza italiana che si è scelta una nuova famiglia in alcuni cubani, ripudiando la sua. La famiglia diventa quella che ci si sceglie, non quella di nascita, secondo il pensiero di Nora.

E Nora è l’apice, il vertice di un triangolo formato da lei, Sandro e Luciano che però è solo di amicizia e mai di amore passionale come lo fu per Truffaut con Jules & Jim (film del 1962 diretto da François Truffaut).

Nora è una ragazza "borderline", una diversamente bella, passionale, romantica sentimentale, ma autentica e mai “stonata” pur se inserita in un contesto, come quello de l’Havana, suggestivo e caraibico eppure al contempo estremamente violento.

Sandro e Luciano lo sperimenteranno sulla loro pelle e - come due facce della stessa medaglia – uno riuscirà a trovare la forza e la sua strada mentre l’altro si perderà nei meandri più oscuri della sua anima.

Luciano è il “cuore di tenebra” di conradiana memoria, è colui che rivela in dall’inizio la tragicità del suo destino al quale non può sottrarsi nonostante tenti di modificarlo ad un certo punto della vicenda.

Il destino è però ineluttabile ed avvolge tutti e tre i protagonisti i quali – dopo essersi letteralmente spezzati dentro, ognuno a modo loro – varcano quella “linea d’ombra: Sandro riesce a scrivere, Nora “travasa” e “trasloca” il suo sogno d’amore e Luciano proietta se stesso oltre, oltre il finito, verso un mondo di cd. “non svaniti” , diventando lui stesso parte integrante dell’universo, quel vento che ti accarezza i capelli ed il viso.

Il film è una vera e propria commedia con l’anima, capace non solo di farti ridere e sorridere. Ciò anche grazie alle battute di un Nino Frassica ristoratore all’Havana esplosivo che prende in giro il mondo dei comunisti di oggi (“Voi siete tutti comunisti..”) o di un Sergio Rubini, padre di Sandro ed edicolante a Roma, che denuncia il fatto che “non si vende più un giornale..” quale segno dei tempi odierni in cui la carta stampata è ormai “vintage”, soppiantata dall’immediatezza dei Social e in genere delle letture on line.

Il quadro che emerge è quello di un’Italia fugacemente tratteggiata nei suoi vizi e nelle sue paure, disorientata ed immersa in una incessante ed interminabile crisi economica a causa della quale ci si è costretti a reiventarci anche ai limiti di ciò che è legale (l’edicolante Rubini deve vendere anche pomodori pachino fintamente biologici nella sua edicola, abusivamente e di nascosto ma per riuscire a sopravvivere); Frassica è emigrato a Cuba dalla Sicilia per evadere le tasse e non pagare la Mafia e nel suo ristorante fa finta di essere un napoletano.. ...

Ma saranno proprio i tre giovani protagonisti a recuperare con la loro freschezza e semplicità gli ideali perduti in un certo senso. Hanno la forza ed il coraggio di salpare, di diventare capitani del loro destino della loro vita. Non si arrendono alla logica qualunquista, cercano di scardinare altre porte, si fanno male, ma non si voltano indietro.

Si riappropriano del loro destino e  lo fanno in una maniera così forte e coinvolgente da portare alla “salvezza” ed alla rinascita interiore anche gli altri personaggi che sembravano aver perso ogni speranza nel domani.

E così accadrà che Cesare (Rubini), il padre di Sandro finirà per non poter che condividere gli ideali ed i sogni del figlio, Frassica, il ristoratore disincantato, si sentirà in qualche modo anche lui un padre per Sandro, il pescatore della spiaggia a L’Havana non potrà che credere nel progetto del WI-FI senza sapere neanche cosa la parola “WI-FI- veramente significhi.

Tutto grazie alla forza trascinante del superamento della linea d’ombra. Si arriva ad un certo punto in cui o si salta o si resta fermi e si muore. Luciano identifica chiaramente questo momento di passaggio obbligato, di salto nel vuoto quando dice: “Non è fuori che sono a pezzi. E’ dentro che si è rotto tutto”.

Ed è proprio nel momento in cui tutto sembra essersi irrimediabilmente rotto, frantumato e scheggiato in mille pezzi che invece si trova il coraggio di ripartire e di tuffarsi nel futuro, nel proprio destino per scrivere una nuova pagina di vita. Da protagonisti e fedeli alla propria intima essenza.


Esiste ed esisterà sempre un luogo in cui si riesce a diventare grandi: Giovanni Veronesi ci lascia questa speranza, accarezzandoci per tutto il film con la colonna sonora dei Negroamaro e chiudendo con una bellissima e poetica descrizione della vita, delle emozioni e degli abbracci che svaniscono e poi però ritornano. Con la certezza che chi è entrato nel nostro cuore non potrà mai veramente uscirne, non svanirà mai veramente. Sarà tutt’al più un “non svanito” che cavalca il vento della vita in un mondo parallelo al nostro. 
Michela Montanari

martedì, marzo 21, 2017

I AM NOT YOUR NEGRO

I Am not Your Negro
di Raoul Peck
con James Baldwin
USA, 2016
genere, documentario
durata, 95'


Dopo il perbenismo consumatosi nella notte degli Oscar, alla quale il film di Raoul Peck ha peraltro partecipato gareggiando nella cinquina dei migliori documentari, arriva nelle sale "I Am not Your Negro", cruda, quanto appropriata, riflessione sulla condizione della popolazione afro-americana vista attraverso gli occhi e le parole di James Baldwin, romanziere tra i più importati e celebrati della letteratura americana del XX secolo che, negli anni cruciali della lotta per i diritti civili e l'abolizione della segregazione razziale (siamo nel periodo che va dall'inizio degli anni cinquanta alla metà dei sessanta), si impegnò a testimoniare la violenza e le ingiustizie perpetrate nei confronti dei membri della sua comunità da parte della classe dominante.

Baldwin che, nel corso della sua vita ebbe modo di venire a contatto e di dialogare con tutte le figure più importanti del proprio tempo, decise nel giugno del 1979 di raccontare la storia americana traendo spunto dall'esperienza di tre figure che, attraverso il pensiero e le azioni che furono capaci di compiere, rappresentano ancora oggi il principale punto di riferimento della nazione afro americana: stiamo parlando di Medgar Evers, Martin Luther King e di Malcon X di cui Baldwin fu amico e sostenitore e che lo scrittore scelse quale fonte d'ispirazione di "Remember This House", opera incompiuta alla quale Peck si rivolge per rivivere il viaggio compiuto dal protagonista nella parte più oscura e indicibile del paese. Considerato che le pagine del libro in questione non superano le trenta unità, ciò che vediamo sullo schermo è il frutto di una selezione di materiali d'archivio composti da fotografie e filmati d'epoca ma anche di spezzoni relativi a interviste e conferenze tenute dallo stesso Baldwin che sono chiamati a integrare l'esiguità della fonte scritta.

Continuamente in bilico tra una dimensione personale e intimista, derivata dalla scelta di adottare una forma di racconto propria del Journal intime e un'altra, oggettiva e storiografica in cui gli elementi documentali (tra cui inserti tratti da altrettanti film) si inseriscono per confermare o ampliare le tesi del protagonista, "I Am not Your Negro" non si accontenta di rileggere la storia, mostrandola, ma si cimenta nella qualità posseduta da Baldwin di rendere semplici realtà molto complesse, in una sorta di referto psicologico in cui lo spettatore riesce a comprendere a quale grado di aberrazione e di mancanza di umanità fossero costretti tutti coloro che ieri come oggi vengono discriminati per il colore della pelle. Erigendosi a testimone del proprio tempo con la consapevolezza di non essere egli stesso esente da colpe e ingenuità, Baldwin non risparmia nessuno, smascherando con la logica dei suoi ragionamenti miti apparentemente intoccabili come quello dei fratelli Kennedy, accusati di rimanere volutamente sulla superficie del problema o della stessa comunità nera, divisa sul da farsi e in parte afflitta dagli stessi problemi del suo avversario. 

E a essere messi sotto la lente di ingrandimento sono, per usare le parole dello stesso scrittore, anche "l'apatia morale e la morte dello spirito che è presente nel mio paese". A venire a galla non è solo la capacità del protagonista di leggere il proprio tempo e di prevederne gli sviluppi con anni di anticipo ma è l'efficacia con cui "I Am not Negro" riesce a ribaltare le prospettive della Storia, portandoci a vivere la questione razziale dalla parte e nell'animo di chi ne è vessato al fine di far "sentire" quale sia il dramma di coloro che, non potendo fare a meno di sentirsi cittadini americani, sono costretti a guardarsi le spalle da chi invece li dovrebbe tutelare. Slogan del tipo "La mescolanza delle razze è comunismo" e affermazioni come "Dio perdona l'omicidio e l'adulterio ma è in collera contro chi è a favore dell'integrazione" rivolte a Dorothy Counts, la prima ragazza di colore ammessa in una scuola per soli bianchi, entrano dentro la pelle e lì rimangono insieme all'invito - rivolto da Baldwin alla popolazione di razza bianca - di fare i conti con i propri fantasmi per individuare e sconfiggere le cause di una cattiveria che rischia di compromettere le sorti del paese.
(pubblicata su ondacinema.it)