L’inizio del film è strepitoso: in un atmosfera volatile e misteriosa fatta di inquadrature ravvicinate e prospettive che sfidano le leggi di gravità , guardiamo il personaggio di Willem Dafoe adagiato su un divano in uno stato di incosciente dormiveglia (eyes wide shut) mentre sembra osservare o forse sognare le gambe di una graziosa ballerina (Manuela Zero) in calze bianche e tutù rosa. L’assenza del sottofondo acustico si mescola con una fonte luminosa innaturale e metafisica, simile a quella di certi dipinti caravaggeschi, in cui la plasticità dei corpi sembra il frutto di una consistenza senza peso e la dimensione del tempo si cristalizza in un istante in cui sembra dischiudersi la verità del creato. Gli sguardi si incrociano senza vedersi lasciando intendere un legame che contrasta con l’isolamento delle loro figure riprese singolarmente e circondate da un oscurità che potrebbe nascondere distanze siderali.
Un raccoglimento estatico modulato sulle frequenze di un cinema da camera e fortemente introspettivo che si rompe nella scena successiva, in cui sembra riversarsi tutto quello che ci era stato risparmiato in termini di dinamismo cinematografico ed opulenza espressiva, con un primissimo piano di corpi femminili esibiti e scrutati nelle pose lascive di una musica da lap dance, mentre sullo sfondo intravediamo uomini in cerca di un arrapamento a pagamento. E’ l’inizio di un sabba frenetico e sguaiato in cui in rapida successione veniamo a conoscenza dei problemi di denaro che rischiano di far chiudere il Paradise, un gogo club gestito in maniera fin troppo estemporanea da Jack Ruby (Dafoe), eroico e patetico come si conviene a tutti i personaggi Ferrariani, e della variopinta fauna che vi prende parte. Il sogno di una felicità concreta seppur temporanea viene continuamente spezzato dal ritmo sincopato di dialoghi argot al limite del tragicomico e dalla congestione di situazioni tipiche della screw ball comedy che sembrano voler destituire il sogno dell’improbabile impresario. Ed è proprio nell’atmosfera onirica e pierrottesca della seconda parte della storia che riprendere le atmosfere ovattate della sequenza d’apertura per mostrare la vena più poetica del regista, quella in cui il maledettismo tout court lascia il posto alla spontaneità dell’emozione e soprattutto all’amore incontrastato per la messa in scena di quel sogno qualunque esso sia, che il film si ricompatta, riprendendo a ragionare sulla ragioni di un arte che non può essere disgiunta dagli agguati della vita, sempre pronta a riservare sorprese ed incoffessabili segreti. Dopo Mary Ferrara continua la sua esperienza italiana con un'altra opera che sembra rivolta innanzitutto a se stesso, per le componenti autobiografiche su cui è costruita (il mondo dello spettacolo con le sue vicissitudini ma anche le derive della dipendenza) e per la presa di coscienza di una personalità esaltata ed insieme depressa da un umanità debordante ed egotista. GoGoTales è’ un dietro e fuori le quinte sulle dinamiche di un cinema (il Paradise) e di un autore (Jack Ruby) che tracima direttamente dagli alti e bassi della vita. Le Gogogirls, quasi sempre in “abiti da lavoro” e pronte a tutto pur di portare a casa la pagnotta, sono l’elemento che più di altri occupa la scena, ma la loro proposizione continuamente associata a qualcos’altro ed accompagnata da un cabaret che ne disinnesca le pulsioni erotiche diventa il simbolo di una mercificazione del corpo evidente nelle sequenze che alternano in rapida successione i dettagli anatomici delle ballerine e le discussioni intorno alla cronica mancanza di denaro o nel dettaglio delle banconote (false) che ornano mutandine e giarrettiere e che il regista considera, come ha ampiamente dimostrato con una filmografia in cui il feticcio mediatico delle attrici prevale sulla loro sostanza attoriale (su tutte Madonna e Claudia Shiffer), come un arredo del locale, necessario come tutto il resto alla riuscita dell’ impresa. Di fronte al palcoscenico che divide l’arte dalla vita, Ferrara si iscrive al partito di coloro che le considerano momenti inscindibili di un'unica esistenza e ne afferma l’unità evitando movimenti di macchina perentori (la telecamera non da la sensazione di attraversare quello spazio ma di rimanervi sempre di fronte) ma spostando continuamente le prospettive e collegandole attraverso le azioni e gli spostamenti dei protagonisti ed il senso del loro ragionamenti. Un umanesimo ribadito da riprese effettuate ad altezza uomo, per affermare una totale condivisione dell’esperienza in atto, e con una distanza che non comprime i personaggi ma li lascia liberi di agire, di esprimere la loro natura senza alcun giudizio morale. Nulla si sovrappone davanti all’occhio dell’autore e quando questo succede, come nei fotogrammi in cui la realtà è filtrata attraverso gli schermi di un impianto a circuito chiuso, con immagini freddamente sgranate e monocolori, ciò che appare risulta malato ed ambiguo e soprattutto privo di quella vitalità che accompagna ogni momento della pellicola.
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