Alla stregua di maverick come Jerome.D.Salinger e Thomas Pynchon e con un rigore ancora più ossessivo rispetto a quello di geniali nevrotici come Stanley Kubrick e Woody Allen, il regista de “La rabbia giovane” e “La sottile linea rossa” è riuscito nell’impresa di sparire dentro i suoi film. Nell’era delle immagini e della comunicazione, Terrence Malick si è dimostrato capace di ribaltare i termini della rappresentazione di se stesso dando vita a un’osmosi tra arte e vita che gli ha permesso di diventare parte integrante del suo cosmo cinematografico. Non più regista in carne e ossa ma risultato di una dissoluzione espressiva che oggi c’è lo fa ritrovare sotto forma di pixel nelle sequenze che compongono il corpus del suo personale canone. Applicato alla psicologia dell’interessato, la metafora spiegherebbe, per esempio, la voglia di fare che negli ultimi anni lo ha portato a realizzare un numero di film uguale a quelli prodotti nell’arco dell’intera carriera e che, alla luce di quanto appena detto, diventerebbe la spia di una presenza tornata a manifestarsi e ad essere persino urgente attraverso i suoi lavori. D’altronde, che il cinema per Malick sia diventato il mezzo per trasfigurare la propria vita c’è lo dice la biografia di Rick (interpretato da un iconico Christian Bale), il protagonista di “Knight of Cups”, anch’egli regista (di commedie) e, alla stregua del nostro cineasta, afflitto dal dolore per la perdita di un fratello scomparso in giovane età. Ad avvalorare questa tesi esiste una corrispondenza diretta tra quella sorta di dialogo interno (apparso per la prima volta ne “La sottile linea rossa” e dopo in “The Tree of Life”, assurto a caratteristica primaria del dispositivo cinematografico messo a punto dall’autore texano) che oramai costituisce, allo stesso tempo, la trama delle storia e i suoi dialoghi, e gli studi di filosofia affrontati in giovinezza culminati tra l’altro con l’ottenimento di una cattedra universitaria, che in “Knight of Cups” offrono gli strumenti per interrogarsi e interrogare sul destino dei personaggi e più in generale, attraverso le continue astrazioni operate sul contesto narrativo della storia, sulle sorti dell’intero genere umano.
Fantasmi d’autore
Sulla base delle premesse appena enunciate, risulterà più facile orientarsi nella giungla di segni e nelle molte suggestioni disseminate qua e là in una trama che nelle sue istanze anti-narrative toglie allo spettatore i riferimenti del cinema più classico e commerciale. Prova ne sia la mancata centralità della figura principale, estromessa dal suo ruolo di traghettatore della vicenda dal prevalere delle sollecitazioni tematiche ed estetiche (quest’ultime stimolate dalla fotografia del grande Emmanuel Lubezki), elementi chiamati a definirne identità e motivazioni. Di Rick infatti conosceremo poco e nulla rispetto alle occupazioni professionali che lo riguardano, a malapena intuite dalle parole di un consulente della Major che vorrebbe ingaggiarlo per la conduzione di un progetto faraonico e in parte ricavate dal glamour hollywoodiano delle frequentazioni mondane in cui lo vediamo attorniato da avvenenti fanciulle, come pure, e questa è la cosa più spiazzante per lo spettatore non avvezzo al cinema del cineasta di Waco, delle cause che distogliendolo dagli interessi per le cose quotidiane hanno spalancato le porte alla crisi esistenziale in cui lo ritroviamo all’inizio del film. Inoltre – a fare da barriera ad un approccio cosiddetto normale della visione – c’è il particolare, davvero trasgressivo per un prodotto interpretato da grandi star (oltre a Bale figurano in ruoli di prima fila Cate Blanchett, Natalie Portman e Teresa Palmer), rappresentato dal fatto che il suono delle parole di Rick non proviene dalle conversazioni con gli altri personaggi ma è il risultato dei pensieri e delle riflessioni puntualmente riferiti dalla voce fuori campo dell’uomo che insieme a quella di un osservatore onnisciente (Dio ?) completano – e il più delle volte ampliano – il significato di ciò vediamo sullo schermo: un protagonista muto – come era già successo, tralasciando le vere e proprie mutilazioni operate su altri ruoli, tipo lo Sean Penn di “Tree of Life”; parzialmente, il Brad Pitt (ancora “The Tree of Life”), il Colin Farrell (“The New World”) e il Ben Affleck (“To the Wonder”) – che, nel caso di Bale, esaspera la tendenza di Malick a utilizzare gli attori non per i meriti artistici delle loro carriere ma per il fascino della presenza fisica.
Lezioni di cinema
E qui veniamo al dunque. Perché se è vero, come abbiamo appena detto, che lo sguardo d’autore di Malick si prende la rivincita sulla dilagante uniformità imposta dal mainstream contemporaneo, è altrettanto fuor di dubbio che ad un’analisi meno frettolosa il testo filmico di “Knight of Cups” risulti più strutturato e leggibile di ciò che potrebbe sembrare. Basti pensare agli spunti offerti dalla divisione della trama in capitoli intitolati ad una carta dei Tarocchi (La Luna, L’Eremita, Il Giudizio et.), che nell’accezione della cartomanzia sintetizza il tema dominante e la drammaturgia delle singole sezioni narrative. E ancora, ricordarsi della densità di informazioni contenute nei primi quindici minuti di girato dove, attraverso un doppio racconto – quello derivato dal montaggio incrociato di sequenze a metà strada tra l’onirico e il surreale e l’altro, scaturito dal coro di voci che vi si sovrappone – Malick fissa una volta per tutte la corrispondenza tra l’idea di esistenza, espressa per l’appunto dal sostrato dogmatico che fa da presupposto ai soliloqui disseminati nel corso della vicenda, e la sua rappresentazione, trasfigurata con puntuale pragmatismo nelle circostanze in cui ritroviamo Rick e in subordine le tre donne che in qualche modo ha creduto di amare. Valga come esempio – ad inizio film – la simmetria tra la favola del figlio del Re inviato in una terra straniera alla ricerca di una prezioso tesoro e lì rimasto per aver bevuto dalla coppa che gli ha fatto dimenticare chi fosse e quale fosse lo scopo della sua missione (chiara allusione al peccato originale che è costato all’uomo la cacciata dal paradiso terrestre) e le allegre libagioni che sono la causa della perdita di coscienza di Rick stramazzato su un divano nella sequenza del festino organizzato all’interno di un grattacielo metropolitano. Ma non basta. Perché nel raccontare il percorso salvifico che spinge il protagonista a riconsiderare la propria esistenza alla luce di nuove e più drammatiche consapevolezze, Malick rilancia i termini di un cinema fatto a misura del suo regista, organizzando una sorta di epifania estetica che risulta tanto più sorprendente quanto proveniente da un individuo restìo a parlare di sé stesso e del proprio lavoro. Così facendo,“Knight of Cups” diventa una vera e propria lezione di cinema in cui dopo anni di silenzio e libere interpretazioni veniamo a scoprire almeno in parte i segreti di una forma senza eguali. A dircelo è lo stesso Malick attraverso le frasi che ascoltiamo durante il film. Così, per chi si fosse chiesto da cosa derivasse la scelta di attori e attrici dotate di eccezionale attrattiva, c’è il fatto che “alla visione di una bellissima donna o di un uomo, l’anima imprigionata dentro il corpo ed immemore di quello che fu si ricorda delle bellezza che un tempo conosceva in paradiso”. Ed è sempre il paradiso e il ritorno ad esso a rendere il senso della via al cielo in cui si rifugia la mdp nei molti dei piani sequenza del magistero malickiano. E ancora, in termini di stile, è la discontinuità spazio temporale del narrato e la frammentazione del montaggio a rendere la dannazione dell’uomo, che è quella di “non trovare il senso della vita, i frammenti della quale sono destinati a rimanere separati” e infine, ma si potrebbe scrivere molto altro vista la loquacità del Nostro, è il tono onirico a cui accennavamo all’inizio che è il modo, l’unico – secondo le parole della voce off – per raccontare in forma di sogno il viaggio del protagonista pellegrino sulla terra. Se è quindi ragionevole avanzare qualche perplessità sull’incisività del modello filmico adottato da Malick questa di certo non può essere addebitata a una presunta mancanza di chiarezza espositiva ne tantomeno alla possibile conseguenza di un’involuzione artistica. Al contrario e nella maniera di cui abbiamo appena scritto “Knight of Cups” è pervaso da un’inquietudine che magari, questo si, lo porta ad andare sopra le righe e a rischiare il ridicolo con frasi del tipo “Tu non vuoi l’amore ma l’esperienza dell’amore”; o ancora, lo spinge a ritornare su strade già battute, proponendoci composizioni sceniche ambientate in riva al mare e all’interno di anonime architetture abitative che, nella contrapposizione emotiva con cui Malick c’è le mostra (la prime illuminate da una luce calda e accogliente, le seconde fotografe in maniera fredda e impersonale) rimandano a uno dei temi più cari al regista (a partire da “I giorni del cielo”) che è quello del vagheggiamento a uno stato di natura compromesso dall’avanzata della civiltà tecnologica ma non per questo meno anelato. In realtà queste variazioni sul tema, inserite nel flusso di coscienze di “Knight of Cups” diventano lo specchio di un’esistenza che nel perenne movimento tradisce il disagio di un’umanità incapace di trovare risposta alla propria infelicità. Presentato in anteprima e in concorso alla 65ª edizione del Festival di Berlino nel febbraio 2015 “Knight of Cups” esce in Italia dopo lunga attesa e in un numero ridotte di copie. Il prezzo da pagare per un’arte senza compromessi.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su consecutivo.it)
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