Il cavallo di Torino
di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky
con János Derzsi, Erika Bók, Mihály Kormos, Ricsi
Ungheria, Francia, Svizzera, Germania, Usa, 2011
genere, drammatico
Durata, 149’
La Fondazione Cineteca Italiana ha dedicato dal 14 al 30 aprile 2017 un omaggio al regista ungherese con la proiezione di film inediti sul grande schermo in Italia. Di seguito la recensione di Il cavallo di Torino, ultima opera del regista, vincitore dell’Orso d’argento, gran premio della giuria alla 61° Festival internazionale del cinema di Berlino. Dopo questo film il regista ha annunciato di non voler girare più film. http://oberdan.cinetecamilano. it/eventi/omaggio-a-bela-tarr/
Il 3 gennaio 1889 il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche esce dalla sua camera, che si affacciava su piazza Carlo Alberto aTorino, e vede un vetturino che sta frustando il suo cavallo che non vuole saperne di muoversi. Si scaglia contro l’uomo e piangendo cinge il collo della povera bestia. Ci sono altre versioni della storia, ma questa è la più raccontata. Da quel momento Nietzsche cade inuna pazzia lenta e lunga che lo porta alla morte undici anni dopo.
Il regista Béla Tarr prende spunto da questo episodio per l’inizio del suo ultimo film (diretto insieme alla moglie Ágnes Hranitzky): una voice over in campo nero racconta l’episodio, poi uno stacco e un uomo anziano conduce un carro tirato da un cavallo in una landa brulla, scura, desolata. Un lungo piano-sequenza – caratteristica dell’ultimo periodo del cinema del regista ungherese, così come il bianco e nero materico -, il primo di altri che compongono Il cavallo di Torino, che segue il claudicante percorso inquadrando spesso il cavallo, con la macchina da presa che si muove intorno all’animale.
Film diviso in sei parti, corrispondenti ad altrettanti giorni, la vicenda mette in scena la desolante quotidianità tra Ohlsdorfer, ilvetturino, e sua figlia, in una casa spoglia, isolata, dove un vento soffia incessante. Siamo di fronte a un’opera difficile, non consumabile (come direbbe Pasolini), che mette a dura prova lo spettatore. Una discesa all’annichilimento, in un mondo dove ormai è sull’orlo dell’apocalisse. Dio è morto, ma anche l’uomo ha fatto la sua parte, come racconta l’amico Bernhard, che va a trovare Ohlsdorfer e la figlia e racconta che “il vento ha spazzato via la città”. Uno degli eventi contati che dettano il tempo delladiscesa nell’abisso metafisico dell’uomo e della ragazza, metonimici dell’umanità. Ogni giorno succede qualcosa: la visita diBernhard, l’arrivo di una carovana di zingari che sono cacciati via,il pozzo dove l’acqua scompare, la luce che si spegne, la brace che non brucia più, il cavallo che non ne vuole sapere diabbandonare la stalla e si rifiuta di mangiare e bere lasciandosi lentamente andare all’inedia e immobilità.
Il vento della distruzione della ragione e della morale soffia incessantemente e i due cercano di scappare caricando i pochi averi posseduti su un carretto, ma il loro viaggio dura fino al crinale della collina che delimita il loro orizzonte e, come se fossero chiusi in un labirinto, ritornano al punto di partenza. Non c’è speranza,non c’è via d’uscita dal Male che ormai avvolge il mondo. I giorni si susseguono con gli stessi gesti ripetuti: vestirsi, prendere l’acqua al pozzo, fare colazione con un bicchiere di liquore e cenare con due patate bollite divorate su un tavolaccio. I gesti sono sempre uguali a sé stessi con lunghi piani-sequenza che determinano la fissità del tempo e dello spazio, come un Sisifo però ormai sfatto dalla fatica di vivere. La brutalità della vita è data dalla ripetizione costante e lenta dei movimenti. I piani-sequenza cambiano il punto di vista della macchina da presa ogni giorno, così che la loro ripetizione è inquadrata sempre in modo differente, producendo uno scarto che rivela sempre una visione differente. Ma il cambio del punto di vista, questo svelamento graduale dello spazio, non produce che un rafforzamento dell’immobilità del tempo.
Un Tempo alla sua Fine: la pazzia che ha colpito Nietzsche, ha colpito l’intero mondo. Siamo resi schiavi, legati dalla ripetizione dei gesti quotidiani, vivendo una vita priva di emozioni, ridotti a bestie rinchiuse nelle nostre gabbie, dove il Nulla ci attende. Tarrha dichiarato il proprio pessimismo sul destino della nostra civiltà e in più interviste ha annunciato che questo è il suo ultimo film. Del resto, Il cavallo di Torino è opera assoluta e totalizzante, di un’angoscia cosmica e metafisica, e dopo un’opera conclusiva come questa appare difficile per chiunque aggiungere altro sul destino dell’Umanità.
Antonio Pettierre
2 commenti:
A me non è piaciuto, un film io lo devo vivere, questa opera che a differenza de Le Armonie di Werckmeister è un mortorio assoluto, il titolo che ho citato prima è un capolavoro assoluto, e anche Satantango lo è...questo qui invece no, mi è sembrato persino fuori dalla realtà, gli esseri umani per quanto piccoli che siano e per quanto inetti, sono più profondi per come vengono descritti in questo film, per quanto mi riguarda mi sono sentita presa in giro.
Posso comprendere il suo punto di vista. Ma credo che Tarr abbia fatto un opera certo difficile e caustica, ma che parli in senso metafisico e nichilista della fine della civiltà. Va oltre alla semplice rappresentazione dei personaggi che sono spogliati a semplici burattini, con un grado zero di narrazione. Poi sono d'accordo che "Le armonie di Werckmeister" sia un capolavoro.
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