Interview è il titolo della famosa rivista americana creata da Andy Warhol per dare voce alle icone del mondo dello spettacolo americano. Uno spazio immaginifico eppure reale dove l’immaginario popolare concepito sulla metrica di quello mediatico e spettacolare si legava a quello personale e privato delle “Star di consumo”. Interview è anche un primo film di una trilogia scritta e diretta da Teo Van Gogh, l’iconoclasta regista olandese, ucciso da un militante islamico per la sua presunta irriverenza nei confronti della religione coranica. Infine Interview, ultimo atto di questo breve excursus monotematico è insieme il remake del film olandese, diretto ed interpretato (insiema a Sienna Miller) da Steve Buscemi ed anche la sintesi tra la frivolezza del modello cartaceo menzionato all’inizio dell’esposizione, in cui l’intervista era l’occasione di un ulteriore spettacolo e quello militante (e perciò serio) del cineasta europeo. Paradossalmente il doppione americano, oltre a garantire una notorietà inaspettata e forse una nuova vita alle opere dell’artista defunto ( è ancora una volta lo strumento mediatico a leggittimare l’esistenza degli oggetti) conferisce alla storia un surplus di significato che amplifica la sovrapposizione tra cio che vediamo e cio che è.
Se infatti lo strapotere dello strumento tecnologico e mediatico, facitore di senso ma anche simbolo di un umanità incapace di rapportarsi con se stessa senza la presenza di un agente esterno (nel film i protagonisti sembrano derivare da qualcos’altro: una telecamera, una persona, un computer, la televisione, una soap opera, il cellulare) non puo trovare migliore rappresentazione nella realtà americana, lo stesso accade anche per l’icona divistico e sessuale che Sienna Miller si porta con sé e che sembra corrispondere fino all’ultimo al suo corrispettivo filmico, un attrice con un successo da rotocalchi e film commerciali, impegnata a promuovere se stessa sulle pagine impegnate del giornale per cui lavora il riluttante giornalista (il suo direttore gli ha assegnato l’incarico dopo aver scoperto che i suoi articoli di politica internazionale erano gonfiati con dettagli inesistenti) che la deve intervistare.. Tutto sembrebbe scontato ma gli stereotipi iniziali- lei bella e stupida/lui colto ed intelligente saranno ribaltati nel corso di una nottata (l’iniziale distacco tra le parti in causa si trasformerà in un momento esperienziale che assomiglierà ad un resoconto psicanalitico) che sembrerebbe riconfermare il relativismo del motto “nulla è come sembra”. Simile al teatro, che il film ricalca nel rispetto delle sue dinamiche interne (unità di luogo/tempo/spazio) Interview diventa puro cinema quando la cinepresa si incolla alle figure che occupano la scena per restituire al corpo la sua posizione di privilegio e relegando il resto (i discorsi, le argomentazioni, le prese di posizione) ad un essenzialità completare ma non necessaria. Di fronte al fascino seducente ed al corpo peccaminoso della bella protagonista non esiste alternativa se non assumersi il rischio di venirne surclassato. Un ultimo tango a New Jork che ci ferma sul più bello per dispensarci una visione del mondo dove non c’è posto per i teneri di cuore.
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