sabato, febbraio 23, 2019

MANDY

Mandy
di, Panos Cosmatos
con, Nicolas Cage, Andrea Riseborough, Linus Roache, Bill Duke, Olwen Fouéré
USA 2018
genere, azione, thriller
durata, 121’

Coprire di scherno la carriera recente di una monade cinematografica come quella incarnata da Nicolas Cage - costruita in toto, ricordiamolo, su un’ottantina di film - può considerarsi per qualcuno esercizio variamente ameno. Sgombrando però il campo e dicendo subito che il buon Nicolas vi ha messo del suo - almeno a partire, un esempio come un altro, da “Il prescelto” di LaBute (2006), se non, addirittura, da certe esagerazioni e/o autoindulgenze recitative (che, magari non a caso, gli sono valse il suo unico Oscar), viste in “Via da Las Vegas” di Figgis (e già risaliamo al 1995), via via attraverso pellicole il cui carattere alimentare è più un indulgente stratagemma dialettico che la constatazione di un più o meno accertato stato di necessità (insistenti si sono inseguite le indiscrezioni che raccontano dell’abuso di uno dei tanti cocktail tossici serviti da Hollywood, quello a base di un tenore di vita tenuto bene al di sopra dei già non comuni standard divistici e un rapporto, mettiamola così, conflittuale col fisco americano, notoriamente assai poco tenero) - nello scavare buona parte della fossa di derisione da cui stenta ancora a uscire, è pure vero, d’altro canto, che tale sorta di deriva o stravagante cupio dissolvi che dir si voglia, una volta incanalata entro una griglia che ne irreggimenta gli eccessi, rendendola di fatto funzionale a un particolare contenuto narrativo o compatibile col personale estro di un autore, finisce per parlare un lingua molto meno scontata di quanto probabilmente si è disposti ad ammettere.


Capita, infatti, che un regista quantomeno singolare come Panos Cosmatos - figlio del più conosciuto George Pan, artigiano di una qual solidità spettacolare - si appropri di quelle che potremmo definire le prerogative dell’ultimo Cage - il caracollare stanco; la fissità di sguardo spesso affine a quella di un grosso botolo smarrito; l’eloquio lento e talora borbottante; l’inclinazione masochistica o cartoonescamente distruttiva dell’agire; una malinconia arresa, a volte dai tratti quasi infantili - per farne amalgama detonante di un delirio scopertamente anti-naturalistico, lo stesso alla base di questo suo ultimo lavoro, all’interno del quale Cage, qui nei panni di Red, taciturno taglialegna, mena la sua routine muscolare condividendola e addolcendola con la presenza della Mandy del titolo (una strepitosa Riseborough, sorta di proto-femmina di traslucida e sfuggente bellezza, sul modello delle longilinee e pallide creature di Cranach passate al frullatore della moderna rivisitazione della Tradizione, tra richiami al folklore e mercificazione pop; lo sguardo perduto entro insondabili spirali interiori, scrigno vivente di qualunque ipotesi di abbandono e capriccioso mistero), all’apparenza mite disegnatrice/pittrice in t-shirt rock e capigliatura fluente da novella Medusa, gestore di un piccolo emporio nel cuore del bosco non lontano dalla baita in cui abita, in realtà animo inquieto e presago (tra le braccia del suo uomo afferma calma ma risoluta di avere Giove come pianeta preferito, poiché attorno alla superficie gassosa di questo possono formarsi tempeste capaci di durare millenni). Il cortocircuito degli opposti consolidato nell’idillio agreste sembra realizzare, giorno dopo giorno, l’antico sogno libertario di un mondo-fuori-dal-mondo, sennonché la figura eterea ma prepotentemente archetipica di Mandy non può non attirare l’insano desiderio di Jeremiah (un survoltato e lascivo Roache) e della accolta di pazzoidi stregata dal suo culto privato, nonché la brama di sangue di un gruppo di subumani motociclisti di reminiscenza barkeriana, inguainati dalla testa ai piedi in pelle e/o latex, che vaga come un’orda in via ulteriore abbrutita da una leggendaria partita di acido adulterato.


Quantunque lo svolgimento dell’azione contempli una maggiore tendenza allo scavo psicologico - nel senso di allusivo - nella prima parte, quella più suggestiva dal punto di vista delle risonanze espressioni di una dimensione sentimentale stranita eppure in equilibrio sull’utopia di una comunione attingibile e rinnovabile tra spiriti affranti ma solidali e il respiro senza tempo dell’ambiente naturale, restituita secondo le usuali alternanze di sovrapposizioni/giustapposizioni, sfocature e ricercate persistenze dei dettagli in primissimo piano, tra le pienezze cromatiche del blu e del rosso (maniera che, per dire, da Noé a Zombie, passando per Refn, certifica a amplifica l’alterità della percezione), l’incombere del pedaggio pagato all’intrattenimento nella trita forma del cosiddetto revenge movie che, mano mano, fagocita l’impianto del racconto, non implica necessariamente un’abdicazione ai suoi rigidi determinismi (e, a testimonianza di ciò, basterebbe la progressione altrettanto immaginifica e visionaria all’opera nel precedente “Beyond the black rainbow”, esordio per Cosmatos di palese matrice cronenberghian-burroughsiana) ma spesso, anzi, arretra di fronte a un’inerzia che si appoggia su un continuo sforzo di rilancio visuale, figurativo (in un imbuto sensoriale alla cui stabilità contribuiscono tanto inserti animati quanto le partiture sintetico-ominose del compianto Jóhannsson), nell’esaltazione schizofrenica di un crepuscolo degli eventi per la cui improbabile redenzione diventa essenziale proprio la stralunata e debordante fisicità di Cage, la sua furia impassibile di angelo sterminatore nonostante tutto (alla bisogna, si forgia con le proprie mani una specialissima spada-alabarda), pronto all’abiezione non meno dei suoi turpi antagonisti al fine di sanare l’oltraggio perpetrato su Mandy, regalando al contempo al film una sua disturbata coerenza, come la tremenda certezza, figlia di un millenarismo introiettato in primis a mo’ di fuga precipitosa da una contemporaneità ridotta a deforme contenitore di sempre più malate atrocità, per cui un altro mondo è già alle porte, un mondo forse persino più desolato di questo.
TFK

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