di Arnaud Desplechin
con Emmanuel Salinger, Thibault de Montalembert, Jean Louis Richard
Francia, 1992
genere, drammatico
durata 139'
Per il suo secondo lungometraggio Desplechin sceglie di lavorare all’interno del genere utilizzando i codici del “Crime Movie” a favore della propria libertà autoriale. Per far questo costruisce una storia che tiene conto del modello di riferimento, a partire da un incipit capace di giustificare l’ossessione del protagonista e l’indagine che ne consegue, e poi riuscendo ad allestire un “nido di vipere” all’altezza della posta in gioco, con un protagonista la cui ordinarietà sembra fatta apposta per esaltare l’eccezionalità degli eventi i corso. In realtà il meccanismo di genere viene depotenziato da una serie di scelte che privilegiano, da una parte le divagazioni legate alle delusioni di una generazione che a partire dai “Patti di Yalta” (oggetto del contendere nella scena che apre il film) ha dovuto fare i conti con il fallimento dell’utopia comunista e con i compromessi scaturiti da quelle decisioni, e dall’altra si sofferma sulla rappresentazione di un esistenzialismo che si divide tra un decoro borghese difeso a spada tratta (ed è per questo che Mathias deve essere fermato) e le ipocrisie dei rapporti umani (l’amore rimane ancora una volta una chimera). Desplechin getta le basi del suo cinema attraverso un personaggio che vince la sfida con il sistema ma perde quella con se stesso: nell’intento di mantenere l’equilibrio tra cuore e cervello, alternativamente rappresentate dalla professione ufficiale (la medicina legale) e da quella ufficiosa (l’investigatore) finisce per perdere il controllo delle cose diventando di fatto alieno al suo stesso mondo; in questo senso egli diventa il peccato originale ed insieme il prototipo dell’uomo Desplechiano, marchiato per sempre da questa iniziale sconfitta. E come se il regista, approfittando delle sventure del suo eroe, prendesse fin da subito le distanze da una resistenza politica che soprattutto in Francia è ancora uno stile di vita (basterebbe ricordare le annose questioni legate all’estradizione di molti terroristi italiani) ed invece nella filmografia del nostro diventerà qualcosa di cui si può fare a meno. Seminale è anche l’idea di famiglia come luogo di morte, Topos già presente nel precedente “La vie des morts”, mediometraggio del 1991 in cui il suicidio di una persona cara mette in discussione le vite di amici e parenti e che si conferma anche qui nella relazione tra la morte del padre di Mathias e l’inizio di una disgregazione familiare che, come sempre succede nel cinema di Despleschin, va oltre i legami di sangue e si allarga ad amici e conoscenti. Le famiglia diventa così una “Comune” in cui si combatte la battaglia finale, quella in cui si decide la vita o la morte dei suoi componenti.
In concorso al Festival di Cannes del 1992 il film ha vinto il premio Caesar del 1993 per il miglior attore maschile (Emanuelle Salinger)
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