"Agonia dell'immaginario III: il futuro è amarsi in una tempesta di sabbia"
Avevamo lasciato R.Zemeckis (o era lui che ci aveva regalato una tregua sulla via aperta da una passeggiata/(the) walk sospesa su vertigini tutte da inventare e annesse sensazioni tutte da definire ?) alle prese con le insofferenze e gli equilibrismi di una volontà - quella di R.Petit/J.Gordon-Levitt - persuasa dell’esigenza di guardare oltre l'apparente attendibilità di un reale tale anche e, forse, soprattutto, perché quasi unanimemente accettato. Lo ritroviamo (indi, parimenti, è lui a dipanare dinanzi ai nostri occhi una possibile estensione di quel filo lanciato attraverso le nuvole dal funambolo francese) intento ad indirizzare il cammino del Ten.Col. Max Vatan/B.Pitt sul crinale esile, congetturale, quindi non meno intriso di possibilità, di un'immensa duna del quadrante nord-africano nel cuore del secondo conflitto mondiale. La vastità degli orizzonti a tinte tenui, il silenzio presago, l'invitante gratuità di un peregrinare sul momento senza scopo, introducono, con l'attesa di possibili sviluppi, il barlume innegabile di una promessa, di uno scarto affacciato su qualcosa che ancora non è ma potrebbe essere. In altre parole, sparsi appigli emotivi, danno corpo da subito ad una consistenza immaginativa la cui ampiezza, paradossalmente, non viene sacrificata ma vieppiù assecondata tanto dalla progressiva contestualizzazione della vicenda in un passato recente rievocato al modo sottilmente straniante, modernissimo, proprio di una sorta di scrupoloso archeologo del fantastico (certi angoli di deserto, certi squarci della Casablanca del 1942 - ambedue digitali - non sono così estranei ad una delle tante colonie extra-mondo a cui da tempo siamo avvezzi), quanto, e in particolare, dalla sua sfacciatamente artificiosa messinscena, in virtù del gradiente intimo che, saldandosi e sottendendosi alla narrazione e alla sua rappresentazione, vivificandole, proietta gli eventi (e noi che assistiamo/partecipiamo) in quel futuro profetico che, come argomenta A.Tagliapietra nel suo "Icone della fine", intende spezzare il rapporto di dipendenza col passato prossimo e remoto, annunciando l'irruzione nel presente di una novità assoluta e ultimativa. Cosa che l'opera di Zemeckis fa, per l’appunto e come accennato, sin dapprincipio, assoggettando, per così dire, lo sviluppo e la plausibilità del racconto (ovvero anche il suo essere concatenazione di fatti realizzabili in via elettiva dal punto di vista della loro grammatica psicologica) alla pregnanza delle sue ripercussioni passionali, giungendo alla constatazione per cui l'autenticità del momento, di ogni momento, all'interno di un mondo - quello attuale quant'altri mai - fattosi passo passo artificiale, nonché brutale e freddo (e in base a ciò meritevole di essere ricostruito quasi per intero, in ogni caso messo-in-scena, e nel modo più elaborato ma evidente possibile), è ascrivibile in massima parte allo slancio e alla purezza del sentimento che si è stati in grado d'infondervi lungo la via di fuga della liberazione (op.cit.).
Sulle tracce di un sentiero solo in parte tracciato, di certo interrotto dagli opportunismi, dalle viltà, dai tradimenti, comunque orientato verso la piena affermazione di se stessi come individui consapevoli di essere soggetti al desiderio (il meraviglioso anywhere out of the world di baudelairiana memoria, per dire, riecheggia nel proposito dichiarato dai protagonisti di “andare via da tutto”, senza reticenze, in un altrove che solo alla fine si palesa, conservando ciononostante elementi di una proiezione ideale, ossia sempre declinabile al futuro), si snoda l’intreccio, tra minuziose evanescenze degli sfondi, delle cromie impalpabili, nostalgiche, e centralità perentoria dei gesti, dei volti, degli sguardi (ci si scrive con cautela, nel film, per via delle contingenze e dei ruoli; ci si telefona ancor meno e non solo perché il nemico ascolta ma per pudore, per ritegno - quel restraint che l’era vittoriana, residuale in quegli inizi del Novecento eppure ancora patrimonio comune, oltreché degli alti ranghi, di un generico costume diffuso a caratterizzare una condivisa soglia minima di convivenza, aveva innalzato, ennesima illusione, a rango di norma sociale - Più che altro, in questo mondo sospeso che è, allo stesso tempo, il mondo ricreato da Zemeckis e il mondo tra parentesi della guerra, ci si guarda negli occhi - numerosi e quasi sempre inquieti i primi piani di Vatan e M.Beausejour/M.Cotillard - ci si attacca a quel tanto di avvenire che la loro fissità febbrile sembra sottintendere o, quantomeno, non escludere.
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Appare chiaro, a questo punto, come quel crinale di cui parlavamo all’inizio, riconducibile al Cinema stesso di Zemeckis, almeno da “Contact” (1997) in poi (Ellie/Foster, in fin dei conti, è alla ricerca della parte mancante del proprio mondo interiore, ossia del legame interrotto con l’amato padre, prossimità autentica rinnovata e per sempre interiorizzata in un luogo del cuore posto al di là dello spazio e del tempo) palesi - e le vicissitudini di Vatan e Beausejour, uomo e donna di un tempo andato ma comuni ad ogni tempo, stanno a dimostrarlo, perché Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo/E la morte non avrà più dominio (D.Thomas) - i tratti di un sommesso ma deciso itinerario di fede, da soppesare nel significato più vasto di fiducia (fidarsi, che è un lancio di dadi verso il domani, è ciò che si chiedono di continuo reciprocamente Vatan e Beausejour) e in quello più specifico di (ri)affermazione di un umanesimo testardo nel dire la sua sulle prospettive delle cose-a-venire, moto, quest’ultimo, con ogni probabilità ancora residuale eppure non meno ambizioso nel proporre e rilanciare istanze di liberazione mai del tutto sopite oltre il destino manifesto dell’eterno ritorno di un’eterno presente, trappola a cui si sfugge solo arrischiandosi a sentire-il-futuro, al modo dell’hemingwayano Nick Adams che, seduto a poppa con suo padre che remava, si sentiva assolutamente sicuro che non sarebbe mai morto.
TFK
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