mercoledì, luglio 29, 2020

L'HOTEL DEGLI AMORI SMARRITI


L'hotel degli amori smarriti
di Christophe Honoré
con Chiara Mastroianni, Vincent Lacoste, Benjamin Biolay
Francia, 2019
genere: commedia
durata: 86'
“L’hotel degli amori smarriti” è la nuova commedia francese di Christophe Honoré con protagonista Chiara Mastroianni.
La ricerca di una propria identità e di quello che è un legame solido e stabile con una persona è il tema centrale del film che il regista analizza e sviscera nei minimi particolari, facendosi aiutare da alcuni artifici specificatamente e unicamente cinematografici.
Maria (Chiara Mastroianni) è una donna di mezza età, sposata con Richard, un uomo buono e silenzioso che sembra non essersi mai accorto, in tutti gli anni di matrimonio, di tutto quello che la moglie ha compiuto alle sue spalle. Questo perché Maria sembra essere solita a continue scappatelle, soprattutto con ragazzi più giovani, talvolta addirittura suoi alunni. Una sera, però, dopo reiterati tradimenti da parte della moglie, il marito legge i messaggi che il giovane Asdrubale invia alla donna e le chiede spiegazioni. Da qui nasce una discussione tra i due che porta la protagonista a “nascondersi” per la notte in una delle camere dell’hotel di fronte alla loro abitazione. Con la scusa di avere bisogno di spazio e tempo per riflettere in solitudine, Maria non informa Richard riguardo il suo spostamento. Durante la notte, però, la donna riceve delle strane visite che la iniziano a mettere in discussione.
Quelle che si presentano davanti a Maria sono delle vere e proprie domande, indirettamente poste dalle persone stesse che la donna si ritrova nella propria stanza di hotel. Appaiono, infatti, la versione venticinquenne di Richard, la sua insegnante di piano, nonché primo amore del marito, poi la madre, la nonna e addirittura la sua stessa “volontà”.
Messa di fronte al fatto compiuto, cioè i ripetuti tradimenti, Maria deve cercare di capire cosa prova davvero per il marito, se è in grado di lasciarlo andare definitivamente, se verrà perdonata, se è ancora innamorata di lui o se lo è mai stata veramente. La versione giovanile del marito, provocandola, cerca di instillare tutta una serie di dubbi nella mente e nel cuore della protagonista. Allo stesso modo anche l’insegnante di piano di Richard, approfittando della situazione, chiede alla donna l’approvazione per poter recarsi dal marito di lei per poter riallacciare i rapporti e magari riaccendere una scintilla forse mai spenta del tutto.
Si tratta, naturalmente, di un sogno, di una visione, di qualcosa di puramente cinematografico e che solo questo mezzo poteva realizzare. Ed è, infatti, anche un gioco stesso sul cinema. Perché il cinema è protagonista, o almeno coprotagonista, della vicenda, insieme a Maria, Richard e tutti gli altri personaggi. Un cinema che gioca con sé stesso, prendendosi in giro. Un cinema che appare fisicamente perché sotto l’appartamento della coppia c’è proprio una sala, o meglio sette, le cui locandine tornano spesso a irrompere sulla scena.
Tutto appare strano e surreale, sia dal punto di vista della narrazione e delle scelte che vengono adoperate dal regista, sia dal punto di vista visivo. La calma piatta e apparente che sembra essere solo il presagio ad una vera e propria tempesta; il silenzio improvviso e le continue voci fuoricampo; la solitudine, dovuta all’assenza di persone intorno ai protagonisti principali che si sostituiscono tra loro e si scambiano più e più volte.
Emblematiche alcune inquadrature alle quali inizialmente si può non dare particolare peso, ma che, invece, a posteriori sono esemplificative di determinati comportamenti e atteggiamenti. Una su tutte l’inquadratura di Maria e Richard nel momento iniziale di confronto, subito dopo che il marito è venuto a conoscenza del tradimento. Sono uno di fronte all’altro, ma lo spettatore li vedi come lontani, già divisi e separati da un muro che sembra la rappresentazione di un ostacolo insormontabile, quello che poi la donna dovrà affrontare nel corso di tutta la vicenda.
Un film che racconta l’amore da un punto di vista molto particolare e con una morale non del tutto condivisa e condivisibile. Nonostante la pretesa di voler mettere “troppa carne al fuoco”, nel complesso risulta un prodotto godibile con interessanti spunti di riflessione e con una più che buona interpretazione della Mastroianni che, per questo ruolo, si è aggiudicata il premio di miglior attrice nella sezione “un certain regard” al festival di Cannes 2019.

Veronica Ranocchi

domenica, luglio 26, 2020

LA FOTO DELLA SETTIMAMA

Paranoid Park di Gus van Sant (USA 2007)

A HIDDEN LIFE

A Hidden Life
di, Terrence Malick
con, August Diehl, Valerie Pachner, Maria Simon, Michael Nyqvist, Matthias Schoenaerts, Jürgen Prochnow, Bruno Ganz
Germania, USA, 2019
genere, drammatico
durata, 175’



L'occhio, viziato da una mostruosa costrizione a vedere lontano [...] viene costretto qui a
cogliere con acutezza ciò che è più vicino, il tempo, ciò che ci circonda. [...] Parlando da un punto
di vista teologico, fu Dio stesso che, terminato il suo compito, si mise, in forma di serpente, sotto
l'albero della conoscenza: cercava così sollievo dall'essere Dio... Aveva reso tutto troppo bello...
— F. Nietzsche, "Ecce Homo” —




Le montagne dell'alta Austria, argini spirituali prima ancora che geografici. A introdurre, però, le immagini di repertorio di Hitler acclamato dalla folla, accompagnate da una musica che le estromettono dalla mera funzione di documentazione storica facendone una sorta di liturgia macabra, iniziano a indirizzare oltre quelle cime nubi di colorazione prossima al nero assoluto. Se è vero che in Natura per ogni elemento ne esiste un altro sua contraddizione pura, sulla scia dell'esempio precedente possiamo affermare che per ogni fiume c'è una diga pronta a fermarlo e che per ogni diga c'è un fiume pronto a fare breccia. A risolvere il paradosso, nel caso specifico di "A hidden Life", c'è un umano-troppo-umano, al secolo Franz Jägerstätter, che Malick non pone come martire - strizzando l'occhio al sopra citato Federico, che i martiri li aveva già seppelliti dalle prime battute de “L’Anticristo” - ma  semplicemente come argine ulteriore e imprevisto. 




Franz  - il film è ispirato alla sua storia vera - si dedica alle tre Madri - la Terra che coltiva, la Madre naturale e la Madre dei suoi figli - incarnando sostanzialmente un essere umano antico che con la Natura non vive un rapporto estetico ma morale. Questo fino a quando non viene chiamato alle armi per servire il regime Nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, decidendo per la dissidenza e dunque per l'inevitabile condanna. Tutto il percorso interiore del personaggio viene attraversato dai consueti flashback, da meditazioni errabonde e placidi silenzi grandangolari alternati a sguardi, gesti e paesaggi elevati spontaneamente al di fuori di una connotazione temporale propria della materia. 


Per paradosso, nella visione cristologica di Malick, la fede non è più quella componente etica insita nell'uomo per risolvere i conflitti del cosmo - il riferimento è alla visione antropocentrica di "The Tree of Life" e di "To the Wonder" - ma diventa la colonna portante del dramma umano in quanto tale, annullando di fatto la distanza con la Morte in una sequenza finale che con pochissimi stacchi di montaggio riesce a disarcionare la Storia dalla sella del Presente: il sole, il silenzio vuoto e poi di nuovo le montagne. Per il regista texano Franz altri non è che Cristo senza retorica e senza apostoli, amato dagli altri, amante di sé stesso e viceversa, che non cede mai al peso della pressione sociale né al fascino della seconda possibilitàMalick depone quindi i personaggi ultramoderni - nichilisti perché già annichiliti, ossia morti in partenza -  di "Knight of Cups" e "Song to Song”, e si dedica all'introspezione di un individuo - nel senso puro del termine, in quanto agisce per sé stesso e in sé stesso - che muore perché, con ogni probabilità, ha ancora qualcosa per cui vale la pena vivere. 
Antonio Romagnoli

domenica, luglio 12, 2020

MATTHIAS & MAXIME

Matthias & Maxime
di Xavier Dolan
con Xavier Dolan, Gabriel D'Almedia
Canada, 2020
genere, drammatico
durata, 119'


Il cinema di XavierDolan è sempre autobiografico ma talvolta lo è di più di altre per il suo essere invaso da sentimenti e stati d’animo che sono la trasposizione di questioni contingenti. MatthiasMaxime ne è la conferma in virtù del suo prefigurarsi come il tentativo di ricucire lo strappo seguito alla tormentata lavorazione di La mia vita con John F. Donovan, film che nelle intenzioni del regista doveva segnare l’inizio di una nuova fase di carriera e il principio di un nuovo corso lavorativo. Girato in lingua inglese e prodotto nel contesto e secondo le regole dell’apparato hollywoodiano, il primo lungometraggio in terra americana si è però rivelato un flop di tali proporzioni da indurre il regista a ritornare sui propri passi.0

Da cui Matthias & Maxime, ovvero la restaurazione del primo cinema di Dolan, quello nel quale era lui per primo protagonista in veste di attore davanti alla mdp e in cui il budget ridotto e la freschezza di volti e corpi esenti dai condizionamenti dello star system diventavano il viatico di una libertà artistica qui confermata dalla leggerezza dell’assunto. Matthias & Maxime ruota infatti attorno a un bacio rubato, quello che i due amici si danno in veste di attori di un film amatoriale e che da lì in poi assurge a motivo della messa in discussione delle rispettive esistenze.0

Se l’orizzonte temporale entro il quale si svolge la vicenda sono le giornate che separano Maxime dal giorno della partenza per l’Australia dove il ragazzo ha intenzione di trasferirsi e se ancora le vicissitudini scaturite dall’avvicinarsi della data fatidica altro non sono che il risultato delle schermaglie con cui Maxime e i suoi amici esorcizzano l’imminente separazione, allora si può dire che Matthias & Maxime ragioni soprattutto sull’importanza delle proprie radici e sulla necessità di rimanervi il più possibile ancorati. Magari, tornando a casa, come ha fatto Dolan, anche nella riproposizione di situazioni e tematiche da sempre al centro della sua poetica. E dunque riflettendo sull’amore e le sue pene, su amicizia e identità sessuale per non dire dei rapporti famigliari, come al solito tanto imprescindibili quanti tormentati.

Nel farlo Dolan si affida a una regia più concreta di altre occasioni, lasciando che siano espedienti tutto sommato semplici a sottolineare lo stato d’animo del film. Parliamo per esempio delle accelerazioni del numero dei frame volte a sottolineare l’esuberanza giovanile e il tumulto degli affetti e ancora di certi stacchi di montaggio, anticipati rispetto alla fine della sequenza apposta per sottolineare le reticenze e i non detti di una verità, quella che Matthias e Maxime faticano a confessarsi.
Carlo Cerofolini

martedì, luglio 07, 2020

DARK


Dark
di Baran bo Odar
con Louis Hofmann, Lisa Vicari, Andreas Pietschmann
Germania, 2017-2020
genere: drammatico, thriller, fantascienza, giallo
stagione: 1-3
episodi: 26
durata: 45-73
Cercare di scrivere una recensione di “Dark” è un compito tutt’altro che facile che potrebbe richiedere, tra le varie cose, anche un incredibile dono di sintesi.
Indubbiamente uno dei migliori prodotti della piattaforma Netflix, dobbiamo ringraziare due autori tedeschi per questa intricata, quanto meravigliosa serie tv.
Riuscire a spiegare in breve i personaggi e gli eventi richiede grande attenzione, così come la serie nei confronti della quale bisogna essere sempre molto attenti, ad ogni minimo particolare, anche quello apparentemente più insignificante. Di seguito solo l’inizio dei tantissimi eventi che, nel corso delle tre stagioni, hanno dato vita ad uno degli intrecci più belli ed entusiasmanti di sempre.
Ci troviamo a Winden, in Germania, il 21 giugno 2019 quando incontriamo per la prima volta tanti personaggi, a partire da Jonas Kahnwald, pseudo protagonista (perché alla fine non c’è né un protagonista né un antagonista) della vicenda, passando per la sua famiglia e per altre. Tutto inizia, nella prima stagione, con la sparizione del piccolo Mikkel Nielsen, fratello più piccolo di Martha (ex fidanzata del “protagonista” e ancora suo interesse amoroso) e Magnus, due coetanei di Jonas che, insieme a Bartosz, attuale fidanzato di Martha, e Franziska, fidanzata di Magnus, si ritrovano a cercare della droga, apparentemente nascosta, all’ingresso di una misteriosa caverna. In una buia e concitata sequenza, la telecamera cerca di seguire tutti i ragazzi, ma finisce per concentrarsi su Jonas, rimasto l’ultimo del gruppo, insieme al piccolo Mikkel. A un certo punto Jonas cade e tutto sembra fermarsi per un attimo. Quando la fuga riprende, però, Mikkel non c’è più, sembra sparito nel nulla. Ed è proprio da questa sparizione che ha “inizio” tutto l’intreccio al centro delle vicende narrate in “Dark”.
Ai giovani ed adolescenti Jonas, Martha, Bartosz, Magnus e Bartosz si vanno ad incastrare ed intrecciare le vicende degli adulti, genitori, parenti e non, ma anche dei più piccoli. E così la famiglia Kahnwald, composta da Jonas, dalla madre Hannah, dal padre Michael che, suicidandosi nel primo episodio, dà vita a tutta una serie di eventi e viaggi temporali e dalla madre adottiva di quest’ultimo, l’infermiera Ines si intreccia alla famiglia Nielsen, inizialmente composta da Magnus, Martha, Mikkel, dai genitori Katharina e Ulrich e dalla madre di lei, Helene, e dai genitori di lui, Jana e Tronte, ma anche alla famiglia Doppler, composta da Franziska e Elisabeth, figlie di Charlotte e Peter, quest’ultimo figlio di Helge e alla famiglia Tiedemann, composta da Bartosz, figlio di Aleksander e Regina, quest’ultima figlia di Claudia e nipote di Egon e Doris. A chiudere il cerchio, poi, altri personaggi che, direttamente e non, sono comunque legati almeno ad una di queste famiglie.
Naturalmente comprendere tutto quello che una serie come “Dark” vuole mostrare al pubblico, attraverso queste poche righe è pressoché impossibile. Anzi, la sensazione è che spesso sfugga qualche elemento e che anche lo spettatore più attento pensi di non riuscire ad essere più in grado di seguire la storia. In realtà gli ideatori Baran bo Odar e Jantje Friese sono riusciti a creare un prodotto complesso, ma dove tutto è comunque sempre collegato. E la terza stagione ne è la chiara dimostrazione. “L’inizio è la fine e la fine è l’inizio” è ciò che viene ripetuto più e più volte da determinati personaggi, ma è anche ciò che i due ideatori di una delle serie di maggior successo hanno voluto dire al proprio pubblico. Con la terza stagione si chiude un incredibile viaggio che è stato in grado di sorprendere ogni volta di più e di smontare tutte le varie teorie che sono circolate durante e prima la messa in onda. E si chiude con un finale degno di ogni aspettativa che, apparentemente, non dà le risposte a tutti i quesiti e tutti gli enigmi che si sono sviluppati nel corso del tempo, ma fornisce una chiave di lettura.
Quello di “Dark” è un viaggio davvero incredibile, in tutti i sensi, che, nonostante parta da una base già vista e presa in esame da molti altri, la sviluppa in un modo unico e inimitabile. Se già tanti altri personaggi, nel corso della storia, cinematografica e televisiva, ma non solo, avevano provato a viaggiare nel tempo, “Dark” non solo riesce nell’intento, ma sviscera il tempo e tutto ciò che da esso ne deriva in una maniera ben precisa e che, fin dall’inizio, sembra essere ben delineata.
Ad accompagnare l’incredibile struttura narrativa partorita dalle brillanti menti degli ideatori, non vanno assolutamente trascurate o dimenticate le prove attoriali del cast che, fin dai più giovani interpreti, contribuisce ad innalzare il livello della serie tedesca. Una fotografia, cupa e desolata, che trasforma ogni luogo e ogni situazione, anche le più drammatiche, in delle vere e proprie cartoline, è l’altro punto di forza, insieme alle musiche, sempre perfette, in grado di accompagnare lo spettatore facendogli intuire la gravità della situazione. Mai a caso, mai fuori posto, musica, fotografia ed effetti speciali (memorabili sono le immagini speculari, presenti in quasi tutti gli episodi che mettono a confronto i personaggi, i luoghi o le situazioni in una maniera unica) sono i tratti distintivi di una serie destinata ad essere ricordata a lungo. E ultimo, ma non meno importante, un plauso al casting e alla scelta degli attori che hanno interpretato lo stesso personaggio, ma in epoche, mondi e realtà diverse o parallele. La curiosità di fare una breve ricerca per scoprire se effettivamente si trattasse dello stesso personaggio, magari invecchiato o ringiovanito dal trucco, o di un parente prossimo ha probabilmente vinto tutti. Ma è anche la dimostrazione dell’attenzione, veramente ad ogni minimo particolare, per quella che, da molti, è stata decretata, a ragione, come la miglior serie Netflix.


Veronica Ranocchi

domenica, luglio 05, 2020

SOTTO IL SOLE DI RICCIONE


Sotto il sole di Riccione
di Antonio Usbergo, Niccolò Celaia
con Cristiano Caccamo, Lorenzo Zurzolo, Ludovica Martino
Italia, 2020
genere: commedia
durata: 100’
Da pochi giorni disponibile su Netflix, “Sotto il sole di Riccione” è il titolo estivo italiano sul quale punta la piattaforma nel nostro paese.
Le premesse e le aspettative non erano elevate, pur considerando un bel cast corale e, per la maggior parte, giovane e fresco. Ciononostante la pellicola svolge, ai limiti della sufficienza, il compito di puro intrattenimento senza alcun tipo di pretesa.
Le storie che si sviluppano e che, poi, finiscono, come sempre succede, per concatenarsi l’una con l’altra vedono protagonisti tanti amici e diverse coppie, con un pizzico di divertimento che non guasta mai.
Ciro è un giovane con la passione per la musica che si reca a Riccione per sperare, senza successo, di sfondare in questo campo. Viene, comunque, trattenuto in città perché assunto come bagnino, lasciando sola a casa la fidanzata Violante (che invia la migliore amica per tenere a bada il compagno). Marco, invece, per l’ennesimo anno a Riccione, sperando di riuscire a farsi notare da Guenda, trova una camera da condividere con lo stravagante Tommy, pronto fin da subito ad aiutarlo, insieme all’affittuario della casa, Gualtiero, un latin lover in grado di fare cadere ogni donna ai propri piedi.
Ma ci sono anche Furio, aspirante bagnino che conoscerà Vincenzo, un ragazzo cieco, recatosi a Riccione proprio per fare finalmente nuove amicizie, ma che troverà, invece, l’amore con la bella Camilla, fidanzatissima da diversi anni, ma incastrata, in realtà, in una relazione finita che nessuno dei due ha il coraggio di chiudere. A fare da cornice alle vicende di questi giovani ragazzi, la madre di Vincenzo, Irene, molto apprensiva, talvolta fin troppo, che, in vacanza insieme al figlio, conoscerà Lucio, un buttafuori dal cuore tenero.
Tanta estate, tanti colori e tanta voglia di mare sono gli ingredienti principali di questa commedia. Complice l’uscita nel periodo estivo e complici le continue restrizioni dovute all’emergenza sanitaria, “Sotto il sole di Riccione” rappresenta una boccata d’aria fresca, non così negativa come le premesse avevano fatto intendere. E’ vero che siamo di fronte all’ennesimo prodotto italiano stereotipato, ricco dei più grandi cliché tra i vari personaggi e che la fregatura è sempre dietro l’angolo. Non ha sicuramente le pretese di diventare chissà quale prodotto o di voler mostrare e insegnare chissà cosa, ma, come già detto, riesce nel suo scopo principale: quello di intrattenere. Le battute e le situazioni hanno il sapore di già visto, ma hanno la capacità di far staccare la spina e far “rimpiangere” al pubblico quell’estate che, almeno per quest’anno, non potrà essere vissuta allo stesso modo.
I colori, la musica (che accompagna tutta la narrazione, usando come filo conduttore il concerto di Tommaso Paradiso e le sue hit, tra le quali una dà addirittura il titolo al film) e qualche performance di alcuni attori sono gli unici aspetti che riescono ad emergere veramente e a oltrepassare la superficie. Un’ora e quaranta di spensieratezza e nulla più, con prove non sempre convincenti e intrecci talvolta forzati e prevedibili, ma che fanno compagnia in un’estate un po’ anomala.

Veronica Ranocchi