“Il cammino per Santiago” (The Way, 2010) è la settima regia
dell’attore e sceneggiatore Emilio Estevez. Quando un’opera chiude il
cerchio familiare dall’origine galiziana del nonno (a cui il film è
dedicato nei titoli di coda) fino al nipote che dirige come un diario
il cammino di un’esperienza e la vita dei padri, il resoconto è sempre
difficile da stilare ed è ancor più arduo separare il fatto personale
e quello che è un film da distribuire e da sintonizzare col pubblico.
Una pellicola girata con basso profilo, una certa libertà e visuale
sull’orizzonte non certo guardando in modo drastico il senso di
appartenenza e le mura concilianti(ri) della Chiesa. Una sincerità di
fondo che pervade questo lungo percorso seguendo le antiche vie che
portavano i fedeli pellegrini per centinaia di chilometri fino al
Santuario di Santiago de Compostela (l’antico e lungo cammino che
secondo la tradizione portò San Giacomo, l’apostolo fedele di Gesù,
fino alla Spagna per diffondere il Vangelo). Estevez si pone a livello
superficiale senza affondi oltre misura e non (si) concede voli
pindarici nella sua regia: tenue, leggera ma nello stesso tempo
veritiera ed efficace. Un modo di porre sereno e scanzonato nel
raccontare il cammino di un padre che cerca la sua vita tra un
antenato e un figlio morto. Natura, paesi, locande, ritrovi,
dormitori, litigi, pace, incomprensioni, strette di mano, bugie,
vuoti, mestizia e sorriso: ecco cosa può avvenire in un incontro di
popoli lungo una strada dentro il proprio animo. Compresso di
estensioni temporali la voce della vita che ‘non si sceglie ma si
vive’ dice il figlio al padre si riverbera con forza affettiva oltre
le onde tempestose dell’Oceano.
Il medico oculista Tom Avery (Martin Sheen) è in California intento,
nella pausa lavoro, a disputare una buona partita di golf. Ma il suo
telefonino squilla e quello che arriva è una tragica notizia: la morte
del figlio Daniel (Emilio Estevez) sui Pirenei durante il cammino per
Santiago. Nell’intento di riportare il corpo a casa, il padre si
ritrova in Francia a fare scelte lontane dal suo pensiero fino a ieri.
Fa cremare il figlio e porta le sue ceneri con sé con l’intenzione di
completare il pellegrinaggio di Daniel e di lasciare il ricordo del
figlio in ogni suo passaggio. Un cammino interiore di grande umanità
dove lo spirito si apre con altri amici a fianco: un olandese di
Amsterdam (Joost che cerca di ritrovare il peso forma), uno scrittore
irlandese (Jack che cerca di ritrovare l’ispirazione per un nuovo
libro), una signora canadese (Sarah che cerca di perdere il vizio del
fumo e di ritrovare serenità). Tutti e quattro si perdono e si
chiamano in un gioco del racconto superfluo e utile, ridanciano e di
grande speranza. Ciascuno risponde in modo veritiero del proprio paese
di origine.
Ogni cosa detta opera un distacco narrativo dalle pochezze umane e
battute di ogni sorta: la profondità della vita viene a galla con
furbizie e giusti modi. Un chiaroscuro interiore fa da contrasto e
paciere a luoghi antichi, radure arse, colori assorti e azzurri
annuvolati. E il guardare dall’alto ogni nuova visuale ridà coraggio e
spinta per il traguardo agognato. Perché i picchi della Chiesa di
Compostela danno un nuovo senso e una vitalità che sembrava assopita.
Il figlio Daniel assiste e fa compagnia al padre in ogni momento di
stanca e di sguardo come assenso. Il film entra nello spettatore con
una giusta cadenza narrativa e i personaggi riescono a destare
partecipazione con un tragitto di vita. Forse la parte finale può
lasciare qualche dubbio sull’eccessivo modo di rappresentare un
arrivo. Poco si deve aggiungere (per personalità e stile di un film) a
quanto già si osserva in superficie (e non solo). Non si deve per
forza di cose assecondare ogni voglia di un minuto in più che nulla
toglie a quello già detto. D’altronde il metabolizzare una cara
perdita e in aggiunta se è un figlio non è solo una successione di
immagini e di persone (e quindi difficilmente rappresentabile) ma
incontri che non t’aspetti e l’avvicinarsi all’incontro che non ha mai
pensato. Sembri impreparato, sembri lontano, sembri stanco, sembri
fuori, sembri stupido, sembri ignaro invece il destino amarissimo
riserva sorprese che vanno oltre il nostro misero quotidiano e la
scoperta non è (solo) religiosa (‘qui la religione non c’entra
niente’, ‘molti cattolici non praticanti fanno il cammino di
Santiago’) ma di incontri, di storie e di toccare la vita. Un film che
‘lava’, senza grandi salomonici discorsi, il gusto di uno sguardo e la
bellezza di visi che non conoscevi. E la metastasi fisica si decompone
e si annienta di fronte ad un’interiorità semplice e plasmante mentre
la diaspora delle genti è solo negli scritti e nella storia. Tutti si
ritrovano a recitare una preghiera (credenti e non) per depositare un
sassolino di memoria e di passaggio sotto un(il) crocevia del cammino
(in tutti i sensi) mentre un uomo va avanti per capire(si). E anche
gli zingari (forse con buonismo a lettura esemplificata) si adoperano
nel terreno ‘pellegrino’ con accoglienza, festa e simbolismi da
raccontare. E il buon viaggio è di tutti: la distinzione è dentro
l’uomo, la separazione è dirompente ma ‘il cammino’ può dischiudere
ogni nostro confine.
La musica accompagna tutto il percorso dei pellegrini e, certe volte.
Tende a nascondere (se non soverchiare) il sottotesto e il vero
silenzio (che in certi casi dovrebbe annullare ogni sortita
estemporanea e non del nostro vivere quotidiano). Un’accortezza del
genere avrebbe dato al film una forza ulteriore e un vigore interiore
ben oltre a quello che il testo indica da subito). La colonna sonora
(molte le tracce) è stata composta da Tyler Bates (tra l’altro
batterista del gruppo Jbot) con l’inserimento di pezzi musicali di
richiamo (di vari generi e generazioni).
Da evidenziare la buona scelta dei luoghi e i fuori campo (un’ariosità
sfuggente) che bene indicano certi movimenti di macchina. Da ricordare
che le aree agricole, i boschi, i prati, i sentieri e le vie dei paesi
si raccordano bene in un montaggio quasi consequenziale senza
esagerare nella finzione-testuale (con una fotografia scolorata e
quasi dimessa).
Martin Sheen recita (o per meglio dire si presenta) in un a tu per tu
diretto e senza filtri: è se stesso e non deve immedesimarsi in
qualcuno che non gli appartiene. E’ quindi fuori luogo collegare
questo suo lavoro ad altri personaggi (calcati e ipernarrati) che sono
altro e di altri. Il gruppo del cast, Deborah Kara Hunger, James
Nesbitt e Yorick van Wageningen (i suoi amici di viaggio) riescono a
tenere botta e a dare prova dignitosa e riuscita. Emilio Estevez
(Daniel) si ritaglia sequenze di pochi attimi (flashback col padre) e
brevi ‘ricordi’ sul cammino. La regia dello stesso Estevez riesce a
tenere il film fino alla fine (senza eccessivi sbalzi e facili
sussulti –su questo si può dargliene atto-): sua è anche la
sceneggiatura (il film è ispirato al libro di Jack Hitt, che guarda in
chiave moderna il ‘mistico cammino di Santiago’ che fin dall’epoca
medievale la tradizione cristiana si è nutrita).
Da rammentare che un film che tratta simili argomenti deve avere lo
spettatore con una certa lunghezza d’onda e un approccio giusto per
coglierne il significato. Questo va al di là di ogni singola
riflessione e pensiero, credenza e umanità varia. Seguire il passo del
diario: è quello che il racconto vuole dare (e il cammino di una fede
o di significato profondo o di altezze non raggiunte sono solo
atteggiamenti personali che delle immagini proiettano a noi con
depositi in animo ora inermi, ora fugaci e ora tremanti). ‘Buen
camino’.
Voto 7.
(recensione di loz10cetkind)
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