lunedì, luglio 30, 2012

Ritratti: Jennifer Connelly (1)




"Green earrings
I remember
The rings of rare design
I remember
The look in your eyes
I don't mind"

-Steely Dan -



Inizia con il profilo di Jennifer Connelly una serie di ritratti ragionati su personaggi cinematografici che hanno in  qualche modo colpito l'immaginario di chi nella redazione de icinemaniaci  si cimenterà nella trattazione di questi excursus.
Come al solito da queste parti non esistono  regole a parte la necessità di una passione oltre la norma.
Questo comporterà non solo scritti diversificati sul piano dello stile e del contenuto, ma anche scelte che potrebbero far discutere come appunto quella della bella e brava protagonista di "A beautiful Mind" e "La casa di ombre e nebbia", un attrice abituata a far parlare di sè più per la qualità del suo lavoro che per gli atteggiamenti da primadonna.
Buon divertimento dunque e chi più ne ha più ne metta, non parlo solo di chi scrive ma anche di chi avrà la vogiia di dire la sua.



Il cinema americano regala di continuo - al pari di tutte le cinematografie -attori/attrici eccellenti, capaci e mediocri ma a differenza di tutte le culture che si esprimono anche attraverso la settima arte, detta e ridefinisce senza posa pressoché da solo l'essenza dei canoni che influenzano platee immense di persone, mutuando e ibridando (nei fatti, consacrandoli) in una sorta di centrifuga dell'immaginario quelli che sono i "miti" fondativi della sua società: la libertà individuale, la giovinezza, la bellezza, il denaro, il successo, il talento, il glamour.

Così, accanto ai volti celebri che tutti gli appassionati non si stancano mai di rivedere e apprezzare, esiste una schiera enorme di interpreti che la critica, molto pragmaticamente, definisce "caratteristi" ma che qui, rubando dal gergo dei polizieschi vecchia maniera, ci piace chiamare "tipi affidabili" , i quali, spesso e volentieri, incarnano più e meglio quei "miti" di quanto siamo disposti a riconoscere o di quanto una subalterna visibilità preclude ad
una obiettiva valutazione.

Ebbene, Jennifer Connelly, la ragazza dai capelli neri e gli occhi grigi da Catskill, stato di New York, e' una di questi "tipi".
Sarà in tal modo più facile ora - in riferimento alla limitata analisi della sua carriera cinematografica che andiamo a svolgere - uscire dalle anguste stanze del "mi piace"/"non mi piace", "e' più bella di"/"non e' bella come" e provare a capire se e' possibile tracciare una linea continua che circoscriva
l'immagine e l'apparenza di un'attrice - in particolare l'impatto che su esse
ha lo star system hollywoodiano, inesausto manipolatore in primis di corpi -
con lo spessore delle caratterizzazioni, la pasta drammaturgia o la semplice
presenza scenica che un artista ha (dovrebbe avere), se, insomma, rimanendo in
clima "noir", sotto la panna montata c'e anche il gelato.

Sin dall'esordio sul grande schermo appena adolescente nel travagliatissimo canto del cigno di Sergio Leone "C'era una volta in America" (1984), si possono rintracciare - al netto di tutti i limiti che un esordio comporta - segni indicativi, giocoforza soprattutto fisici, di molti dei ruoli futuri della
Connelly: occhi grigio- verdi (vedi origini irlandesi-norvegesi da parte di
padre) assediati da una massa di capelli neri che potrebbe ricordare ai più
fissati "La dama di Shalott" (1886-1905) del preraffaellita William Holman
Hunt; sguardo spesso o bliquo, un lieve sorriso mai apertamente malizioso mai
del tutto esente da un sospetto di perfidia, di scherno trattenuto, magari di
prematuro disincanto, armamentario carnale-spirituale che viene messo al lavoro
per la prima volta con l'intento di sbriciolare le velleità voyeuristico-
sentimentali di un altrettanto impubere Noodles (Scott Tyler) e generare in noi
una non del tutto innocente curiosità che film dopo film sarà in grado di
trasformarsi in interesse critico.

La Connelly, in altra parole, prende da subito a caratterizzarsi per un certo non comune fascino irrisolto, irrequieto ( qui esaltato dall'età) ma lo stesso come poco interessato o preventivamente deluso dal proprio stesso potenziale di seduzione, centinaia di chilometri lontano - per dire - dalle schiere di sagaci e baldanzose quanto telefonate "California girls" che da tempo immemore rimbalzano da uno schermo all'altro. A conferma di questo - che e' e rimane un assunto, sia chiaro, la cui eccessiva razionalizzazione pero, oltre a risultare
pedante, rischia, a conti fatti, di essere anche poco esaustiva - seguono
alcuni film di genere: "Phenomena" del 1984 di Dario Argento, per esempio, e
"Labyrinth" di Jim Henson, del 1986, dove le peculiarità sopra elencate si
attagliano alla perfezione alle storie, al "clima" di quelle pellicole, in
bilico tra la favola nera, il soprannaturale e l'horror, sebbene in una cornice
di pura e semplice funzionalità.


di TheFisherKing





KINO VILLAGE

Roma, stasera, lunedì 30 luglio – h.21:00
I Tempi Moderni
del Kino

Tempi Moderni di Charlie Chaplin musicato dal vivo
all’arena Kino Village.


Questa sera – lunedì 30 luglio – alle ore 21:00 presso l'arena all'aperto del Kino Village presso il Parco San Sebastiano (Piazzale Numa Pompilio) a Roma, proiezione del capolavoro di Charlie Chaplin, Tempi Moderni (1936) con accompagnamento musicale dal vivo con i musicisti jazz Leonardo Cesari alla batteria ed elettronica e Daniele Pozzovio al pianoforte. Ingresso 5 euro.


Dopo il sold out della sonorizzazione dal vivo di Metropolis di Fritz Lang, Leonardo Cesari e Daniele Pozzovio sonorizzeranno il film senza l’ausilio di alcuna traccia sincronizzata, cercando di esaltarne le straordinarie doti comiche: una commedia drammatica e sentimentale dove inserire citazioni klezmer, jazz, manouche, ma anche un terreno fertile per l’improvvisazione.

"Io e Daniele - dichiara Leonardo Cesari - suoniamo insieme da svariati anni, suonando jazz, ma abbiamo anche un'ampia cultura classica, di letteratura pianistica del Novecento e contemporanea, quindi qualsiasi spunto estetico uno dei due prenda, l'altro è capace di seguirlo, dallo stride-piano al drum & bass".

Take Shelter

Vedere oltre i limiti della normale percezione è sempre stato un dono nefasto, che tanto la storia quanto la letteratura hanno spesso sospinto nei recinti della solitudine e della morte. Nel film di Jeff Nichols il peso della diversità è caricato sulle spalle di un personaggio come Curtis LaForche, lavoratore onesto e buon padre di famiglia che nella sua ordinarietà ha tutte le carte in regola per incarnare il dramma di un uomo proiettato in una dimensione più grande di lui. Un bigger than life che inizia quando il buon Curtis inizia a vedere nel cielo stormi di uccelli disegnare geometrie impazzite oppure con gocce di pioggia che improvvisamente diventano urina. Un crescendo di bizzarrie e di orrore che apre la strada  alla profezia di una prossima sciagura annunciata da Curtis, destinato a diventare dopo quell'affermazione un paria non solo nella comunità in cui vive ma anche nell'ambito della propria famiglia. Seminando nella storia presagi e indizi, come quello che lascia presupporre un collegamento tra le farneticazioni del protagonista con i postumi di un'infanzia segnata dalla pazzia della madre, che rimandano continuamente la definizione della natura di quelle visioni (realtà o allucinazione) il film procede accumulando un carico di tensione soffocata nel viso irregolare e straniato di Michael Shannon, oramai abbonato a ruoli sfiorati o intrisi, a secondo dei casi, da una follia cupa e disperata, che in questo caso sfocerà nell'ossessiva costruzione dello Shelter del titolo. A rendere l'atmosfera più nefasta la capacità di drammatizzare oggetti d'uso quotidiano facendoli sentire alieni rispetto allo spazio circostante, oppure in maniera scontata ma funzionale la presenza di quell'America di provincia che sempre nel caso di film drammatici da il meglio di sè in termini di chiusura ed ottusità. Al regista di "Take Shelter" va riconosciuto il merito di una tensione  nutrita dal rigore della messinscena  e dall'aver saputo valorizzare la maschera del suo attore. Una scelta quest'ultima che però sacrifica tutto il resto a cominciare da Jessica Chastain in un altro ruolo di supporto, e poi una certa dose di imprevedibilità che un film come questo dovrebbe avere, e che invece viene ridotta di molto dall'eccessiva linearità della storia. 

giovedì, luglio 26, 2012

film in sala dal 27 luglio 2012

Contraband
(Contraband)
GENERE: Thriller
ANNO: 2012  DATA: 25/07/2012
NAZIONALITA': USA
REGIA: Baltasar Kormákur

La memoria del cuore
(The Vow)
GENERE: Drammatico, Sentimentale
ANNO: 2012  DATA: 25/07/2012
NAZIONALITA': Australia, Brasile, Germania, Francia, Gran Bretagna, USA
REGIA: Michael Sucsy

Bed Time
(Mientras duermes)
GENERE: Horror, Thriller
ANNO: 2011  DATA: 27/07/2012
NAZIONALITA': Spagna
REGIA: Jaume Balagueró

Travolti dalla cicogna
(Un heureux événement)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011  DATA: 27/07/2012
NAZIONALITA': Francia
REGIA: Rémi Bezançon

Un anno da leoni

(The big year)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011  DATA: 27/07/2012
NAZIONALITA': USA
REGIA: David Frankel

La leggenda del cacciatore di vampiri
(Abraham Lincoln: Vampire Hunter)
GENERE: Horror, Thriller, Fantasy
ANNO: 2012  DATA: 20/07/2012
NAZIONALITA': USA
REGIA: Timur Bekmambetov

sabato, luglio 21, 2012

IO SONO LI


"Io sono Li" è l'opera prima di Andrea Segre che mi sento di segnalarvi perchè è un film delicato e discreto che ben mette in scena Chioggia e la sua gente mediante una storia non semplice, che rischia ogni secondo di cadere negli stereotipi, ma che Segre è riuscito a narrare con poesia e coerenza.
tra gli attori, tutti molto bravi, Battiston, Citran e Paolini.

Kino Village 2012

            Roma – programma 16 – 30 luglio 2012
 
 
La programmazione quotidiana dal 16 al 30 luglio  prevede la proiezione su maxischermo di grandi film internazionali inediti in Italia e le presentazioni editoriali con le serate KinoLibri dedicate a Calciopoli e ad Antonio Pascale. 

La programmazione dell’arena  all’aperto consultabile su http://www.ilkino.it/programmazione-kino-village1631-luglio/ presenta anche, dopo il grande successo di Metropolis, la sonorizzazione dal vivo di un altro capolavoro del cinema muto:Tempi moderni di Charlie Chaplin, lunedì 30 luglio, che sancisce il gradito ritorno dei jazzisti Leonardo Cesari e Daniele Pozzovio, autori dell’inedita partitura. E se le domeniche non hanno più calcio, il Kino Village ripara all’inconveniente a modo suo: dedicando una serata intera, quella del 29 luglio, al mister Zdenek Zeman, con la proiezione di Zemanlandia e Due o tre cose che so di lui, due documentari firmati dal regista Giuseppe Sansonna, che sarà presente alla proiezione. Sempre a sfondo sportivo, un altro documentario: Bobby Fischer against the world, che racconta l’incredibile vita del più grande giocatore di scacchi di tutti i tempi. Ma il Kino Village rende omaggio anche al primo Quentin Tarantino, con la nuova versione arricchita del suo esordio, Le Iene, quindi un Werner Herzog in salsa americana con My son, My son, what have ye done; quindi, il folle, lisergico, controverso film di Gaspar Noè, Enter the void; quindi la commedia rumena Morgen, diretta da Marian Crișan e candidato al Premio Oscar. Spazio all’anteprima assoluta italiana di Tyrannosaur, l’esordio alla regia di Paddy Considine, vincitore del premio alla regia e all’interpretazione degli attori al Sundance Festival. Il cinema italiano sarà presente anche con il pluri-premiato Sette Opere di Misericordia dei fratelli De Serio e con una selezione dei migliori cortometraggi italiani dell’anno alla presenza dei registi Giovanni Laparola, Irish Braschi, Piero Messina e Donato Sansone. Il 22 luglio sarà la volta di una domenica a ritmo di tango: il bistrot si trasformerà in una pista, mentre in arena si proietta Lezioni di tango di Sally Potter. Per finire due incontri letterari: con Marco Mensurati e Giuliano Foschini per parlare del loro libro su Calciopoli, Lo Zingaro e lo scarafaggio e con Antonio Pascale. 

venerdì, luglio 20, 2012

La cosa



Avevamo lasciato il caro, vecchio Kurt Russell, alias Jim Mc Ready, nel penoso
dubbio di aver eliminato una volta per tutte il mostro nel sospeso finale de
"La cosa" di Carpenter, anno 1982 (sorvolando deliberatamente sul piccolo
prodigio di ritmo e dialoghi che e' il capostipite di tutta questa mini saga, a
dire "La cosa da un altro mondo" di Nyby/Hawks del 1951, tratto dal racconto
"Who goes there ?" di John Wood Campbell) che ci si parà davanti, oggi, anno di
grazia 2012, questa superflua bolla di sapone per pigrizia - in realtà nel
tentativo, viene da dire disperato, di fornirgli un qualche tipo di attrattiva
- distribuita sotto l'etichetta ruffiana di "prequel".
Sono sufficienti, infatti, dieci, quindici minuti di proiezione - per
l'esattezza il tempo d'intravedere il nome della base antartica norvegese
teatro della vicenda, ovverosia "Thule" - per riporre nel cantuccio, oramai
intasato, delle promesse fantascientifiche penosamente tradite, illusioni
immaginifiche o perlomeno avventurose. Questo per dire, in sintesi, che la
pellicola pressoché da subito, tra un fraintendimento e un ammiccare posticcio
a predecessori illustri o comunque di una certa solidità stilistica e narrativa
(lo stesso Carpenter, ovviamente; ma anche "Alien" e in generale tutto il
sottofilone che per comodità potremmo definire il-mostro-che-e'-in-noi) si
adagia senza la minima inventiva, guizzo o ambiguità, su una sorta di
abbecedario del fantastico, monocorde, semi soporifero, sempre prevedibile, di
smaccata derivazione televisiva - tacendo, per amor della dea scrittura, su
incongruenze, rivelazioni tardive o abborracciate, battute e caratterizzazioni
dei personaggi - in cui e' assente anche il tentativo di forzare i parametri
del genere che, come ogni genere -dall'horror al nero, dal western al "war
movie"- ha vitale bisogno dell'invenzione per rivitalizzarsi, ossia per stupire
davvero.
In questa "cosa" il tempo scorre, la creatura inghiotte una ad una le figurine
che si agitano sullo schermo ma non "trasforma" mai la noia e la disillusione
nei nostri occhi.
Ancora una volta il meraviglioso, il possibile, ciò che potremmo essere, ciò
che potremmo diventare, tradisce affanno, fiato corto.
Disponiamoci così all'avvento di "Prometeus"di Ridley Scott.
Un altro "perquel"...

di FisherKing
 

mercoledì, luglio 18, 2012

The Grand Budapest Hotel: Wes Anderson vs Johnny Deep

Chissà se almeno lui riuscirà nell’impresa. Stiamo parlando di Wes Anderson e del suo "The Grand Budapest Hotel" nuova fatica del regista americano ancora in fase di pre produzione ma già in grado di sorprenderci con l’ingaggio di Johnny Deep, star planetaria dalle scelte di lavoro ultimamente in ribasso sotto il profilo artistico e molto attente all’aspetto mercantile peraltro ripagato dagli incassi al botteghino.  

Cosi dopo "The Lone Rangers" in cui la tendenza al make–up estremo ed un po’ sciroccato sembra, almeno dalle prime foto, farla ancora da padrone l’attore di “Edward mani di forbice” e di “Ed Wood” potrebbe tornare a recitare per davvero grazie al progetto allestito da una mente a cui non manca la capacità di saper gestire e far rendere al meglio star di difficile cabottaggio come Bill Murray, coinvolto (pare) nel progetto insieme a udite udite Angela Lansbury, famosa "signora in giallo" della serie televisiva. Un ensemble di attori che assieme all’atipicità del regista potrebbe ridarci se non la faccia, immolata al silicone, almeno il talento di un attore che da un po’ di tempo facciamo fatica a riconoscere. La speranza è sempre l’ultima a morire

lunedì, luglio 16, 2012

The son of no one

Restare aggrappati alle proprie origini, tirarne fuori i luoghi oscuri per il bisogno di liberarsene una volta per tutte. Era capitato così la prima volta con un esordio molto sofferto e quindi sincero. Poi una parentesi quasi necessaria, forse  per liberarsi dal peso del ricordo, oppure per assaporare una libertà creativa priva di responsabilità. Accade così che un fenomeno come  "Guida per riconoscere i tuoi santi" (2006)venga doppiato da un ibrido come "Fighting"(2009)sospeso tra aspirazioni artistiche e voglia di botteghino. Una battuta d'arresto paradigmatica per le implicazioni spesso negative connesse con la famigerata opera seconda, superata con la realizzazione di questo nuovo film, sempre indipendente ma questa volta omaggiato da un cast da film di primo ordine con l'attore feticcio Channing Tatum ormai assurto a rango di star, e le attempate quanto gloriose presenze di un peso massimo come Al Pacino e perché no, Ray Liotta, imprescindibile per i ruoli da canaglia. Costruito su un impianto poliziesco ed immerso in un clima di dolente espiazione "Son of no one" attraverso un intreccio di ricatti ed omicidi che coinvolge l'agente di polizia Jonathon Withe, ritorna sul luogo del delitto ed in particolare nel quartiere newyorkese del Queens, per raccontare un' altra  storia di amicizia e di violenza divisa tra passato e presente in cui, come capitava nel film d'esordio, l'emancipazione dell'umanità che ne è protagonista non può prescindere dalla redenzione del sangue.

Mescolando elementi autobiografici (il quartiere dove il film è girato ma anche i personaggi derivano da esperienze realmente vissute dall'autore) con situazioni paradigmatiche del genere a cui il film appartiene (la visione negativa dell'esistenza, il passato che ritorna ed a cui non si può sfuggire, l'istituzione poliziesca come tribù regolata da codici e comportamenti spesso disumani) "Son of no one" non si accontenta di ricalcare le gesta del cinema che lo precede - quello di James Gray per esempio che ricalca non solo nella struttura narrativa in cui il ritorno alle origini è la conseguenza di un movimento fisico e spaziale ma anche per il respiro da tragedia che accomuna il modo di raccontare dei due autori - ma si allunga su temi come quello del rapporto padre figlio, che è centrale nel cinema di Montiel. Tra figure biologicamente leggittimate, il padre padrone interpretato da Chazz Palmentieri  nei primo film,  e mentori di varia natura come quello dello scaltro manager Harvey Boarden che in "Fighting" amministra il giovane pupillo, anche qui è impossibile non dover fare i conti con i condizionamenti paterni o con la loro mancanza . Ed ecco allora accanto ad una propensione realistica testimoniata dalle numerose riprese rubate alla strada ed ai suoi abitanti, la sobria ma non per questo meno significativa apparizione di Al Pacino, portatore non a caso diciamo noi, di un sostrato ancestrale acquisito con le frequentazioni shakesperiane e qui determinante per dare spessore alle motivazioni che stanno dietro alla scia di afflizione che il film si porta dietro.  Con lui nel completo sgualcito del detective Stanford il film si assume il compito di fare il punto sulle contraddizioni dei legami familiari, da una parte rendendo libero il figlio putativo, White appunto orfano di un collega morto in servizio, con una resa dei conti finali neanche troppo sorprendente, dall'altra eliminando anche chi una volta era considerato tale e successivamente è messo alla porta senza tanti complimenti.  Montiel ha qualche difficoltà nel tenere insieme la componente privata ed esistenziale  con quella tipicamente poliziesca, legata alla scoperta del misterioso ricattatore che rischia di rovinare la vita del protagonista e dei suoi colleghi - il film si sviluppa in maniera fin troppo schematica attraverso continui sbalzi temporali dedicati alternativamente all'adolescenza ed all'età matura di White -  e sciupata da personaggi come quello della giornalista d'assalto interpretata da Juliette Binoche, un pò troppo sacrificata nei tempi da cameo alle convenzioni di una dialettica che vorrebbe allargare i propri orizzonti al mondo esterno e che invece per mancanza di una vera contrapposizione rimane confinata nei particolari del paesaggio in cui si svolge.  Detto questo fa piacere ritrovare quel senso di condivisione ed il pathos che l'autore riesce ad ottenere con uno sguardo commisurato all'oggetto dell'indagine. Per maturare c'è tempo, magari a partire dalla prossima volta.

domenica, luglio 15, 2012

Biancaneve e il cacciatore


L'unica costante è il cambiamento. L'affermazione del celebre motto buddista è una verità che in qualche modo interessa anche la mecca Hollywodiana per la necessità di restare al passo di una realtà sempre più fluida. Così se da una parte rimane intatto l'obbligo di rispettare le regole del business affidandosi a prodotti strasicuri, capaci di rimpinguare le casse degli investitori, dall'altra diventa sempre più pressante la necessità di rivestire di novità un'offerta destinata ad un mercato che si annoia facilmente.
Assecondando questa tendenza arriva sugli schermi un nuovo ibrido che mette insieme antico e moderno, stiamo parlando di "Biancaneve e il cacciatore" figlio di quel filone fantasy che ultimamente aveva segnato un pò il passo e che invece viene rilanciato da un prodotto che si affida all'estetica legittimata dal successo planetario de "Il signore degli anelli" con eroi ed eroine catapultati in un medioevo misterioso e fantastico animato da personaggi, luoghi e situazioni immortalati nella fiaba dei fratelli Grimm. Seguendo con i dovuti aggiornamenti il famoso canovaccio e lavorando soprattutto sull'aspetto iconografico, dallo specchio delle mie brame che si trasforma a comando in un oracolo in carne ossa ai sette nani disegnati sulle fattezze dei mitici Hobbit, per non parlare della componente magica e fantasmagorica legata al paesaggio naturale capace di incarnare il bello ed il brutto dell'immaginario favolistico, "Biancaneve ed il cacciatore" si sviluppa come una storia di formazione in cui il ritorno al trono della giovane principessa, estromessa dalla strega demoniaca (una Charlize Theron perfettamente calata nel ruolo) da vita ad un confronto tra buoni e cattivi in cui amore e amicizia della protagonista e della sua corte di amici si confrontano con il tradimento e la vendetta simboleggiate dai propositi della infida usurpatrice, determinata a sbarazzarsi di chiunque possa mettere in pericolo il primato della sua eterna giovinezza. 

Uno spettacolo che non si ferma all'assemblaggio delle singole componenti ma che continua, almeno per il pubblico più giovane, con la presenza a tutto campo dell'attrice del momento, quella Kristen Stewart a cui basta mettere la faccia per ricordare atmosfere e condizioni alla Twilight: il film non a caso la mette nei panni della fanciulla da salvare, ricreando quell'agonismo da cavalier servente già appartenuto alla saga vampiresca e che qui si rinnova, ripulito della tensione sessuale praticamente inesistente, attraverso le figure del cacciatore (il Chris Hemsworth di Thor) un cane sciolto dotato di talentuose virtù guerresche, ed un principe azzurro, convenzionale ma fedele alle esigenze salvifiche stimolate dalla bella principessa. Chi è cresciuto con la favola di Biancaneve si divertirà a riconoscere gli aggiornamenti della fiaba, mentre il pubblico più giovane, a cui il film appartiene di diritto, non mancherà di entusiasmarsi.    

giovedì, luglio 12, 2012

film in sala dal 13 luglio 2012

Biancaneve e il Cacciatore
(Snow White and the Huntsman)
GENERE: Azione, Fantasy, Avventura
ANNO: 2012  DATA: 11/07/2012
NAZIONALITA': USA
REGIA: Rupert Sanders

Freerunner - Corri o muori
(Freerunner)
GENERE: Azione
ANNO: 2011  DATA: 13/07/2012
NAZIONALITA': USA

Lo spaventapassere

(The Sitter)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011  DATA: 13/07/2012
NAZIONALITA': USA
REGIA: David Gordon Green

mercoledì, luglio 11, 2012

The Amazing Spider-Man

Crederete che un uomo può volare. Lo strillo era quello che nel lontano 1978 accompagnava la campagna pubblicitaria del "Superman" firmato Richard Donner. Un evento epocale destinato a rivoluzionare gli Heros Movie per il realismo degli effetti utilizzati. A più di vent'anni di distanza, con la tecnica che ha fatto passi da gigante "The Amazing Spider-Man" rappresenta il paradosso di una tendenza che è andata sempre più accentuando la distanza tra le possibilità di effetti speciali fantasmagorici e la penuria di idee in grado di saperli interpretare. Il risultato è quindi un film come quello di Marc Webb messo a capo di un impresa impossibile e superflua, che si traduce nella pretesa di azzerare il lavoro di Sam Raimi, autore di una ragno trilogia oltremodo celebrata, ricominciando a raccontare la storia di Peter Parker come se nulla fosse mai successo. Almeno sugli schermi cinematografici. Un restyling che pur mantenendo invariati gli eventi ed i significati legati all'acquisizione dei superpoteri ed alle conseguenze che essi comportano nella vita di uno studente un pò nerd, come di fatto Parker è prima dello straordinario evento, colloca la storia in un contesto dove i colori pop e le atmosfere retrò della prima ora vengono sostituite da una contemporaneità in cui l'asetticità della scienza e delle sue scoperte è in contrasto con i chiari scuri di un esistenza impregnata di sensi di colpa ed inadeguatezza, distribuiti a buoni e cattivi senza distinzione di sorta. Dal protagonista su cui la storia calca la mano facendone seppur indirettamente il responsabile (molto più che nella versione di Raimi) della morte dello zio Ben all'avversario, il dottor Connors/Lizard, oscuramente legato alla scomparsa del padre del ragazzo, e come Parker frenato nella propria indole da una diversità condizionata dal dettaglio fisico. Così se la mancanza di un braccio spinge lo scienziato alla follia, è la gracilità fisica rispetto all'esuberanza dei compagni, e di Flash Thompson in particolare, a limitare la socialità del giovane studente. Con queste premesse "The Amazing Spider-Man" perde un po' della sua mitologia, ma la vicinanza che acquisisce rispetto alla contemporaneità (New York ripresa spesso di notte e la partecipazione collettiva al dramma dell'eroe rientrano chiaramente nella dimensione post 11 settembre)c'è lo rendono sicuramente più umano.


Ispirato alla lezione iconografica del grande (disegnatore) Mac Farlane, — la zazzera da manga ed il corpo obliquamente segaligno sono sicuramente una sua eredità — il film di Marc Webb è brillante nella scelta di un attore (Andrew Garfield) esteticamente simile alla matrice fumettistica, risultando più interessante quando si sofferma sul privato dei suoi protagonisti, con scene come quella in cui un sognante Parker si lascia andare ad una danza in skateboard dentro un magazzino portuale o in quelle che rendono la novità del cambiamento con scene da splap stick comedy in cui Peter incapace di dosare la propria forza distrugge qualsiasi cosa gli passi per le mani, che in quelle dedicate all'azione -eccezion fatta per il passaggio esilarante in cui Stan Lee appare sullo schermo senza accorgersi dello scontro tra le sue creature — abbastanza convenzionale, e peraltro sostenuta da un villain, Lizard, un pò troppo sottotono. Se il parametro di giudizio è il puro intrattenimento allora l'obiettivo è centrato. Se invece nella bilancia delle opinioni conta il peso di un urgenza praticamente inesistente, allora l'intera operazione, e con esso il suo valore sconfina nelle ragioni del marketing e degli affari,dove peraltro, bisogna dirlo, trovano posto tutti i film targati Marvel

martedì, luglio 10, 2012

The Way Back

Peter Weir, regista australiano di lungo corso e con pellicole di grande slancio immaginifico ed emozionale, a sette anni dal suo ultimo lavoro (“Master and Commander: The Far Side of the World”), ci offre una storia (da un fatto vero) dove la fuga è il contraltare dell’inseguimento della natura sull’uomo. Un filo conduttore continuo e mai interrotto, un lungo corridoio di sguardi e di finestre sul mondo dove ogni balcone ci persuade del bello e dell’indefinibile in simbiosi con le schiumose mostruosità e le trappole vitali. La natura scandisce e rigurgita ogni fotogramma del suo cinema con metafore visive e scritture fagocitanti tutto mentre l’uomo vuole a tutti i costi indagare (“Picnic ad Hanging Rock”), interagire (“Gallipoli”), nascondersi (“The Last Wave”), superarsi (“Master and Commander…”) e, non per ultimo, estraniarsi e fingere (“L’attimo fuggente” e “The Truman Show “).    “The way back” è la prova inconfutabile della veriticidità dell’immaginario di Weir: qualsiasi racconto deve partire da un assunto concreto (anche se deriva da antefatti leggendari o da passaparola) e da avvenimenti che possono aver segnato la storia (quella minima e imperscrutabile di Weir si ciba per rendere il rapporto ambiente-uomo silente e forte, stupito e angosciante). Pellicola di genere personale che diventa genere maestro per chi soggiace al destino e si perpetua nelle grinfie, ora dolci e ora dolenti, di un paesaggio dorato e ostile. Film dedicato a chi è riuscito a fare un ‘lunga marcia’ oltre il fino spinato fino all’arrivo dell’agognata libertà quella di un confine tolto dall’immaginario di stilistiche ovvietà e di orizzonti allineati; l’inquadratura non è mai da incorniciare e giammai un pretesto per un mero documentario di siti e di avamposti dimenticati e soggiogati dalla macchina da presa. E sì che la fotografia e il colore ricoprono in un velo sapiente lo scorrere lieve e addensato di ogni fotogramma e l’ostilità ‘naturae’ nasconde un’agognata speranza (‘è un miraggio’) e una dolce rinfresco (‘acqua, acqua…!’) come sempre il nemico, l’uomo che non conosci, ridà vita e leggerezza ad un cammino impossibile e ad un arrivo mai visto.
   Il 19 novembre 1939 il tenente Janusz (Jim Sturgess) dell’esercito polacco viene arrestato a Pinsk; viene denunciato come spia dalla moglie (una tortura è una confessione) e condannato ad anni di lavori forzati in un gulag siberiano (l’anno dopo). La sua permanenza in un simile posto (sperduto in tutti i sensi) non  gli fa veni re meno il pensare ad una fuga che sembra impossibile. Insieme a dei carcerati l’dea si  realizza  in   un  modo disperato e  insperato  (siamo nel 1941): i suoi ‘amici’ Khabarov (Mark Strong), Mr. Smith (Ed Harris) e Valka (Colin Farrell) sono quelli più ostinati nella loro ‘follia’ (la fuga dal gulag diventa un filo spinato reciso e nessun compiacimento ad un film di genere). Il gruppo deve arrivare al lago Baikal (una prima meta), poi la ferrovia transiberiana e la Mongolia (e il deserto del Gobi) per arrivare, dopo il Tibet, in India. Una ‘lunga marcia’ di oltre seimila chilometri quando il destino porta il gruppo (a cui si era aggiunta Irena –Saoirse Ronan-, prima forzatamente e poi benvoluta) alla libertà (sono rimasti in quattro). E il saluto ai compagni di fuga morti viene sempre ‘assorbito’ con una frase di consolazione umana: “almeno è morto libero”. “Il passaporto?”, “ Non l’abbiamo”, “Venite…Benvenuti in India” che diventa il paradiso in terra per chi non aveva mai visto il sollievo del bello.
   Il film è tratto dal libro di Slavomir Rawicz “The Long Walk” (La lunga marcia è scritto nei titoli di coda ma ripubblicato nel 2011 col titolo italiano ‘Tra noi e la libertà’): l’autore è stato ufficiale dell’esercito polacco prima dell’arresto dai russi per spionaggio (il libro uscì nel 1956). La sceneggiatura è dello stesso regista.
   Si deve dire che la peculiarità principe di Peter Weir è di rappresentare il vero (non certa un destino finto e volutamente ‘pompato’) e di alimentare nello spettatore la curiosità dei vivi che non demordono e della libertà come sogno sentito e non inerme. La natura compiace il regista nel disincanto totale delle immagini dove il filtro è solo dei luoghi (molti ambienti sono stati girati in altri paesi dell’est europeo) e nell’avvolgente rispetto che di essa si deve avere (quando tutto sembra sollievo e quando tutto sembra fatica). Il set non è porsi contro l’inferno da attraversare ma è addomesticare (per quanto possibile) il senso di battaglia dell’uomo anzi lasciare la spada per ‘accumulare’ forzatamente la tempesta e andare oltre per un destino (da conquistare). Libertà e vita, avversione e morte: nel cinema vero del regista australiano gli opposti paiono toccarsi e interagire in un mondo sperduto, lontano e senza vera luce. Sembra che il circolo (‘vizioso’) del film come rappresentazione sia in Weir una fuga che ritorna: dal falso che diventa vero (“Picnic ad Hanging Rock”), al falso che è finto (“The Truman Show”) fino al vero che vuole la verità (“Gallipoli”, “Master and Commander…” fino a quest’ultima pellicola). Il cinema ha delle scappatoie più o meno finte ma il reale (o di quello che di esso si può raccontare) è pur sempre una buona idea e ciò che se ne estranea è solamente un gioco per togliersi il peso di una metafora troppo pesante (il destino si chiude e si schiude a suo piacimento). In un susseguirsi di paesaggi, avversità, disastri, saturazioni ed orizzonti, il set pare un accumulo di vuoti atti a riempirsi non una  somma giacente e piacente (allo spettatore). Una ripresa in stile sempre ad altezza uomo-natura mai a domare il duo e a soverchiare il reale col finto. Una fuga  dagli eventi, una fuga con gli eventi, una fuga dal set (Truman) e una lunga fuga (Janusz).
   Il cast dà una prova di carattere e di immersione nei personaggi: un bravo Colin Farrell riesce a appropriarsi dei panni di un criminale, un grande Ed Harris che dà al personaggio di Mr. Smith vigore e giusta stranezza e tutti riescono a dare una valenza veritiera e convincente (nei nomi di Janusz e Irena). La fotografia di Russell Boyd non diventa mai un effetto turistico e sdolcinato ma ci consegna un pieno di colori scambiali con gli umori (e gli umorali) della natura ben riposta e nascosta; le musiche (di Burckhard von Dallwitz) sono carezzevoli al momento giusto e con lunghe pause dove il silenzio è pieno di segni dei luoghi e dei loro segreti. La regia di Peter Weir si insinua e fa sua la vitalità di una natura che sembra a riposo: come sempre la tecnica giacente e rarefatta dell’australiano riesce a coinvolgere e a scandire i tempi delle immagini.
(recensione di loz10cetkind)
   Voto: 7½.

lunedì, luglio 09, 2012

Un amore di gioventù

L'amore tradito e poi riconquistato un poco alla volta, attraverso le sofferenze del cuore, le indifferenze degli altri ed il ricordo di una presenza che non si può dimenticare. Procede così l'ultimo film di questa regista francese dal nome di ascendenze scandinave. Incomincia da una ferita che sanguina fin da subito e non finira mai di farlo fino in fondo, perchè la prima storia importante non si potrà mai cancellare. Eppure "Un amore di gioventù" è anche un film che riesce a dare speranza, a non impedire alle persone che lo guardano di cancellare i loro sogni di felicità e di condivisione, perchè se è vero che attraverso il personaggio di Camille la regista mette al centro della storia i tormenti di una giovanissima Werther in gonnella, d'altra parte ci fa vedere come sià possibile ricominciare a vivere senza rinnegare quella parte di se che un tempo è stata felice, e può tornarlo ad essere. Così accanto alle immagini cesellate in una città fredda ed anonima si ritagliano uno spazio sufficientemente adeguato scene campestri in cui l'immersione nella natura assolata e silenziosa diventano la maniera per liberarsi dalle angosce del cuore.

E se alcune situazioni del film appartengono indiscutibilmente all'età giovanile, quando ancora una piccola sfumatura di disattenzione da parte dell'oggetto amato può diventare la scintilla di una tragedia di inconsolabili proporzioni, allo stesso tempo la vicenda di Camille (Lola Creton veramente straordinaria) e Sullivan appartiene nei suoi risvolti più profondi all'umanità intera senza distinzioni di sesso e di età. Certamente alla maniera di molto cinema francese, soprattutto quello di alto lignaggio (Truffaut, Rohmer) Mia Hansen Love fa parlare i suoi personaggi con un tono spontanemante forbito e ripulito da qualsiasi mancanza di buon gusto, così come nella scelta di attori il cui volto sembra appartenere a certi ritratti immortalati dalla penna degli scrittori e dal pennello dei pittori favorisce un empatia immediata e di facile presa. Ma sono queste, piccole scappatoie che non rompono l'incantesimo di un film quasi perfetto e che si porta dietro la malattia ed insieme gli anticorpi per continuare a vivere nonostante tutto, o forse proprio per quello.

sabato, luglio 07, 2012

W.E

Il personaggio di Wallis Simpson, la donna che lasciò gli inglesi senza il loro re è di quelli che piacciono alla ragazza italoamericana. Umili origini e determinazione da vendere Wallis fu in grado di realizzare  quello che altre donne anche più belle ed importanti di lei non riuscirono a fare, e cioè abbattere le convenzioni ed il lignaggio di una tradizione millenaria per coronare il sogno d'amore con il suo regale compagno. Una scalata al successo lontana dai palcoscenici dello spettacolo e dell'intrattenimento ma simile, nell'immaginario di un sogno molto americano, a quello della giovane giovane sconosciuta che più di ventanni fa si mise in testa, riuscendoci, di diventare un icona del panorama musicale e non solo.

Un transfert che a Madonna era già riuscito con l'interpretazione di un altra prima donna venuta dal nulla ed assurta agli altari della cronaca come Evita Peron. Nel film musicale di Alan Parker come in quello da lei diretto in coabitazione con Alex Keshishan ritroviamo quel gusto decadente ed un pò algido che si contrappone all'anima più selvaggia di un artista sempre attenta a rivitalizzare la propria stella. Così pur nella struttura binaria che fa coincidere  passato e presente attraverso il personaggio di Wally Winthrop una donna insoddisfatta del proprio matrimonio ed ossessionata dalla figura della romantica donna americana, non è difficile intuire che l'interesse di Madonna sia tutto dalle parti di Albione, e che i tormenti melò di una moglie contemporanea siano più che altro il modo che la sceneggiatura ha trovato per poter parlare dell'aristocratica protagonista. Un ritratto onesto che però non diventa mai tale perchè mancante degli approfondimenti necessari a costruire il personaggio che sta dietro alla storia. Quello che conta per Madonna è il fatto di potersi approppiare di un mondo che ancora la respinge ricordandogli le proprie origini ed a cui risponde con una messinscena che non subisce alcuna sudditanza, e che fa coincidere la dicotomia temporale nell'atmosfera patinata e sospesa in cui il film è calato, con le figure che l'attraversano, silenti ed ansiose come fantasmi su uno sfondo di ricordi e grande lusso. Madonna ci dice che l'amore è necessario ma non deve mai rinunciare alla propria identità. Un femminismo contemporaneo che si ammanta di seduzione ma anche di spietata lucidità come testimoniano certi passaggi del film, in cui Wallis deve far ricorso ad un pragmatismo tout court per resistere agli imprevisti della vita. Se l'essere umano è solo la donna lo è ancor di più. La carriera e le scelte di Madonna potrebbero essere il manuale di un esistenza che sa fare a meno di inutili compagnie.

venerdì, luglio 06, 2012

Quell'idiota di nostro fratello

Tanto rumore per nulla. Un affermazione di matrice shakesperiana sorge spontanea al termine della proiezione di un film come “Quell’idiota di mio fratello”. Prodotto indipendente con un cast oltre la media, il film in questione è un palloncino che si sgonfia quasi subito per mancanza di un idea trainante. Se infatti l’intento fosse quello di dimostrare la validità dell’assunto che sta alla base del film, e cioè che la spontanea genuinità delle persone semplici ed in particolare di quella un po’ troppo programmatica di Ned, sorta di freakettone arrivato fuori tempo massimo per un attualità che ha ormai digerito le utopie sessantottine, è preferibile al conformismo della gente benpensante, allora ”Quell’idiota di mio fratello” avrebbe bisogno di una cattiveria che la storia messa in scena da Jesse Peretz non prevede. Prendendo in prestito situazioni palesemente clonate da sit-com e serie televisive, con le varie coppie sistematicamente immersi in battibecchi e riconciliazioni, la sceneggiatura costruisce un universo sentimentale ed emotivo precario, in cui le relazioni tra i vari personaggi – Ben ha tre sorelle che si districano tra amori, incomprensioni e tradimenti – raggiungono il punto di non ritorno a causa della maldestra presenza dello sciroccato protagonista, il quale con una verve da Drugo di mezz’età si intrufola nelle loro vite portandone a galla le contraddizioni con una serie di misunderstanding che fanno leva sulla mancanza di malizia del protagonista. Uno schema collaudato, come sempre giocato sui contrasti caratteriali, ed indirizzato ad un intrattenimento agrodolce che la versatilità di attori abituati al riso ed al pianto dovrebbe favorire. Ed invece a parte una scorrevolezza che rasenta l’inconsistenza e la curiosità nei confronti di attrici come Emily Mortimer e Zoey Deschanel, solitamente giudiziose nelle loro rare apparizioni il film può contare solo sul faccione inebetito di Paul Rudd non nuovo in situazioni da “scemo e più scemo”.   

giovedì, luglio 05, 2012

Il cammino per Santiago







“Il cammino per Santiago” (The Way, 2010) è la settima regia
dell’attore e sceneggiatore Emilio Estevez. Quando un’opera chiude il
cerchio familiare dall’origine galiziana del nonno (a cui il film è
dedicato nei titoli di coda) fino al nipote che dirige come un diario
il cammino di un’esperienza e la vita dei padri, il resoconto è sempre
difficile da stilare ed è ancor più arduo separare il fatto personale
e quello che è un film da distribuire e da sintonizzare col pubblico.
Una pellicola girata con basso profilo, una certa libertà e visuale
sull’orizzonte non certo guardando in modo drastico il senso di
appartenenza e le mura concilianti(ri) della Chiesa. Una sincerità di
fondo che pervade questo lungo percorso seguendo le antiche vie che
portavano i fedeli pellegrini per centinaia di chilometri fino al
Santuario di Santiago de Compostela (l’antico e lungo cammino che
secondo la tradizione portò San Giacomo, l’apostolo fedele di Gesù,
fino alla Spagna per diffondere il Vangelo). Estevez si pone a livello
superficiale senza affondi oltre misura e non (si) concede voli
pindarici nella sua regia: tenue, leggera ma nello stesso tempo
veritiera ed efficace. Un modo di porre sereno e scanzonato nel
raccontare il cammino di un padre che cerca la sua vita tra un
antenato e un figlio morto. Natura, paesi, locande, ritrovi,
dormitori, litigi, pace, incomprensioni, strette di mano, bugie,
vuoti, mestizia e sorriso: ecco cosa può avvenire in un incontro di
popoli lungo una strada dentro il proprio animo. Compresso di
estensioni temporali la voce della vita che ‘non si sceglie ma si
vive’ dice il figlio al padre si riverbera con forza affettiva oltre
le onde tempestose dell’Oceano.
Il medico oculista Tom Avery (Martin Sheen) è in California intento,
nella pausa lavoro, a disputare una buona partita di golf. Ma il suo
telefonino squilla e quello che arriva è una tragica notizia: la morte
del figlio Daniel (Emilio Estevez) sui Pirenei durante il cammino per
Santiago. Nell’intento di riportare il corpo a casa, il padre si
ritrova in Francia a fare scelte lontane dal suo pensiero fino a ieri.
Fa cremare il figlio e porta le sue ceneri con sé con l’intenzione di
completare il pellegrinaggio di Daniel e di lasciare il ricordo del
figlio in ogni suo passaggio. Un cammino interiore di grande umanità
dove lo spirito si apre con altri amici a fianco: un olandese di
Amsterdam (Joost che cerca di ritrovare il peso forma), uno scrittore
irlandese (Jack che cerca di ritrovare l’ispirazione per un nuovo
libro), una signora canadese (Sarah che cerca di perdere il vizio del
fumo e di ritrovare serenità). Tutti e quattro si perdono e si
chiamano in un gioco del racconto superfluo e utile, ridanciano e di
grande speranza. Ciascuno risponde in modo veritiero del proprio paese
di origine.
Ogni cosa detta opera un distacco narrativo dalle pochezze umane e
battute di ogni sorta: la profondità della vita viene a galla con
furbizie e giusti modi. Un chiaroscuro interiore fa da contrasto e
paciere a luoghi antichi, radure arse, colori assorti e azzurri
annuvolati. E il guardare dall’alto ogni nuova visuale ridà coraggio e
spinta per il traguardo agognato. Perché i picchi della Chiesa di
Compostela danno un nuovo senso e una vitalità che sembrava assopita.
Il figlio Daniel assiste e fa compagnia al padre in ogni momento di
stanca e di sguardo come assenso. Il film entra nello spettatore con
una giusta cadenza narrativa e i personaggi riescono a destare
partecipazione con un tragitto di vita. Forse la parte finale può
lasciare qualche dubbio sull’eccessivo modo di rappresentare un
arrivo. Poco si deve aggiungere (per personalità e stile di un film) a
quanto già si osserva in superficie (e non solo). Non si deve per
forza di cose assecondare ogni voglia di un minuto in più che nulla
toglie a quello già detto. D’altronde il metabolizzare una cara
perdita e in aggiunta se è un figlio non è solo una successione di
immagini e di persone (e quindi difficilmente rappresentabile) ma
incontri che non t’aspetti e l’avvicinarsi all’incontro che non ha mai
pensato. Sembri impreparato, sembri lontano, sembri stanco, sembri
fuori, sembri stupido, sembri ignaro invece il destino amarissimo
riserva sorprese che vanno oltre il nostro misero quotidiano e la
scoperta non è (solo) religiosa (‘qui la religione non c’entra
niente’, ‘molti cattolici non praticanti fanno il cammino di
Santiago’) ma di incontri, di storie e di toccare la vita. Un film che
‘lava’, senza grandi salomonici discorsi, il gusto di uno sguardo e la
bellezza di visi che non conoscevi. E la metastasi fisica si decompone
e si annienta di fronte ad un’interiorità semplice e plasmante mentre
la diaspora delle genti è solo negli scritti e nella storia. Tutti si
ritrovano a recitare una preghiera (credenti e non) per depositare un
sassolino di memoria e di passaggio sotto un(il) crocevia del cammino
(in tutti i sensi) mentre un uomo va avanti per capire(si). E anche
gli zingari (forse con buonismo a lettura esemplificata) si adoperano
nel terreno ‘pellegrino’ con accoglienza, festa e simbolismi da
raccontare. E il buon viaggio è di tutti: la distinzione è dentro
l’uomo, la separazione è dirompente ma ‘il cammino’ può dischiudere
ogni nostro confine.
La musica accompagna tutto il percorso dei pellegrini e, certe volte.
Tende a nascondere (se non soverchiare) il sottotesto e il vero
silenzio (che in certi casi dovrebbe annullare ogni sortita
estemporanea e non del nostro vivere quotidiano). Un’accortezza del
genere avrebbe dato al film una forza ulteriore e un vigore interiore
ben oltre a quello che il testo indica da subito). La colonna sonora
(molte le tracce) è stata composta da Tyler Bates (tra l’altro
batterista del gruppo Jbot) con l’inserimento di pezzi musicali di
richiamo (di vari generi e generazioni).
Da evidenziare la buona scelta dei luoghi e i fuori campo (un’ariosità
sfuggente) che bene indicano certi movimenti di macchina. Da ricordare
che le aree agricole, i boschi, i prati, i sentieri e le vie dei paesi
si raccordano bene in un montaggio quasi consequenziale senza
esagerare nella finzione-testuale (con una fotografia scolorata e
quasi dimessa).
Martin Sheen recita (o per meglio dire si presenta) in un a tu per tu
diretto e senza filtri: è se stesso e non deve immedesimarsi in
qualcuno che non gli appartiene. E’ quindi fuori luogo collegare
questo suo lavoro ad altri personaggi (calcati e ipernarrati) che sono
altro e di altri. Il gruppo del cast, Deborah Kara Hunger, James
Nesbitt e Yorick van Wageningen (i suoi amici di viaggio) riescono a
tenere botta e a dare prova dignitosa e riuscita. Emilio Estevez
(Daniel) si ritaglia sequenze di pochi attimi (flashback col padre) e
brevi ‘ricordi’ sul cammino. La regia dello stesso Estevez riesce a
tenere il film fino alla fine (senza eccessivi sbalzi e facili
sussulti –su questo si può dargliene atto-): sua è anche la
sceneggiatura (il film è ispirato al libro di Jack Hitt, che guarda in
chiave moderna il ‘mistico cammino di Santiago’ che fin dall’epoca
medievale la tradizione cristiana si è nutrita).
Da rammentare che un film che tratta simili argomenti deve avere lo
spettatore con una certa lunghezza d’onda e un approccio giusto per
coglierne il significato. Questo va al di là di ogni singola
riflessione e pensiero, credenza e umanità varia. Seguire il passo del
diario: è quello che il racconto vuole dare (e il cammino di una fede
o di significato profondo o di altezze non raggiunte sono solo
atteggiamenti personali che delle immagini proiettano a noi con
depositi in animo ora inermi, ora fugaci e ora tremanti). ‘Buen
camino’.
Voto 7.
(recensione di loz10cetkind)

Kino Village Estate 201


Roma – programma 1 – 15 luglio 2012

c/o Roma Vintage - Parco di San Sebastiano 2
(Piazzale Numa Pompilio) – ROMA


Dall’omaggio a Giuseppe Bertolucci alla finale degli Europei alle caverne di Werner Herzog, passando per le feste del Premio Solinas e dei 100 autori, senza dimenticare Kitano, Sion Sono e tanti altri..

La programmazione – anche su www.ilkino.it dei primi 15 giorni di luglio prevede un Omaggio a Giuseppe Bertolucci, grande del nostro cinema recentemente scomparso (3 luglio), con la proiezione di due suoi gioielli: Berlinguer ti voglio bene, interpretato da Roberto Benigni e Oggetti Smarriti, con Mariangela Melato e Bruno Ganz. Continuano  gli incontri con i giovani autori: questa volta è il turno del regista Lorenzo Vignolo e dello sceneggiatore Stefano Sardo che presenteranno Workers (9 luglio) e del regista Carlo Virzì che presenterà I più grandi di tutti (11 luglio).
 
Il 1 luglio serata dedicata al calcio: alle 20:45 sarà proiettata la finale degli Europei (ingresso gratuito) su maxischermo, e a seguire, dopo i due recenti sold out, il mockumentary Il Mundial Dimenticato di Garzella e Macelloni. Quindi, tanto cinema internazionale, nel segno di film mai visti (o quasi) di grandi maestri.Il 2 luglio Outrage di Takeshi Kitano, il 5 luglio ancora Giappone con Cold fish, di Sion Sono, presentato a Venezia 2010 e mai uscito in sala. Il 6 luglio è la volta di Werner Herzog con il suo Cave of forgotten dreams, esplorazione documentaria del regista tedesco nella caverna francese Chauvet, che contiene 500 pitture rupestri risalenti a 32mila anni fa. Il 9 e 13 luglio torna The Future di Miranda July, che il Kino distribuisce in esclusiva per l’Italia, mentre il 7 e l'8 luglio lo straordinario Bus 174, documentario brasiliano vincitore di 23 premi nel mondo, tra cui un Emmy Award che indaga il mondo delle favelas partendo dalla storia di un giovane che prese in ostaggio un autobus a Rio de Janeiro nell’ottobre del 2002.

L'8 e il 14 luglio, sbarca al Kino Village, Wong-Kar Wai con Ashes of Time, in una versione redux mai vista al cinema in Italia. Il 12 e il 15 luglio un film da riscoprire: L'Onda di Gansel, splendida riflessione sui meccanismi del potere in una classe di liceo tedesca. Il 15 luglio gran finale con Abstracta Film Festival, che presenta al Kino i corti di Norman McLaren, genio del cinema di animazione. Da non dimenticare poi due feste ospitate dallo spazio Kino Village: il 4 luglio il Premio Solinas (con proiezione dei cortometraggi vincitori del Talenti in corto), e il 10 luglio i 100 autori, con proiezione a sorpresa di capolavori del cinema italiano.

 
Tutti i film internazionali sono in lingua originale con sottotitoli in italiano.

Biglietto singolo: 5 euro

Carnet abbonamento: 5 film a 20 euro
www.ilkino.it
info@ilkino.it

PROGRAMMA KINO VILLAGE  - 1- 15 luglio 2012

Domenica 1 luglio
20.45 - Finale Europei di calcio (ingresso gratuito)
23.00  Il Mundial Dimenticato - L.Garzella, F.Macelloni (Ita/Arg, 2012.93')
 
Lunedì 2 luglio
21.00 Outrage - T.Kitano (Gia, 2010.109')
 
Martedì 3 luglio. Omaggio a Giuseppe Bertolucci
21:00 Berlinguer ti voglio bene - G.Bertolucci (Ita, 1977. 97'
23:00 Oggetti Smarriti - G.Bertolucci (Ita, 1980. 95')
 
Mercoledì 4 luglio: Festa Premio Solinas
21.00 Proiezione corti "Talenti in corto"(ingresso gratuito)
 
Giovedì 5 luglio
21.00 Cold Fish - S.Sono (Gia, 2010.144')
 
Venerdì 6 luglio
21.00 Cave of forgotten dreams - W.Herzog (Fra, 2010.95')
 
Sabato 7 luglio
21.00 Bus 174 - J.Padilha (Doc. Bra, 2002.150')
 
Domenica 8 luglio
21.00 Ashes of time - Wong-kar Wai (HK, 1994.94')
23.00 Bus 174 - J.Padilha (Doc. Bra, 2002.150')
 
Lunedì 9 luglio
21.00  Workers - L.Vignolo (Ita, 2012.105')
(il regista e lo sceneggiatore saranno presenti in sala)
23.00 The Future - M.July (Usa, 2011.98')
 
Martedì 10 luglio: Festa 100 Autori
21.00 Film a sorpresa scelto da 100autori
23.00 Film a sorpresa scelto da 100autori
 
Mercoledì 11 luglio
21.00 I più grandi di tutti - C.Virzì (Ita, 2012. 100')
(il regista Carlo Virzì sarà presente in sala) 
 
Giovedì 12 luglio
21.00  L'onda - D.Gansel (Ger, 2008.101')
 
Venerdì 13 luglio
21.00 The Future - M.July (Usa, 2011.98')
 
Sabato 14 luglio
21.00 Ashes of time - Wong-kar Wai (HK, 1994.94')
 
Domenica 15 luglio: Abstracta Film Festival presenta
21.00 Incontro con con A.Bastiancich, P.Cardoni, F.Pizzuto e V.Domenici
21:30 Focus on Norman McLaren (selezione di corti
23.00 L'onda - D.Gansel (Ger, 2008.101')

Per informazioni:cell 366 4571726
info@ilkino.it
www.ilkino.it

Film in sala dal 6 luglio 2012

Quell'idiota di nostro fratello
(Our Idiot Brother)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011  DATA: 04/07/2012
NAZIONALITA': USA
REGIA: Jesse Peretz

The Amazing Spider-Man
(The Amazing Spider Man)
GENERE: Azione, Fantascienza, Avventura
ANNO: 2012  DATA: 04/07/2012
NAZIONALITA': USA
REGIA: Marc Webb

Cena tra amici
(Le prénom)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012  DATA: 06/07/2012
NAZIONALITA': Belgio, Francia
REGIA: Alexandre de la Patellière, Matthieu Delaporte

The Way Back

(The Way Back)
GENERE: Drammatico, Storico
ANNO: 2010  DATA: 06/07/2012
NAZIONALITA': USA
REGIA: Peter Weir

Womb

(Womb)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2012  DATA: 06/07/2012
NAZIONALITA': Germania, Francia, Ungheria
REGIA: Benedek Fliegauf