mercoledì, gennaio 25, 2023

L'INNOCENT

L’innocente

di Louis Garrel

con Louis Garrel, Roschdy Zem, Noémie Merlant

Francia, 2022

genere: commedia

durata: 99’

Un Louis Garrel in splendida forma quello che si vede, davanti e dietro la macchina da presa, nella sua ultima “fatica”: “L’innocente”.

La commedia francese diretta e interpretata dall’attore non è solo una commedia, ma un bel mix di generi con i quali, con ironia e astuzia, gioca sapientemente, prendendoli, e a tratti prendendosi, anche in giro.

Al centro della simpatica e riuscita commedia c’è Abel, figlio della sessantenne Sylvie che si sposa con il galeotto Michel. Dopo il matrimonio dei due e dopo la scarcerazione di Michel, avvenuto naturalmente in carcere, i novelli sposi cominciano a vivere la loro vita insieme e fare grandi progetti, tra i quali anche quello di aprire un negozio. Ma Abel non sembra contento della nuova vita della madre ed è convinto che il nuovo patrigno tornerà presto a dedicarsi al crimine. Per questo, spesso insieme all’amica di sempre Clémence, inizia a seguirlo e spiarlo.

Una divertente commedia che mescola le carte a disposizione del figlio d’arte, ma comunque in grado di mantenere alto il proprio nome.

Ma non solo una divertente commedia. “L’innocente”, infatti, porta con sé anche vari elementi propri del dramma che si rispecchiano fin da subito anche nelle immagini che vengono proposte. Le luci e la saturazione del film, per esempio, sono elementi importanti per comprendere quello che si nasconde dietro un’apparente leggerezza. Dalla preoccupazione di Abel per l’ennesimo matrimonio della madre, al quale si oppone, seppur in maniera pacata tanto da ritrovarsi poi costretto, suo malgrado, ad accettarlo così come tutte le conseguenze che ne derivano, al grande lutto che aleggia sulla sua persona e del quale veniamo a conoscenza solo in un secondo momento. Ma si tratta di un lutto e di una perdita che ha contribuito a formarlo e renderlo quello che è. Ecco perché il suo atteggiamento nei confronti di situazioni apparentemente normali diventa esagerato, quasi al limite dell’assurdo. Ed è proprio questo suo modo di fare, che talvolta si può leggere come un senso di inadeguatezza, che rende la commedia una vera commedia. Invece di reagire a determinate situazioni e determinati frangenti come reagirebbe non tanto il personaggio di una commedia, ma quantomeno una persona normale, Abel arriva quasi all’esasperazione, facendo innervosire gli altri, ma facendo “divertire” il pubblico.

E questo si traduce, narrativamente, in una serie di colpi di scena che fanno apprezzare notevolmente la pellicola che non ha la presunzione di ergersi a capolavoro del cinema, ma nonostante questo svolge il suo compito in maniera egregia.

Il giusto dosaggio dei generi e delle caratteristiche principali di essi fanno sì che “L’innocente” non rientri pienamente in nessuna definizione circoscritta. Si va dal divertimento (e “spavento”) iniziale con l’esilarante scena della madre che rivela al figlio l’intenzione di sposarsi alla memorabile scena al ristorante. Una scena nella scena messa a punto con un obiettivo preciso e portata sul metaforico palco da Abel e Clémence, dove, tra detto e non detto, i sentimenti fittizi e “recitati” si mescolano a quelli veri e autentici.

E se l’inizio è, in qualche modo, scoppiettante, quasi stessa sorte spetta al finale che, con un ulteriore colpo di scena, spiazza e convince lo spettatore, già pronto a pensare alla chiusura più scontata.


Veronica Ranocchi

lunedì, gennaio 23, 2023

BABYLON

Babylon

di Damien Chazelle

con Brad Pitt, Margot Robbie, Diego Calva

USA, 2022

genere: commedia, storico, drammatico

durata: 189’

Arrivato in Italia sulla scia del flop americano, “Babylon” è forse il film più libero e coraggioso di Damien Chazelle, summa dei temi e delle ossessioni della sua filmografia.

La prima cosa che si nota guardando Babylon è il cambio di registro operato dall’autore. I modi calmi e misurati propri di una classicità di cui Damien Chazelle era stato invocato cantore, qui lasciano il posto all’eccesso delle pulsioni più incontrollate. Le prime sequenze non lasciano dubbi, tanto le immagini risultano un tripudio di istinti disparati. Dall’elefantiaca defecazione che investe l’aspirante attore messicano, metafora di quel lavoro sporco a cui il malcapitato sarà di lì a poco chiamato, all’esaltazione dionisiaca dei corpi avvinghiati uno contro l’altro nell’esclusiva festa hollywoodiana, Babylon si fa da subito manifesto del mondo di cui fa menzione nella consapevolezza di poterlo restituire solo lasciandolo andare.

Abituato a controllare la propria materia cinematografica, Chazelle questa volta sposa il principio opposto, un po’ come fece a suo tempo il grande Michael Herr (Dispacci, ndr), il quale, chiamato a narrare agli americani la guerra del Vietnam si rese conto dell’impossibilità di farlo con la scrittura giornalistica convenzionale. Per raccontare l’Inferno, diceva, bisognava in qualche modo sporcarsi le mani. Così decide di fare Chazelle attraverso i suoi personaggi. Raccontare Hollywood, quella dei ruggenti anni venti, dal loro fulgore fino all’inevitabile declino (ila crisi  relativa al passaggio dal muto al sonoro ricorda quello dalla sala allo streaming), calandosi “anima e corpo” nelle dorate pastoie del suo Star System per seguire le avventure del divo Jack Conrad (Brad Pitt in versione Clark Gable) e di chi, l’ambiziosa Nellie Le Roy (una spregiudicata Margot Robbie) e il suo amico Manuel Torres (il semi esordiente Diego Calva), è disposto a tutto pur di seguirne le orme.

Lungi dal dimenticare se stesso e le proprie origini, Chazelle si limita a cambiare pelle, tirando fuori il coraggio e la provocazione che altre volte gli era mancata. In questo senso Babylon è al cento per cento un film del suo autore, a cominciare dalla centralità della musica, qui più che altrove motore della storia, per il fatto di essere parte integrante di un dispositivo che equipara le immagini a uno spartito musicale e la narrazione a un’unica meravigliosa Jam Session (lo aveva fatto in maniera altrettanto radicale Paul Thomas Anderson in Ubriaco D’amore). L’esempio più lampante lo si ha nella lunga sequenza che precede i titoli di testa, concepita come una corsa perdifiato – dalla notte fino al mattino -, in cui il ritmo della musica e quello delle parole sono pronti ad alternarsi per dare vita alla vertigine sensoriale vissuta dai protagonisti. Così funziona il montaggio alternato con cui Babylon, poco dopo, mette in scena il cortocircuito tra arte e vita: la seconda chiamata a salvare la prima attraverso la ricerca della mdp necessaria a terminare le riprese del film interpretato dal personaggio di Brad Pitt.

Ma Babylon può anche considerarsi la madre di tutte le ossessioni di cui fin qui si è nutrito il cinema di Chazelle.

La mecca hollywoodiana infatti è il monumento destinato a contenerle tutte: da quella nei confronti del talento artistico, messo alla prova da una realtà quasi mai disposta a riconoscerne il valore, ai tormenti romantico sentimentali destinati a tradire l’amore quando si presenta nella sua forma più pura e gratuita; alla morte – materiale e ideale che sia -, intesa come sacrificio estremo conseguente all’incapacità dell’arte e dell’artista di scendere a compromessi.

Laddove la dimora della festa, ma anche il set cinematografico, sembrano una variante del locale jazz di La La Land, dell’omologo parigino di The Eddy e persino della navicella spaziale di The First Man, universi alternativi e ancora, spazi di una diversità che la Villa della festa rappresenta al massimo grado: filmata da Chazelle in analogia a quella di Norman Bates in Psycho, per avvalorare la doppiezza dei personaggi, disposti a convivere e a fare i conti con l’immagine del proprio alter ego filmico.

Elegante e kitsch come il mondo e i personaggi che racconta, Babylon fa dell’imperfezione un valore aggiunto, risultando più vero dei film che lo hanno preceduto. Troppo colto e scandaloso per compiacere gli standard casalinghi – nonostante l’utilizzo di una rappresentazione a tratti grottesca e parodistica volta a raffreddarne la peccaminosità -, non stupisce di Babylon la notizia del flop casalingo.

In attesa degli Oscar la palla passa ora al pubblico europeo, chiamato a ribaltare le sorti economiche di un film comunque meritevole di essere visto.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su Taxidrivers.it)

ANCHE IO

Anche io

di Maria Schrader

con Zoe Kazan, Carey Mulligan, Patricia Clarkson

USA, 2022

genere: drammatico

durata: 129’

Un film d’inchiesta che, sulla scia dei recenti fatti che hanno coinvolto il produttore cinematografico Harvey Weinstein, investiga e scava a fondo sulla faccenda. “Anche io” è il nuovo film di Maria Schrader che vede al centro della vicenda le giornaliste Jodi Kantor e Megan Twohey che indagano per portare alla luce le molestie sessuali commesse dal produttore.

Un’inchiesta prettamente e interamente al femminile, condotta da due donne che danno continuamente prova del loro carattere e della loro testardaggine, proprio in quanto donne.

Jodi Kantor e Megan Twohey sono due giornaliste, due donne, due mamme che fanno del loro essere donne il punto centrale dell’indagine. Provano a mettersi nei panni delle vittime, combattono, insistono, soffrono e lavorano. Non si perdono mai d’animo e non si arrendono mai per scavare in fondo alla verità e provare a raggiungere i loro obiettivi.

In questo, ad aiutare la sceneggiatura e la storia che gran parte del pubblico conosce, trattandosi di eventi piuttosto recenti, ci sono le due attrici protagoniste. Da una parte Zoe Kazan, nel ruolo della determinata Jodi Kantor, e dall’altra una Carey Mulligan in grado di essere davvero l’ago della bilancia della vicenda.

Quella che, all’inizio, sembra solo la pratica di un pervertito uomo di potere ai danni di giovani e promettenti assistenti e attrici si rivela, in realtà, come un vero e proprio sistema che va avanti da decenni e che consiste in violenza fisica e psicologica e abuso da parte non solo di un uomo, ma di qualcosa di più. Un intero sistema in balia di un potente produttore che costringe donne e chiunque altro al silenzio, ma che proprio dalle donne, che tanto brama e tanto teme, è smascherato e portato allo scoperto.

Di film d’inchiesta è pieno il panorama cinematografico, soprattutto quello americano. Piuttosto recenti sono, per esempio, “Il caso Spotlight” e “The Post”, ma sicuramente uno di quelli più emblematici e degni di essere citati nel momento in cui si decide di parlare di “Anche io” (titolo originale “She Said”) è “Tutti gli uomini del presidente”.

Il film della Schrader è, infatti, una sorta di tutti gli uomini, o meglio tutte le donne del presidente che, in questo caso, non è presidente, ma è come se lo fosse considerando i pieni poteri che ha.

Le due donne, rappresentate come donne al 100%, hanno in mano un potere enorme, e cercano di farne l’uso che ne farebbero gli uomini. Ma si trovano a essere infastidite e interrotte dalle circostanze. Il doversi continuamente giustificare e dover lottare il doppio se non addirittura il triplo degli uomini che hanno lo stesso ruolo rende il film ancora più femminile. E porta inevitabilmente a una riflessione importante che va al di là della “semplice” questione Weinstein.


Veronica Ranocchi

martedì, gennaio 17, 2023

LE VELE SCARLATTE

Le vele scarlatte

di Pietro Marcello

con Juliette Jouan, Louis Garrel, Raphaël Thiéry

Francia, Italia, Germania, 2022

genere: drammatico

durata: 99’

Pietro Marcello torna al cinema con un nuovo film che, sulla scia del precedente “Martin Eden” parte dalle pagine di un romanzo.

Quella che attua il regista italiano è una rivisitazione del romanzo “Vele scarlatte” di Aleksandr Grin.

Siamo in Francia nel primo dopoguerra e Juliette è una giovane orfana di madre che vive col padre Raphaël, reduce di guerra. Questi, che conosce la figlia di ritorno dal conflitto, fa l’artigiano per guadagnarsi da vivere, lavorando quotidianamente il legno.

Nel frattempo la figlia cresce e, per tutta una serie di motivi, complice anche la sua indole di sognatrice, non è ben vista dagli altri abitanti del villaggio che la considerano una pazza in attesa delle “vele scarlatte” che una maga le predice arriveranno e la aiuteranno ad andare via. Tra le difficoltà economiche che continuano e la passione per la musica, Juliette continua a sperare nella “profezia” della maga finché finalmente un giorno si avvera, più precisamente quando un affascinante aviatore le piove dal cielo.

La rivalsa femminile è uno dei temi fondamentali del film del regista italiano. Juliette è la protagonista indiscussa e l’unica in grado di crescere e maturare. Se tutti gli altri personaggi rimangono letteralmente “intrappolati” nei loro corpi e nelle loro abitudini, Juliette cresce, cambia e si trasforma. È attraverso il suo personaggio e il suo cambiamento che riusciamo a percepire lo scorrere del tempo. Se da una parte può far storcere il naso allo spettatore più preciso e attento ai dettagli, dall’altra parte si può considerare come parte integrante della storia raccontata. L’emancipazione femminile e, più precisamente quella di Juliette, passa anche e soprattutto per questo, come una sorta di “prova concreta”.

Il canto, allo stesso tempo magico e liberatorio, è l’ “arma” di Juliette contro il mondo. Si tratta di qualcosa che, al contempo, la estrania dal resto del villaggio e la fa considerare una “diversa”, ma è anche l’elemento che le permette di raggiungere il proprio obiettivo e arrivare al traguardo tanto agognato delle “vele scarlatte”, metaforicamente incarnate dall’aviatore Jean.

E, a proposito di metafore, c’è da considerare anche quella tra l’aereo che porta con sé il “salvifico” aviatore e la gazza che si avvicina alla finestra di Juliette e alla quale lei si rivolge, quasi invocandola, tornando poi, in qualche modo, sulla questione mentre legge delle poesie e scrive musica.

Quindi cosa sono davvero le vele scarlatte?

Sono il traguardo, ma anche il sogno e l’obiettivo. Quello che Juliette tanto ardentemente attende e che arriva quando meno se lo aspetta. E, come nelle più classiche favole, ecco letteralmente piovere dal cielo ciò che la giovane tanto brama.

A fare da cornice alla storia di formazione (e d’amore) di Juliette c’è anche tutta la costruzione del villaggio e dei personaggi che lo abitano, senza dimenticare la maga, osteggiata da tutti, così come il burbero Raphaël che ha solo la colpa di non parlare e di dedicarsi notte e giorno al lavoro e alla figlia, unica cosa rimastagli. Di pari passo con la crescita di Juliette c’è una crescita delle opere realizzate dalle mani stanche e provate di Raphaël. Da piccoli lavoretti con il legno a giocattoli per la sua bambina fino ad arrivare a decorazioni per una barca. Una decorazione più che simbolica anche e soprattutto per il valore complessivo del film. Un’opera che lo spettatore vede come il traguardo di Raphaël che, probabilmente, nonostante il continuo silenzio e quella che sembra una mancata comunicazione con la figlia, capisce molto più di quanto possa far pensare e si lascia andare, sapendo la sua Juliette al sicuro, pronta non tanto a vedere le vele scarlatte, ma addirittura a salpare sull’agognata nave che viaggia sul mare proprio grazie a esse.


Veronica Ranocchi

lunedì, gennaio 16, 2023

THE PALE BLUE EYE - I DELITTI DI WEST POINT

The Pale Blue Eye – I delitti di West Point

di Scott Cooper

con Christian Bale, Harry Melling, Lucy Boynton

USA, 2022

genere: thriller, horror, giallo, poliziesco

durata: 128’

Alla sua terza collaborazione con Christian Bale, con The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point il regista Scott Cooper mette in scena un’indagine criminale ed esistenziale intorno a un mondo in bilico tra la vita e la morte. Buone le premesse, più discutibili gli esiti nonostante le ottime performance degli interpreti tra cui si distinguono i protagonisti Christian Bale e di Harry Melling nei panni di Edgard Allan Poe.

The Pale Blue Eyes è il nuovo film Netflix di Scott Cooper.

Quello di Scott Cooper è da sempre un cinema sottovalutato. Il giudizio nei suoi confronti non è mai cambiato anche quando alcuni suoi lungometraggi sono stati oggetto di interesse per le grandi interpretazioni degli attori che vi hanno preso parte. Se sono in molti a ricordare quella di Jeff Bridges, vincitore dell’Oscar come migliore interprete maschile nella parte del cantante alcolista di Crazy Heart, meno fortuna hanno avuto, anche presso gli addetti ai lavori, le performance di Christian Bale, a dir poco superlativo in ben due film di Cooper, Out of Furnace e soprattutto Hostiles, ignorate dall’Academy anche in sede di nomination.

Troppo violento e con un’ipotesi di redenzione non così forte da poter compiacere i gusti dell’establishment hollywoodiano, il cinema di Cooper ha il torto di perseguire una classicità che, soprattutto nell’austerità della forma e nell’invisibilità della regia, non riesce a fare breccia tra il pubblico più giovane, quello a cui non può rinunciare qualsiasi progetto con ambizioni commerciali. Da qui la consapevolezza di trovarsi di fronte a un autore al quale si può semmai imputare la mancanza di uno scatto in avanti, capace di far uscire i suoi personaggi dall’ombra di un esistenzialismo che concede poco o nulla al glamour da copertina.

Tormentati e in cerca di riscatto, gli uomini e le donne di Cooper trovano spesso nella vendetta il modo per mettere a tacere i propri demoni, pur sapendo che di lì a poco gli stessi torneranno a farsi vivi.

The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point non fa eccezione, risultando quasi una variazione su temi e personaggi già presenti nel connubio lavorativo di Cooper e Bale, se è vero che anche il detective August Landor si porta dietro una reclusione esistenziale e una dolenza di sguardo frutto di un passato a cui la rivalsa sul male – qui rappresentati dall’assassinio di alcuni cadetti di West Point (siamo nel 1830) e dall’indagine che porterà alla scoperta del colpevole – servirà solo in parte a lenirne le ferite. In realtà The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point fa segnare un passo in avanti nella filmografia del suo autore in un’ottica tutta contemporanea, assemblando generi (dall’horror al thriller, dal dramma in costume al poliziesco) e presentandosi come una sorta di crossover tra cinema e letteratura per la presenza di un giovane Edgard Allan Poe, ancora lontano dalle sue grandi produzioni letterarie, ma già sufficientemente melanconico per figurare come coprotagonista in un racconto gotico come quello messo in piedi da Cooper.

Poggiando la progressione del racconto sugli esiti dell’indagine e sul conflitto tra ragione e follia, The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point moltiplica i misteri e le sorprese, favorito da un plot in cui la logica è chiamata a confrontarsi con il diabolico e l’occulto. Nel farlo Cooper lavora soprattutto sulla messa in scena, amplificando la dimensione spettrale e la convivenza tra vita e morte (enunciata da Poe in fase di premessa) attraverso una fotografia a lume di candela, in cui il nero della notte è lo stesso degli interni, perennemente immersi in un’oscurità senza fine. A non tornare però è la qualità della scrittura e la precisione del meccanismo che, soprattutto nel genere in questione, avrebbe bisogno, almeno negli snodi decisivi, di arrivare alla svolta con prove probanti, laddove The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point rimane lasco nelle evidenze che tali non sono, provvisto com’è di deduzioni fuori campo di cui allo spettatore rimane solo l’esito finale. Laddove sarebbe chiamato ad affondare il colpo The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point resta sulla superficie dei fatti, riassunti con una serie di forzature il cui unico risultato è quello di far perdere potenza a un’idea di base che ben sviluppata poteva portare ad altri esisti.

Ciò detto The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point è un film che si guarda fino in fondo anche per merito delle interpretazioni di Bale e, nella parte del celebre scrittore, di un ottimo Harry Melling, bravi nell’assecondare l’idea di un’esplorazione esistenziale attorno ai rispettivi personaggi.

Dopo l’uscita tecnica in poche e selezionate sale, dal 6 gennaio The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point è visibile su Netflix.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su Taxidrivers.it)

AFTERSUN

Aftersun

di Charlotte Wells

con Paul Mescal, Francesca Corio, Celia Rowlson-Hall

UK, USA, 2022

genere: drammatico

durata: 101’

Il debutto alla regia di Charlotte Wells è un toccante racconto di quello che è il rapporto tra un giovanissimo padre e una figlia di undici anni.

Tutto ci viene mostrato, fin dall’inizio, come un ricordo perché di questo si tratta. Addirittura mentre scorrono i titoli di testa, si percepisce il suono di quello che è il ricordo: i clic di quella che può essere una macchina fotografica così come di un apparecchio di registrazione introducono lo spettatore in quello che vedrà sullo schermo. Si tratta del ricordo di Sophie, ormai circa trentenne che ricorda il viaggio fatto in Turchia con il padre quando questi aveva la stessa età che ha lei adesso. E tutto il film è il ricordo di quello che è stato e non potrà più essere, di quella comunicazione che poteva esserci tra loro, ma che di fatto è sempre stata nascosta dal “non detto”.

Una mancanza di comunicazione, ma, al tempo stesso, una riflessione su cosa si sarebbero potuti dire e su come avrebbero potuto confidarsi l’uno nell’altra per capire forse molto di più, anche del futuro.

Questo è contemporaneamente sia la trama che il messaggio che Charlotte Wells vuole dare al suo film che lei stessa ha definito “emotivamente autobiografico”.

A colpire di questo film, oltre alla storia, tremendamente autentica e sincera, è il modo in cui viene “raccontata”. Lo spettatore vede innanzitutto il ricordo come se fosse la realtà presente, ma soprattutto lo vede principalmente attraverso gli occhi di una bambina che, proprio perché ancora piccola, non è in grado di comprendere tutto, anche se si sta “aprendo” al mondo, in qualche modo.

In entrambi i sensi ad aiutare c’è una regia sempre al punto giusto. Una regia che prende per mano lo spettatore e che gli ricorda che quello che sta vedendo è un ricordo continuo, interrotto, saltuariamente, da immagini irrealizzabili che, però, paradossalmente, riportano con i piedi per terra. Una su tutte è la sequenza in discoteca nella quale si “incontrano” il padre, Calum (interpretato da un sorprendente Paul Mescal), e la Sophie adulta. Sequenza irrealizzabile o meglio inverosimile perché la Sophie adulta non può più parlare con il proprio padre né tantomeno avrebbe comunque potuto farlo all’età mostrata.

Per quanto riguarda, invece, l’altro aspetto, inevitabile trattandosi del ricordo della stessa, la Wells riesce, attraverso alcuni geniali escamotage, a farci comprendere la situazione e a far aleggiare su tutti una sensazione di presagio di morte. Lo si vede in alcune scene, quella dell’autobus che, in base a come è girata, sembra riuscire a investire il giovane padre, ma anche quelle in cui la piccola protagonista è come abbandonata in balia di sé stessa.

Sophie (un’eccellente Francesca Corio), nonostante la giovane età, ha capito molto più di quanto si possa pensare e di quanto possa pensare il padre stesso. Si accorge di dettagli, di persone, di situazioni che possono passare inosservati. E lo fa in silenzio, con quello che, solo apparentemente, è lo sguardo di una bambina che ancora non conosce il mondo. Ma Sophie è già grande, i suoi 11 anni sono in realtà molti di più. È costretta a crescere prima del previsto, tanto che nel film arriviamo a vedere invertiti i ruoli di padre-figlia. Se inizialmente è lui a spalmare la crema solare alla figlia, è lui a dirle cosa fare, dove andare, con chi stare e averne cura, con il passare del tempo, è lei che inizia a prendersi cura del genitore, arrivando anche “simbolicamente” a coprirlo con la coperta.

Interessanti, poi, sono altri due aspetti che costituiscono una parte importante dell’intero film: i silenzi e le riprese. Sono tante le scene in cui si percepisce solo e soltanto il respiro dei personaggi che, soli o in compagnia, non pronunciano parole, ma si osservano, pensano, riflettono. Un silenzio che si fa pesante e che diventa più significativo ed emblematico di tante parole.

E, infine, le riprese, un po’ sfocate, un po’ con effetti riconducibili volutamente al passato, oltre a mettere ancora di più in luce il fatto che si tratti di un ricordo che nasce da riprese effettuate da quella che all’epoca era una bambina di 11 anni, mostrano anche la precarietà di tutto questo. Ormai la vacanza in Turchia non è che un ricordo, sempre più lontano e sempre più flebile. Nonostante questo, però, Sophie ricorda momenti e dettagli importanti e fondamentali. E, anche se non si sono parlati apertamente, lei conserva in maniera indelebile il ricordo del padre, a prescindere da quello specifico momento.

Mentre tutto quello che circonda Sophie in quella vacanza è giovane, pieno di vita ed entusiasmo, il padre sembra andare in una direzione completamente opposta, quasi a sfiorire, come nella metaforica scena finale in un lungo e profondo corridoio bianco.

Un film che, nel suo silenzio, nel suo essere “sbiadito” come un ricordo, si impone, invece, contro l’eccesso e l’esagerazione di parole, immagini e molto altro.

“Aftersun” è un film che fa del ricordo un ricordo stesso.


Veronica Ranocchi