giovedì, marzo 14, 2019

INVISIBILI: BLUE MY MIND

Blue my mind
di, Lisa Brühlmann
con, Luna Wedler, Zoë Pastelle Holthuizen, Regula Grauwiller, Georg Sharegg, Lou Haltinner, Yael Meier.
Svizzera, 2017
genere, drammatico
durata, 95’


Sibili di morte e cerchi di musica sorda
fanno salire, allargarsi e tremare come
uno spettro questo corpo adorato; ferite
scarlatte e nere spiccano sulle carni superbe
- A.Rimbaud -



La solitudine, la rabbia, l’orrore dei volti e degli oggetti, la precoce stanchezza del mondo sono solo alcuni degli stati d’animo in cui s’avvoltola l’adolescenza, crinale durante il quale si rincorrono favolose iniziazioni e atroci disinganni. Gradino dell’esistenza, il predetto che, però, ancora e nonostante tutto, recalcitra di fronte alla sorte che da sempre le squaderna innanzi la regina delle nostre doglianze - Sua Maestà la Modernità - a dire la docile rassegnazione implicita nelle fogge allettanti ma tossiche di ennesima categoria merceologica.

Ne sa qualcosa Mia/Wedler, abbiente liceale da poco trasferitasi in un’anonima riserva residenziale nei sobborghi di Zurigo. Inquieta e riottosa - le chiome lunghe e biondo-ramate, chiari gli occhi, efelidi sparse e incarnato madreperlaceo - stenta a integrarsi nell’ignoto ma solito milieu farcito di coetanei altrettanto se non più agiatamente disadattati. Ciò che più di ogni altra cosa preme, in verità - tra assunzioni massicce di alcool e droghe, scopate occasionali, estemporanei esercizi di taccheggio nei centri commerciali e lunghi istanti di attonita riflessione al caldo torpido di un’estate incipiente - è un ribollire metabolico che non si esaurisce nei previsti scompensi ormonali dell’età ma, piano piano, assume le forme di una vera e propria mutazione. D’altro canto, se le giornate sembrano succedersi tutte uguali - a mollo nella vacuità all’apparenza organizzata dell’istituzione scolastica; nell’inettitudine decorosa ma ipocrita della famiglia pronta, dopo un rimbrotto (“Ma non ti manca nulla, maledizione !”, apostrofa il padre) o uno stupore ottuso, a riproporre il trito schema a base di bastone - regole e ammonimenti, peraltro di continuo infranti - e carota - la nota irresistibilità presunta della douce vie de merde - contrappasso/trappola di tanta borghesia affluente; nell’innocuo ribellismo di una gioventù messa a pascolare negli sgargianti recinti del conformismo consumistico non appena sgravati dai rispettivi lombi materni - è solo da quando il corpo (e questa dimensione prettamente biologica fornisce all’esordio della Brühlmann uno dei suoi punti di forza, di caratura e valenza affine a quello di un’altra opera prima, pressoché coeva - 2016 - “Raw”, della Ducournau, in cui la giovane aspirante veterinaria Justine affronta il nodo della propria autentica natura rivelata dalla brama insopprimibile di carne umana) prende a parlare una lingua inaspettata (la lingua blu dello smarrimento e della rivolta - blu è il tono prevalente del film, nella doppia accezione cromatico/emotiva che irradia di luce contrastata gl’interni o punteggia di piaghe le gambe di Mia; che regola il suo termometro intimo o rievoca ancestrali trascorsi marini, et. -), che, in perfetta corrispondenza, l’incalzare del tempo e il retaggio organico finiscono per modulare la stessa voce che schiude un panorama parimenti sinistro e gravido di conseguenze. Mia, in altre parole, s’avvede, tra tante e varie avvisaglie (tipo, assecondando una furia improvvisa, sgranocchiare qualche pesce direttamente dall’acquario di casa per vomitarlo subito dopo), che due dita di un piede sono fuse l’una nell’altra. Pensare alla sindattilia - quella di tipo 1, detta anche Zigodattilia - è il passo più logico e rassicurante, buono per mettere d’accordo tanto la Medicina che il Senso Comune. Non fosse che il fenomeno futuro non si circoscrive e non si cura. Anzi: presto comincia a coinvolgere gli arti inferiori per intero, desquamandoli, nonché conferendo loro una vivida sfumatura pervinca. Davanti a tale oltraggio che, tra l’altro, come spesso accade, attira e repelle il prossimo (chi sta intorno a Mia, infatti, da consumato perbenista, resta tanto intrigato dalla volubilità dei suoi comportamenti che spesso la inducono a gesti brutali e/o lascivi, da strano ma desiderabile animale, quanto si scopre disgustato dalle stazioni successive che subiscono le sue fattezze), non si pone che l’alternativa della morte o l’estremo ardire nietzschiano di diventare sé stessi, per davvero, anche se ciò comporta assumere le sembianze di una… sirena.

Ciò che in prima battuta potrebbe sembrare la descrizione - per quanto fantasiosa - di un calvario personale, si rivela altresì, in questo che, tutto sommato, può definirsi un apologo (per quanto minimale anche negli effetti, mai prevaricatori rispetto al dramma centrale, con i piani di ripresa spesso e volentieri stretti sulla protagonista), come un perentorio percorso di rivelazione interiore se non, persino e volendo, la risposta allergica all’idiozia soddisfatta/tetra dell’ambiente circostante entro cui, falliti gli ordinari apporti del cosiddetto consorzio umano (del tutto assenti o pietosamente irrilevanti quelli del comparto adulto; burocratico/finto-permissivi/indifferenti quelli del sistema), la variabile mostruosa diventa null’altro che l’ulteriore dimensione di una realtà tutta da costruire. Di fatto, è così che Mia, spinta da un nuovo corpo che pulsa di inediti appetiti e soprattutto allude a un diverso (metaforico) mondo, abbandona una consuetudine che, via via, scopre non appartenerle. Non le appartiene in primis la famiglia d’origine, reticente a fornirle informazioni precise sulla sua non comune provenienza. Non si ritrova, poi, nel gruppo di Erinni tascabili che la distraggono ma più che altro la usano: Gianna/Holthuizen, Vivi/Meier e Nelly/Haltinner non possono offrirle, a ben vedere, che un solidarismo sororale utilitaristico. E tantomeno si sente attratta dalla schiatta maschile che, quando non ne approfitta, la umilia. Naturale, allora, che da un’iniziale incertezza venata di ribrezzo (l’evidenza della propria sopraggiunta deformità), la creatura approdi a una coraggiosa e promettente maturità (“Non hai paura ?”, interroga Gianna, prima dell’inevitabile separazione. “No. Non ho paura”, risponde calma Mia), per dire che è sano, è giusto, è vitale quantomeno andare via da questo Continente in cui razzola la follia.

Ah, sparire meravigliosamente !
TFK

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