Restare
aggrappati alle proprie origini, tirarne fuori i luoghi oscuri per il
bisogno di liberarsene una volta per tutte. Era capitato così la prima
volta con un esordio molto sofferto e quindi sincero. Poi una parentesi
quasi necessaria, forse per liberarsi dal peso del ricordo, oppure per assaporare una libertà creativa priva di responsabilità. Accade così che un fenomeno come "Guida
per riconoscere i tuoi santi" (2006)venga doppiato da un ibrido come
"Fighting"(2009)sospeso tra aspirazioni artistiche e voglia di botteghino. Una
battuta d'arresto paradigmatica per le implicazioni spesso negative
connesse con la famigerata opera seconda, superata con la realizzazione
di questo nuovo film, sempre indipendente ma questa volta omaggiato da
un cast da film di primo ordine con l'attore feticcio Channing Tatum
ormai assurto a rango di star, e le attempate quanto gloriose presenze
di un peso massimo come Al Pacino e perché no, Ray Liotta,
imprescindibile per i ruoli da canaglia. Costruito su un
impianto poliziesco ed immerso in un clima di dolente espiazione "Son of
no one" attraverso un intreccio di ricatti ed omicidi che coinvolge
l'agente di polizia Jonathon Withe, ritorna sul luogo del delitto ed in particolare nel quartiere newyorkese del Queens, per raccontare un' altra storia
di amicizia e di violenza divisa tra passato e presente in cui, come
capitava nel film d'esordio, l'emancipazione dell'umanità che ne è
protagonista non può prescindere dalla redenzione del sangue.
Mescolando
elementi autobiografici (il quartiere dove il film è girato ma anche i
personaggi derivano da esperienze realmente vissute dall'autore) con
situazioni paradigmatiche del genere a cui il film appartiene (la
visione negativa dell'esistenza, il passato che ritorna ed a cui non si
può sfuggire, l'istituzione poliziesca come tribù regolata da codici e
comportamenti spesso disumani) "Son of no one" non si accontenta di
ricalcare le gesta del cinema che lo precede - quello di James Gray per
esempio che ricalca non solo nella struttura narrativa in cui il
ritorno alle origini è la conseguenza di un movimento fisico e spaziale
ma anche per il respiro da tragedia che accomuna il modo di raccontare
dei due autori - ma si allunga su temi come quello del
rapporto padre figlio, che è centrale nel cinema di Montiel. Tra figure
biologicamente leggittimate, il padre padrone interpretato da Chazz
Palmentieri nei primo film, e mentori di
varia natura come quello dello scaltro manager Harvey Boarden che in
"Fighting" amministra il giovane pupillo, anche qui è impossibile non
dover fare i conti con i condizionamenti paterni o con la loro mancanza .
Ed ecco allora accanto ad una propensione realistica testimoniata dalle
numerose riprese rubate alla strada ed ai suoi abitanti, la sobria ma
non per questo meno significativa apparizione di Al Pacino, portatore non
a caso diciamo noi, di un sostrato ancestrale acquisito con le
frequentazioni shakesperiane e qui determinante per dare spessore alle
motivazioni che stanno dietro alla scia di afflizione che il film si
porta dietro. Con lui nel completo sgualcito del detective
Stanford il film si assume il compito di fare il punto sulle
contraddizioni dei legami familiari, da una parte rendendo libero il
figlio putativo, White appunto orfano di un collega morto in servizio,
con una resa dei conti finali neanche troppo sorprendente, dall'altra
eliminando anche chi una volta era considerato tale e successivamente è
messo alla porta senza tanti complimenti. Montiel ha qualche difficoltà nel tenere insieme la componente privata ed esistenziale con
quella tipicamente poliziesca, legata alla scoperta del misterioso
ricattatore che rischia di rovinare la vita del protagonista e dei suoi
colleghi - il film si sviluppa in maniera fin troppo
schematica attraverso continui sbalzi temporali dedicati
alternativamente all'adolescenza ed all'età matura di White - e sciupata da
personaggi come quello della giornalista d'assalto interpretata da
Juliette Binoche, un pò troppo sacrificata nei tempi da cameo alle
convenzioni di una dialettica che vorrebbe allargare i propri orizzonti
al mondo esterno e che invece per mancanza di una vera contrapposizione
rimane confinata nei particolari del paesaggio in cui si svolge. Detto questo fa piacere ritrovare quel senso di condivisione ed il pathos
che l'autore riesce ad ottenere con uno sguardo commisurato all'oggetto
dell'indagine. Per maturare c'è tempo, magari a partire dalla prossima
volta.
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