L'inizio è col botto: le panoramiche di un paesaggio americano desertico e provinciale attraversato da una macchina su cui si sofferma l’attenzione della telecamera si alternano a primi piani dell’uomo che la guida, in fuga o forse all’inseguimento di se stesso prima ancora che degli altri: fermi immagini rapidissimi ed una fotografia sgranata sembrano fatti apposta per lasciar passare una serie di istantanee che si sovrappongono una sull'altra, riproducendo la confusione mentale e le ossessioni del protagonista, un funzionario dello Stato che si occupa della sorveglianza di cittadini schedati per reati di natura sessuale.
Divorato dai sensi di colpa per una morte di cui si crede responsabile, l'uomo sfoga la sua rabbia perseguitando gli insoliti clienti con modi che spaziano dall’insulto verbale all’agguato fisico, che lo stesso realizza con metodica ferocia. Un inferno di solitudine e di rabbia destinato a restare tale se non fosse per quelle scene iniziali in cui si ritrovano i motivi di un film (la sparizione di una ragazza, il contraltare pulito e quasi verginale rappresentato dalla collega del protagonista) che parla di peccato e redenzione, con una storia che si mantiene continuamente a contatto con il lato più oscuro dell’essere umano, alimentandolo con particolari e situazioni che appartengono ad un campionario patologico che sembra non risparmiare nessuno. Rispetto ai modelli del genere quello di Gere appartiene alla schiera degli antieroi, non ultimo il Batman di Nolan, di cui risulta più facile distinguere le analogie più che le differenze con il mondo a cui si oppone; ridotte le distanze con la materia del contendere ed in assenza delle istituzioni civili, punti di riferimento disintegrati in una miriade di interessi e particolarismi, all’individuo non resta che l’iniziativa personale, la crociata portata avanti con una dialettica priva di interlocutori; tutto, anche il sesso, che nel film è sempre legato ad immagini di sofferenza e morte, diventa puro antagonismo, strenua opposizione all’invasione del proprio spazio personale. Fedele al cliché del cinema noir, Lau (Infernal Affair), è più interessato alle atmosfere ed allo sviluppo delle psicologie che al meccanismo dell’indagine, costruita con una linearità che contrasta con lo stile frammentario e l’ambiguità compositiva dell’opera. La difficoltà di interpretare una realtà in continua mutazione, la complessità della natura umana continuamente minacciata dalla sua stessa essenza, ma anche l’eterno contrasto tra bene e male, con quest’ultimo in netta minoranza, sono rese con un andamento sincopato, non solo nel montaggio ma anche nelle dinamiche interne, in cui la sintesi del video clip convive in maniera dinamica con una rappresentazione del tempo soggettiva ed indipendente dallo sviluppo visivo, che infatti si alterna, con tutte le sue potenzialità, su un sottofondo pressoché immutabile di suoni e parole che sono la rappresentazione della vita interiore del protagonista. Richard Gere è efficacissimo nell’interpretazione di un uomo capace di tutto mentre Claire Denis gli tiene testa con una mix di determinazione e vulnerabilità. A differenza di altri colleghi che l’avevano preceduto (vero Wong Kar Wai ?) l’esordio statunitense di Lau riesce ad interpretare il malessere americano senza snaturare il proprio cinema che continua a distinguersi per l’efficacia e la comunicatività dell’espressione visiva.
1 commento:
mi è piaciuto. il film solleva una serie di interrogativi su problemi complessi e inquietanti, tutti legati alla violenza dell'uomo, la creatura più feroce del pianeta. tornando a casa mi sono posto questa domanda: tutti gli altri esseri uccidono per il cibo o per il territorio, noi perché uccidiamo? buon cinema a tutti
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