Prodotto da Indiana Production e diretto da Cinzia TH Torrini, Sei nell’anima racconta la storia di Gianna Nannini, con Letizia Toni nei panni dell’icona del rock femminile italiano.
Dal 2 maggio disponibile
su Netflix.
Come attrice Sei
nell’anima era un progetto particolare per il fatto di essere un biopic su un
personaggio, Gianna Nannini, ancora sulla cresta dell’onda. Sullo schermo il
tuo rappresentava (anche) una sorta di doppio della cantante senese.
Infatti esisteva in me il
timore del confronto con il modello originale e con la responsabilità di una
rappresentazione che fosse credibile sia per lei sia per i suoi fan. In realtà
mentre la studiavo ho avuto la possibilità di passare del tempo con lei e
questo mi ha permesso di far venire meno la paura iniziale. Con Gianna ho
stabilito un rapporto così familiare da far cadere la distanza che si ha quando
ci si confronta con un mito. Da lì in poi mi sono sentita libera di trovare le
diverse strade per interpretare le varie fasi della sua vita. L’aver constatato
che si ritrovava in quello che facevo mi ha dato enorme fiducia. Se c’era
qualcosa che non le tornava me lo diceva, ma sempre con quel modo gentile e
costruttivo, utile ad arricchire l’interpretazione, ma senza diminuire il mio
lavoro.
Questo ti ha permesso di
eliminare il doppio rappresentato dalla sua immagine pubblica per concentrarti
sul nocciolo esistenziale da cui nasce la sua musica.
Sì, alla fine ho avuto
modo di confrontarmi con la persona e non con il personaggio. D’altronde per
arrivare alla grande rockstar dovevo per forza passare da quello che c’è prima
e dunque conoscere la bambina e l’adolescente che a diciassette anni scappa di
casa con una chitarra in mano per andare a Milano portandosi dietro le paure e
le incognite del caso.
Non a caso Sei nell’anima
si sofferma soprattutto sul privato della cantante evitando di dare conto, se
non come conseguenza, al lato pubblico del suo successo artistico.
Esatto, nel film si parla
soprattutto della vicenda umana tratta dalla biografia Cazzi miei. Ci siamo
soffermati su quella fase della vita in cui la fatica era quella di tirare
fuori la sua vocazione. Parliamo di un percorso con un messaggio pazzesco per i
giovani in un momento in cui questi faticano a trovare speranza nel futuro.
Tenendo conto che Gianna
Nannini è stata giovane in un periodo come gli anni ’80 in cui le prospettive
erano molto più rosee di quelle di oggi.
Sì, per i ragazzi di oggi
è molto più difficile iniziare a fare qualcosa anche perché è già stato
inventato tutto. Però le difficoltà di Gianna da giovane sono le stesse che
possono avere i suoi coetanei di oggi. Il suo essere un personaggio famoso può
concorrere a portarne alla luce il percorso di dolore e di difficoltà, ma
soprattutto il suo superamento.
Penso che il principio
del tuo lavoro sia stato quello di mescolare gli aspetti meno conosciuti del
privato con la necessità di mantenere quelli che fanno parte della sua
riconoscibilità agli occhi del pubblico. Si trattava di creare un equilibrio
tra creare e ricreare.
Il mio percorso è stato
anche quello di arrivare a riprodurre tutta una serie di comportamenti,
atteggiamenti e gestualità che le appartenevano. Per arrivarci ho dato
precedenza alla sfera psicologica rispetto alla somiglianza esteriore. Avendo a
che fare con un carattere molto forte e con un personaggio ben delineato, se
avessi fatto il contrario, iniziando dalla componente fisiognomica, avrei
rischiato di esagerare dando vita a una macchietta. È stata una direzione che
ho abbandonato da subito per dedicarmi agli aspetti interiori. È da lì che ho
fatto emergere le espressioni e i tic che fanno parte della sua persona.
In questo rapporto tra arte e vita tu come ti sei posta? Voglio dire in che modo il tuo percorso personale e artistico è entrato a far parte del personaggio?
Per certi versi c’è stata
una vera e propria sovrapposizione perché le dinamiche che ha vissuto lei mi
sono molto familiari. Penso al fatto di non essere mai accettata dalla famiglia
per il lavoro che si vuole intraprendere. Quando recitavo la condizione di chi
sembra andare a perdere tempo nei concorsi di musica, ho ripensato a come
venivo guardata mentre frequentavo le scuole di recitazione. Quindi per me si è
trattato di recuperare sensazioni che ho vissuto per poi sovrapporle a Gianna
dando vita a una specie di sdoppiamento.
Per rispondere alla tua
domanda diciamo che a un certo punto arte e vita si fondono in una sola cosa.
Gianna non esiste senza la sua musica così come Letizia senza la sua
recitazione.
In effetti il percorso di
emancipazione artistica della protagonista passa inevitabilmente da quello
esistenziale in un movimento dall’interno all’esterno che è lo stesso da te
fatto per entrare nel personaggio. Peraltro la condizione che avevi mentre giravi
il film era la stessa di quella della Nannini. Entrambe vi trovavate, tu nella
realtà, alle prese con il primo grande ruolo da protagonista, lei nella
fiction, a vivere il punto di svolta, sia privato che artistico.
Ho usato ogni cosa. In
ciò che di mio ho messo nell’interpretazione c’era persino lo stress per il
caldo che avevamo mentre giravamo. Anche quello è entrato nello stato d’animo
del personaggio. D’altronde è così che fanno gli attori, portano in scena tutto
ciò che è a portata di mano.
Come Gianna nel film si
trova a produrre il disco decisivo per l’inizio della sua carriera così tu
avevi una chance molto importante per entrare nel cinema che conta. Penso che
questo ti abbia aiutato a entrare nella dimensione del racconto.
Sì, come Gianna mi dicevo
che non dovevo sbagliare.
La tua è sicuramente una
performance all’americana in cui suoni, balli e canti con una postura da
cantante rock. D’altro canto hai avuto a che fare con un percorso umano che
attraversa l’intera gamma affettiva e sentimentale. In Sei nell’anima la tua è
stata una performance tanto fisica quanto interiore.
È stato importantissimo
aver avuto il tempo necessario per preparala. Questo mi ha permesso di entrare
in ogni minimo dettaglio. Ho preso lezione e in generale mi sono fatta permeare
dalle cose come se le avessi vissute in prima persona. Se non avessi avuto nove
mesi a disposizione sarebbe stato impossibile farlo.
Anche perché la maggior
parte dei tuoi colleghi si lamenta che, a differenza delle produzioni
americane, quelle italiane non prevedono granché in termini di preparazione.
Sì, perché si consumano
storie come al fast food. Per un attore non si tratta solo di entrare in
contatto con un numero altissimo di informazioni e sensazioni, quanto di avere
il tempo per metabolizzarle, di farle entrare dentro la pelle. La maggior parte
delle volte non hai il tempo per approfondire così tanto come capita ai
colleghi americani.
Nella tua performance
vocale per esempio non c’era solo la ricerca del giusto accento, ma anche
quello di saper riprodurre le doti canori della cantante.
Diciamo che lì c’è stato
un avvicinamento della mia voce alla sua. Per quanto riguarda l’accento della
parlata mi sono agganciata molto alle nostre radici toscane perché
l’intercalare della provincia di Pistoia non è uguale, ma neanche così lontana
da quella senese. Ho cercato di replicare il suo modo di spostare la voce, come
respira e soprattutto di avvicinarmi al suo tipo di spinta vocale. Lei ha una
respirazione molto profonda sul tipo delle cantanti soul e liriche. Ha una
potenza propulsiva fortissima. Se la senti dal vivo sembra cantare con il
microfono anche quando non lo usa. Vedere accadere tutto questo davanti a me mi
ha aiutato davvero tanto.
Nel film le canzoni sembrano scelte per commentare ulteriormente le immagini per cui volevo chiederti se nell’interpretazione del personaggio le hai usate come ulteriore approfondimento della scena che stavi interpretando?
I suoi testi raccontano
molto della sua vita però a volte, come dice lei, sono dei paralumi, nel senso
che la loro scrittura è il frutto di un’ispirazione momentanea, non per forza
collegata a un preciso momento della sua vita. Spesso mi diceva di aver immaginato
storie di persone che vedeva davanti a sé e che neanche conosceva. Nel film ci
sono delle canzoni che sembra commentino ciò che succede nella storia anche se
poi alcuni elementi di questa sono stati romanzati per esigenze
cinematografiche.
In un cinema in cui le
scene di nudo sono sempre più rare Sei nell’anima esplora anche questo aspetto
senza tabù. Una caratteristica, questa, che concorre ad arricchire la tua
performance.
Ho sposato il modo in cui
era stata scritta la sceneggiatura. Personalmente non ho alcun problema a
cimentarmi in scene di intimità. Mi ci avvicino come per le altre scene,
cercando di trovarne il senso con la vita del personaggio.
Tra le tante versioni
della Nannini una è quella sul palco dei suoi concerti. Nelle immagini ti
vediamo interpretare il personaggio con ogni muscolo del corpo tra pose e
ammiccamenti che sono diventati parte integrante delle sue esibizioni. Anche in
quel caso immagino ti sia lasciata andare a una totale immersione nel
personaggio.
Avendo avuto modo di
prepararmi quelle scene sono state meno difficili di quanto si possa pensare,
anzi per quanto mi riguarda sono state una figata. Erano la parte più
divertente del film e me le sono godute da morire.
Volevo chiederti se nella
tua interpretazione sapevi quali canzoni avrebbe utilizzato la regista come
colonna sonora?
No, in realtà non lo
sapevo, però diciamo che nella musica di Gianna Nannini c’è una chiave che se
intercettata è poi facile da applicare all’interno della tua interpretazione.
In alcuni punti sapevo quale era la musica, in generale però non è che ci pensassi
o che me la mettessero per entrare meglio nella parte. Ero in scena senza
musica e il più delle volte non ci pensavo anche perché non è che devi far
capire l’esistenza della colonna sonora.
Avevi a che fare con un
personaggio come Gianna Nannini che noi conosciamo come persona schietta e
scanzonata. Nel film però dovevi interpretarne soprattutto le fragilità.
La forza che lei
sprigionava sul palco era direttamente proporzionale alla sua fragilità. Il
palco era il posto del suo riscatto, quello in cui poteva esplodere tutto
l’amore per la sua vocazione e la voglia di farsi amare che poi era uno dei
suoi obiettivi.
Una chiave della riuscita
della tua interpretazione è stata l’essere riuscita a far sentire entrambi i
lati della sua personalità.
Sì, diciamo che ho
cercato di dosare i diversi stati, tenendo conto che sono le fragilità quelle
che ti spingono a fare tutto il resto. Se uno sta bene e non ha problemi
rischia di non avere motivazioni o quantomeno ha meno necessità di cercare
fuori di sé. La fragilità, l’inadeguatezza, la sensazione di non essere
abbastanza amati ti spinge a cercare gli altri.
Interpretare Gianna
Nannini significa anche proporre un modello femminile ante litteram diventato
oggi quanto mai attuale. La sua ricerca di indipendenza passa anche attraverso
l’occupazione di uno spazio che allora, ma anche oggi, è per lo più monopolizzato
dalla compagine maschile.
A volte sembra che il
tempo non sia nemmeno passato. Ci si continua a scandalizzare per nulla
certificando la lentezza di questa presunta evoluzione. La Nannini segue molto
l’istinto e questo la rende autentica. Il suo tenersi legata all’energia
dell’infanzia e allo stupore di quell’età è qualcosa che ancora oggi
l’accompagna e le dà un’enorme freschezza. Il suo fare musica non risulta mai
annoiato e dietro questo percorso c’è sempre una cultura alla quale si ispira
per provare a creare un genere sempre nuovo. Gianna non è mai ferma.
Parliamo del cinema che
preferisci.
Mi ispiro molto al cinema
americano contemporaneo. Tra i miei attori preferiti c’è Leonardo di Caprio ma
anche Joaquin Phoenix e Natalie Portman. In generale mi piace la loro
generazione perché è in grado di portare sullo schermo un senso di verità. È vero
che andiamo al cinema per prenderci una pausa dalla realtà e per sognare, ma il
compito del cinema è quello di raccontare una verità “bella”, senza artificio e
cercando di far vivere le emozioni per quello che sono.
Carlo Cerofolini
(già pubblicata su Taxidrivers.it)
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