Another End
di Piero Messina
con Gael García Bernal,
Renate Reinsve, Bérénice Bejo
Italia, 2024
genere: drammatico
durata: 128’
Sarà perché nel cinema
esiste l’autoreverse per cui il tempo come successione lineare è solo una delle
opzioni date al regista per collegare la successione delle immagini e ancora
perché mettendo in scena un presente già passato, la Settima arte è deputata
per elezione a raccontare storie di fantasmi (anche quando nella finzione non
lo sono), fatto sta che “Another End” di Piero Messina ha le carte in regola
per essere considerato un film che il cinema se lo porta dentro per sua stessa
natura. Raccontando infatti di un futuro distopico in cui esiste la possibilità
di riportare temporaneamente in vita i defunti innestandone i ricordi nel corpo
dei “locatori”, Messina non solo fa del backforward (trasfigurato nell’azione
di far rivivere i cari estinti e dunque di recuperare il tempo perduto) la
premessa teorica della sua narrazione, ma assegna alla reminiscenza e alle
relative emozioni il compito di essere simulacro della realtà, attribuendo alla
memoria, e quindi a qualcosa che esiste non sul piano fisico ma mentale, la
possibilità di percepire uno spettro come qualcosa di vivo e di reale.
Un preludio filosofico di
cui però “Another End” non si accontenta, se è vero che in maniera mimetica, ma
non per questo meno evidente, il film fa il verso al modo in cui il cinema si
mette in scena. Basterebbe prendere come esempio la sequenza in cui Zoe torna
in vita nel corpo di Ava, in cui la simulazione operata per creare il ponte tra
la vita e la morte, facendo si che il risveglio dei defunti appaia come una
continuazione naturale della loro vita e non la conseguenza delle possibilità
scientifiche, è organizzata alla stregua di un vero e proprio backstage
cinematografico, con la mdp che a un certo punto si apre sull’interno di un
hangar, rivelando l’esistenza di una sorta di set cinematografico in cui i
tecnici con i loro argani si impegnano a trasmettere alla scocca di una finta
ambulanza l’andamento sussultorio di una corsa a sirene spiegate per le vie
della città. Oppure considerare che i locatori nel fare del proprio corpo il
mezzo per dare vita all’esistenza di terze persone altro non fanno che rimandare
al mestiere dell’attore come interprete di vite altrui, ma anche allo sguardo
del pubblico che, nel guardare sullo schermo Gabriel Garcia Bernal e Renate
Reinsve, crede - almeno durante la visione - che siano Sal e Zoe, così come Sal
riconosce nella locatrice colei che è stata la sua compagna.
Se a livello tematico la
poetica di “Another End” porta a compimento un altro percorso di amore e morte,
di lutto e di elaborazione (già esplorato ne “L’attesa”), declinando la
struttura del melò secondo i canoni più classici del genere, dal punto di vista
visivo il film immerge lo spettatore in un mondo altro, in cui il futuro
(prossimo) ipotizzato dallo scenario avveniristico diventa uno spazio liminale,
concreto e allo stesso tempo immaginato, per il fatto di contenere nel medesimo
contesto termini opposti come possono esserlo inferno e paradiso, inizio e
fine, detto e non detto e soprattutto l’esistenza e il suo contrario, e dove il
corpo è insieme limite e superamento
delle cose, chiamato com’è a far da elemento unificatore delle varie dicotomie,
regalando coerenza narrativa all’immaginario registico.
In questo senso “Another
End” diventa un cinema di corpi scandagliati nello scarto tra contenitore e
contenuto, tra carne e anima, su cui il film si basa per immaginare di far
tornare in vita i defunti inserendone i ricordi nel corpo ospite. Un concetto evidente
fin dalla prima sequenza, in cui l’immobilità del corpo della donna, ripreso di
spalle e schiacciato alla parete dalla resa prospettica, lo fanno sembrare
svuotato di ogni vitalità e ridotto a semplice involucro. Un pensiero presente
anche nella decisione di evidenziare la maggiore grandezza del corpo di Ava
rispetto a quello di Sal, avvalorando la persistenza della forma in un contesto
umano più votato al “sentire” che al “vedere” (“voglio riuscire a vederla” dice
Sal, incapace di riconoscere la propria amata nella donna che le ha prestato il
corpo).
Come pure nella
dialettica tra spazi esterni e interni, con la città presente fintanto che la
solitudine non viene sostituita dalla pienezza dell’amore, destinata a far
scomparire lo spazio presente nei campi lunghi della città a favore di un
cinema che si fa tutt’uno con i corpi nella volontà di restituirli
dall’interno, corrispondendo - nella seconda parte - all’avvenuta presa di
coscienza di Sal, capace di riconoscere il “contenuto” nella “forma”. Con la
sequenza in cui Sal e Ava entrano nella sala dentro la stanza dei ricordi a far
da spartiacque del film, spostando la storia su un livello di percezione che
sembra in scena l’inconscio dei personaggi e con esso i loro sentimenti.
“Another End” diventa
così la cartina di tornasole di un talento, quello di Piero Messina, in grado
di accompagnare la bellezza dell’immagine con una visione del cinema a
trecentosessanta gradi, quella che gli permette (non avendo a disposizione i
capitoli di una saga per farlo) di compensare l’alto numero di informazioni
necessarie a creare il supposto narrativo del film e del suo mondo, e dunque il
rischio di avere a che fare con un film molto parlato, lasciando alle
suggestioni più che alla messinscena il compito di raccontarli allo spettatore.
A completare l’eccellenza del quadro concorre la direzione degli attori, ancora
una volta orientata a un cast internazionale e a un parterre di interpreti a
cui Messina offre la possibilità di una performance capace di rivaleggiare con
le migliori delle rispettive carriere. Come succede nel caso di Renate Reinsve,
brava nel dare anima e corpo (da modella) a un personaggio che sembra omaggiare
la Kim Novak de “La donna che visse due volte” e che soprattutto nella scena
del night club ha echi della Nastassia Kinski de “Un sogno lungo un giorno”.
Presentato in anteprima e in concorso all’ultima edizione del Festival di
Berlino, “Another End” è uno dei film più belli visti in questa prima parte di
stagione.
Carlo Cerofolini
(recensione pubblicata su ondacinema.it)
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