“La grande monnezza”, “La grande schifezza”, “La grande cagata”, “Film osceno”. Sono innumerevoli gli epiteti e le allegorie allergiche al film (e più in generale al cinema?) di Sorrentino, recentemente vincitore alla notte degli Oscar; e sul fatto che i premi dell’Accademy siano tutt’altro che garanzia di alto valore artistico siamo tutti d’accordo (miglior film ad Argo lo scorso anno, il continuo snobbare Di Caprio ed ancora peggio Joaquin Phoenix, scandalosamente nemmeno candidato quest’anno). Certo è che neppure si può affermare il contrario. Correva l’anno 1999, quando Roberto Benigni ebbe il riconoscimento per “La vita è bella”. Vorrei porre per un attimo l’attenzione sui titoli di questi due film, entrambi sintesi universale dell’arte e dell’uomo, che lascia vagamente presupporre una predisposizione tutta nostrana a toccare i picchi più alti dell’umanità, l’italianità vista come perenne risorgimento (come intuitivamente scriveva qualche giorno fa l’amico Carlo Cerofolini) in continua evoluzione ed espansione. E le critiche a “La grande bellezza”, che ora dilagano sui social tramite improvvisati opinionisti propaganti non-comunicazione murata (modalità vacue che richiamano “l’ars retorica” dei vari Grillo e Travaglio nazionali), provengono, ancor prima del luminoso percorso internazionale, da quella critica ingessata ed immobile che si oppone al progresso dell’arte e del mezzo cinematografico, gli stessi che continuano a sminuire l’estetica Felliniana e portare avanti la bandiera del cinema che fa bene soltanto agli analisti dei film. Ed è pur vero che in Italia, da sempre, si esce fuori dal campo di interesse, sia del pubblico che della critica, se non c’è una denuncia verso il sistema di crisi economica e morale; ideologisti abortiti dal pensiero di sinistroidi che si fanno portatori unici dell’ intellettualità e che promuovono esclusivamente l’impegno civile; illustri esempi sono l’accoglienza in Italia di “Arancia meccanica”, additato come film di destra, (si veda del resto in campo musicale la posizione della critica sul duo Battisti – Mogol). Insomma il bello fine a sé stesso possiamo solo seminarlo, lasciando che possa essere raccolto solo all’estero, e chiudendoci tra le nostre quattro mura ad inveirci contro inutili dibatti privi di fondamento e base conoscitiva. Il lungimirante blablabla sorrentiniano diviene paradossalmente diegetico alla maggior parte dei detrattori pre e post oscar, che tutto giudicano tranne che il film in sé. I motivi per cui un film del genere può non piacere sono tanti, ma sono sempre quelli sbagliati a farla da padrone (ma sul fatto che spesso sino sbagliati anche i motivi che portano ad esaltarlo non c’è da dibattere). Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente ma non ci è riuscito; Paolo Sorrentino ci ha fatto un film, e la moltitudine (specie del web), il niente, continua ad alimentarlo, inconsapevole di accrescere il potere ed il fascino nel tempo di un film, vi piaccia o no, che ha l’immortalità impressa sulla pellicola.
Antonio Romagnoli
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