sabato, giugno 29, 2024

'SEI NELL'ANIMA': CONVERSAZIONE CON LETIZIA TONI

Prodotto da Indiana Production e diretto da Cinzia TH Torrini, Sei nell’anima racconta la storia di Gianna Nannini, con Letizia Toni nei panni dell’icona del rock femminile italiano.

Dal 2 maggio disponibile su Netflix.

Come attrice Sei nell’anima era un progetto particolare per il fatto di essere un biopic su un personaggio, Gianna Nannini, ancora sulla cresta dell’onda. Sullo schermo il tuo rappresentava (anche) una sorta di doppio della cantante senese.

Infatti esisteva in me il timore del confronto con il modello originale e con la responsabilità di una rappresentazione che fosse credibile sia per lei sia per i suoi fan. In realtà mentre la studiavo ho avuto la possibilità di passare del tempo con lei e questo mi ha permesso di far venire meno la paura iniziale. Con Gianna ho stabilito un rapporto così familiare da far cadere la distanza che si ha quando ci si confronta con un mito. Da lì in poi mi sono sentita libera di trovare le diverse strade per interpretare le varie fasi della sua vita. L’aver constatato che si ritrovava in quello che facevo mi ha dato enorme fiducia. Se c’era qualcosa che non le tornava me lo diceva, ma sempre con quel modo gentile e costruttivo, utile ad arricchire l’interpretazione, ma senza diminuire il mio lavoro.

Questo ti ha permesso di eliminare il doppio rappresentato dalla sua immagine pubblica per concentrarti sul nocciolo esistenziale da cui nasce la sua musica.

Sì, alla fine ho avuto modo di confrontarmi con la persona e non con il personaggio. D’altronde per arrivare alla grande rockstar dovevo per forza passare da quello che c’è prima e dunque conoscere la bambina e l’adolescente che a diciassette anni scappa di casa con una chitarra in mano per andare a Milano portandosi dietro le paure e le incognite del caso.

Non a caso Sei nell’anima si sofferma soprattutto sul privato della cantante evitando di dare conto, se non come conseguenza, al lato pubblico del suo successo artistico.

Esatto, nel film si parla soprattutto della vicenda umana tratta dalla biografia Cazzi miei. Ci siamo soffermati su quella fase della vita in cui la fatica era quella di tirare fuori la sua vocazione. Parliamo di un percorso con un messaggio pazzesco per i giovani in un momento in cui questi faticano a trovare speranza nel futuro.

Tenendo conto che Gianna Nannini è stata giovane in un periodo come gli anni ’80 in cui le prospettive erano molto più rosee di quelle di oggi.

Sì, per i ragazzi di oggi è molto più difficile iniziare a fare qualcosa anche perché è già stato inventato tutto. Però le difficoltà di Gianna da giovane sono le stesse che possono avere i suoi coetanei di oggi. Il suo essere un personaggio famoso può concorrere a portarne alla luce il percorso di dolore e di difficoltà, ma soprattutto il suo superamento.

Penso che il principio del tuo lavoro sia stato quello di mescolare gli aspetti meno conosciuti del privato con la necessità di mantenere quelli che fanno parte della sua riconoscibilità agli occhi del pubblico. Si trattava di creare un equilibrio tra creare e ricreare.

Il mio percorso è stato anche quello di arrivare a riprodurre tutta una serie di comportamenti, atteggiamenti e gestualità che le appartenevano. Per arrivarci ho dato precedenza alla sfera psicologica rispetto alla somiglianza esteriore. Avendo a che fare con un carattere molto forte e con un personaggio ben delineato, se avessi fatto il contrario, iniziando dalla componente fisiognomica, avrei rischiato di esagerare dando vita a una macchietta. È stata una direzione che ho abbandonato da subito per dedicarmi agli aspetti interiori. È da lì che ho fatto emergere le espressioni e i tic che fanno parte della sua persona.

In questo rapporto tra arte e vita tu come ti sei posta? Voglio dire in che modo il tuo percorso personale e artistico è entrato a far parte del personaggio?

Per certi versi c’è stata una vera e propria sovrapposizione perché le dinamiche che ha vissuto lei mi sono molto familiari. Penso al fatto di non essere mai accettata dalla famiglia per il lavoro che si vuole intraprendere. Quando recitavo la condizione di chi sembra andare a perdere tempo nei concorsi di musica, ho ripensato a come venivo guardata mentre frequentavo le scuole di recitazione. Quindi per me si è trattato di recuperare sensazioni che ho vissuto per poi sovrapporle a Gianna dando vita a una specie di sdoppiamento.

Per rispondere alla tua domanda diciamo che a un certo punto arte e vita si fondono in una sola cosa. Gianna non esiste senza la sua musica così come Letizia senza la sua recitazione.

In effetti il percorso di emancipazione artistica della protagonista passa inevitabilmente da quello esistenziale in un movimento dall’interno all’esterno che è lo stesso da te fatto per entrare nel personaggio. Peraltro la condizione che avevi mentre giravi il film era la stessa di quella della Nannini. Entrambe vi trovavate, tu nella realtà, alle prese con il primo grande ruolo da protagonista, lei nella fiction, a vivere il punto di svolta, sia privato che artistico.

Ho usato ogni cosa. In ciò che di mio ho messo nell’interpretazione c’era persino lo stress per il caldo che avevamo mentre giravamo. Anche quello è entrato nello stato d’animo del personaggio. D’altronde è così che fanno gli attori, portano in scena tutto ciò che è a portata di mano.

Come Gianna nel film si trova a produrre il disco decisivo per l’inizio della sua carriera così tu avevi una chance molto importante per entrare nel cinema che conta. Penso che questo ti abbia aiutato a entrare nella dimensione del racconto.

Sì, come Gianna mi dicevo che non dovevo sbagliare.

La tua è sicuramente una performance all’americana in cui suoni, balli e canti con una postura da cantante rock. D’altro canto hai avuto a che fare con un percorso umano che attraversa l’intera gamma affettiva e sentimentale. In Sei nell’anima la tua è stata una performance tanto fisica quanto interiore.

È stato importantissimo aver avuto il tempo necessario per preparala. Questo mi ha permesso di entrare in ogni minimo dettaglio. Ho preso lezione e in generale mi sono fatta permeare dalle cose come se le avessi vissute in prima persona. Se non avessi avuto nove mesi a disposizione sarebbe stato impossibile farlo.

Anche perché la maggior parte dei tuoi colleghi si lamenta che, a differenza delle produzioni americane, quelle italiane non prevedono granché in termini di preparazione.

Sì, perché si consumano storie come al fast food. Per un attore non si tratta solo di entrare in contatto con un numero altissimo di informazioni e sensazioni, quanto di avere il tempo per metabolizzarle, di farle entrare dentro la pelle. La maggior parte delle volte non hai il tempo per approfondire così tanto come capita ai colleghi americani.

Nella tua performance vocale per esempio non c’era solo la ricerca del giusto accento, ma anche quello di saper riprodurre le doti canori della cantante.

Diciamo che lì c’è stato un avvicinamento della mia voce alla sua. Per quanto riguarda l’accento della parlata mi sono agganciata molto alle nostre radici toscane perché l’intercalare della provincia di Pistoia non è uguale, ma neanche così lontana da quella senese. Ho cercato di replicare il suo modo di spostare la voce, come respira e soprattutto di avvicinarmi al suo tipo di spinta vocale. Lei ha una respirazione molto profonda sul tipo delle cantanti soul e liriche. Ha una potenza propulsiva fortissima. Se la senti dal vivo sembra cantare con il microfono anche quando non lo usa. Vedere accadere tutto questo davanti a me mi ha aiutato davvero tanto.

Nel film le canzoni sembrano scelte per commentare ulteriormente le immagini per cui volevo chiederti se nell’interpretazione del personaggio le hai usate come ulteriore approfondimento della scena che stavi interpretando?

I suoi testi raccontano molto della sua vita però a volte, come dice lei, sono dei paralumi, nel senso che la loro scrittura è il frutto di un’ispirazione momentanea, non per forza collegata a un preciso momento della sua vita. Spesso mi diceva di aver immaginato storie di persone che vedeva davanti a sé e che neanche conosceva. Nel film ci sono delle canzoni che sembra commentino ciò che succede nella storia anche se poi alcuni elementi di questa sono stati romanzati per esigenze cinematografiche.

In un cinema in cui le scene di nudo sono sempre più rare Sei nell’anima esplora anche questo aspetto senza tabù. Una caratteristica, questa, che concorre ad arricchire la tua performance.

Ho sposato il modo in cui era stata scritta la sceneggiatura. Personalmente non ho alcun problema a cimentarmi in scene di intimità. Mi ci avvicino come per le altre scene, cercando di trovarne il senso con la vita del personaggio. 

Tra le tante versioni della Nannini una è quella sul palco dei suoi concerti. Nelle immagini ti vediamo interpretare il personaggio con ogni muscolo del corpo tra pose e ammiccamenti che sono diventati parte integrante delle sue esibizioni. Anche in quel caso immagino ti sia lasciata andare a una totale immersione nel personaggio.

Avendo avuto modo di prepararmi quelle scene sono state meno difficili di quanto si possa pensare, anzi per quanto mi riguarda sono state una figata. Erano la parte più divertente del film e me le sono godute da morire.

Volevo chiederti se nella tua interpretazione sapevi quali canzoni avrebbe utilizzato la regista come colonna sonora?

No, in realtà non lo sapevo, però diciamo che nella musica di Gianna Nannini c’è una chiave che se intercettata è poi facile da applicare all’interno della tua interpretazione. In alcuni punti sapevo quale era la musica, in generale però non è che ci pensassi o che me la mettessero per entrare meglio nella parte. Ero in scena senza musica e il più delle volte non ci pensavo anche perché non è che devi far capire l’esistenza della colonna sonora.

Avevi a che fare con un personaggio come Gianna Nannini che noi conosciamo come persona schietta e scanzonata. Nel film però dovevi interpretarne soprattutto le fragilità.

La forza che lei sprigionava sul palco era direttamente proporzionale alla sua fragilità. Il palco era il posto del suo riscatto, quello in cui poteva esplodere tutto l’amore per la sua vocazione e la voglia di farsi amare che poi era uno dei suoi obiettivi.

Una chiave della riuscita della tua interpretazione è stata l’essere riuscita a far sentire entrambi i lati della sua personalità.

Sì, diciamo che ho cercato di dosare i diversi stati, tenendo conto che sono le fragilità quelle che ti spingono a fare tutto il resto. Se uno sta bene e non ha problemi rischia di non avere motivazioni o quantomeno ha meno necessità di cercare fuori di sé. La fragilità, l’inadeguatezza, la sensazione di non essere abbastanza amati ti spinge a cercare gli altri.

Interpretare Gianna Nannini significa anche proporre un modello femminile ante litteram diventato oggi quanto mai attuale. La sua ricerca di indipendenza passa anche attraverso l’occupazione di uno spazio che allora, ma anche oggi, è per lo più monopolizzato dalla compagine maschile.

A volte sembra che il tempo non sia nemmeno passato. Ci si continua a scandalizzare per nulla certificando la lentezza di questa presunta evoluzione. La Nannini segue molto l’istinto e questo la rende autentica. Il suo tenersi legata all’energia dell’infanzia e allo stupore di quell’età è qualcosa che ancora oggi l’accompagna e le dà un’enorme freschezza. Il suo fare musica non risulta mai annoiato e dietro questo percorso c’è sempre una cultura alla quale si ispira per provare a creare un genere sempre nuovo. Gianna non è mai ferma.

Parliamo del cinema che preferisci.

Mi ispiro molto al cinema americano contemporaneo. Tra i miei attori preferiti c’è Leonardo di Caprio ma anche Joaquin Phoenix e Natalie Portman. In generale mi piace la loro generazione perché è in grado di portare sullo schermo un senso di verità. È vero che andiamo al cinema per prenderci una pausa dalla realtà e per sognare, ma il compito del cinema è quello di raccontare una verità “bella”, senza artificio e cercando di far vivere le emozioni per quello che sono.


Carlo Cerofolini

(già pubblicata su Taxidrivers.it)

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