venerdì, settembre 04, 2015

EX MACHINA


Ex machina

di A.Garland.
con O.Isaac, D.Gleeson, A.Vikander, S.Mizuno
UK, 2015
genere, fantascienza
durata, 110'



Arginare il torpore. Tra le meno esplicite illusioni a galleggiare sul mare magno ancora in buona parte inesplorato dell'Intelligenza Artificiale, pulsa, impercettibile ma pressante, il desiderio estremo - struggente profilassi, per quanto, forse, tardiva - di tornare a provare qualcosa, slancio ormai ampiamente precluso a frange sempre più nutrite di animali sapiens. Affetto, reciprocità, empatia, via via filtrati e rielaborati dalla mediazione Tecnica, hanno lasciato il posto a doppi surrogati la cui principale ricaduta (intrinseca, peraltro, alla loro natura) e' stata quella di prosciugare il modello originario liberando - per contrasto - con l'assenza, gocce residuali di un'inconsolabile nostalgia. Proprio tale nostalgia - a dire, nel particolare, nostalgia di un passato genericamente tattile; di una gioia dolorosa per attese promettenti; di un futuro sentito addosso come possibilità e non come minaccia; et. - intride e avvolge di se' i gesti spesso lenti e lunghi, gli sguardi enigmatici o programmaticamente stupiti degli androidi/uomini nuovi incontrati sui tratti più ascosi della fantascienza recente (in specie quella neo-introspettiva dei vari Jones, Edwards, Cahill, Glazer, Cosmatos, Batmanglij, et.): ispessisce e sostanzia il rimpianto, la malinconia o il rancore e l'ira (o ciò che e' immaginabile ritenere tali) di sfuggenti unita' senzienti circa ricordi di esperienze mai vissute, amori mai costruiti, morti mai presentite...
 

La modernità, nonostante i prefissi più o meno efficaci che le si possono attribuire, insiste, infatti, con una tenacia che ha più d'un punto di contatto con la disperazione, ad inseguire una sorta di protesi di se stessa da incarnare in un organismo capace di restituirle, spogliandola - almeno a partire dagli scenari più appetibili - delle asperità più turpi e incontrollabili, la capacita' di provare sensazioni ed emozioni autentiche, quelle che i limiti fisiologici prima ancora che pratici, estetici e morali dei suoi ormai stanchi Inni alla Morte (arricchimento materiale purchessia; utilizzo di qualunque aspetto della realtà cui solo spetta il riconoscimento di un senso; dittatura degli oggetti; retrocessione dell'ambiente - bene che vada - a paesaggio; et.) le hanno progressivamente sottratto, disintegrandole di fatto, riducendole a meri simulacri o confinandole nell'orrore misero eppure irresistibile dell'ipocrisia e dell'ammennicolo. Uno degli alfieri di ciò che resta di questa modernità - anzi, nella finzione, addirittura uno degli assi del mazzo - cascame tuttavia potentissimo quanto pressoché autoreferenziale, Nathan (un Isaac sornione e ambiguo quanto basta), C.E.O. della "Bluebook" (Wittgenstein docet), si esercita, lontano dal mondo (una Natura talmente intatta e trionfante da indurre qualche sospetto riguardo la sua reale consistenza), in un eremo-bunker avveniristico a prova di vita sepolta e come oramai da prassi caratterizzato dalla compresenza di strutture di temperato algore tecnologico - ambienti quasi vuoti ammantati dalle tonalità morbide di penombre gessose; viluppi razionali di superfici e divisori vitrei alternativamente irrorati di luce soffusa o affidati al buio - e stilizzati arredamenti primitivi, volumi sparuti di forme marginali in pietra o in legno tra i quali lasciar emergere, a volte, tracce di pittura evocativa (ad esempio, qui, ma quasi immancabilmente, si potrebbe dire, un Pollock), nella ricerca finale, ovvero dare corpo stabile, presenza significativa - quindi emotivamente coinvolgente - a ciò che al momento aleggia ancora a rango di spettro elusivo: l'Intelligenza Artificiale, appunto. Talentoso, straricco, salutista ma incline all'alcool, abbigliato nelle fogge di un calibratissimo minimalismo, garbato come scarto di lavorazione della sedazione forzata di un'impellenza proterva, Nathan abbisogna di Caleb/Gleeson, brillante programmatore dell'azienda, per sottoporre Ava/Vikander, sua ultima creatura (e chissà quanto il nome palindromo allude o sta a ribadire, nella prassi incerta di un esperimento epocale in continuo perfezionamento, la reversibilità eventuale e l'ambiguità non eliminabile su cui poggiano in parte gli stessi presupposti teorici di tale esperimento, grandiosi, intransigenti ma con un tenace grumo d'incertezza e inconfessabile futilità a fare da zavorra) a sessioni giornaliere d'incontri secondo i protocolli stabiliti dal "Test di Turing", al fine di dimostrare la presenza o meno di un afflato cosciente in quell'interlocutore non-umano.

Garland, qui alla sua prima prova dietro la mdp dopo un passato consistente nella scrittura (suo il romanzo dal quale e' stato tratto "The beach", 2000; sue le sceneggiature, tra le altre, di "28 giorni dopo", 2002; "Sunshine", 2007; "Non lasciarmi", 2010) abbozza un certo numero di premesse le cui colossali implicazioni, pero' - la misura in cui l'ibrido sia cosciente-di-essere-cosciente o quanto invece sia in grado di simularla, la coscienza, in ragione delle prodigiose attitudini combinatorie del suo apparato cognitivo organico-sintetico; le riflessioni possibili in relazione agli sviluppi inerenti un'intelligenza tarata in linea ipotetica su un potenziamento illimitato delle proprie prerogative - passo passo si stemperano e si diluiscono in una più collaudata (e meno rischiosa) mistura a base di un solipsistico e, in fondo, irrisolto delirio del creatore di turno (il deus non a caso latitante sia dal titolo tronco come dal suo simbolico ruolo di grimaldello risolutore) e, in parallelo, di un progressivo conatus della creatura a conquistarsi un'indipendenza d'arbitrio tanto completa quanto impietosa, tale da consentirle, in una versione insieme definitiva e paradossale dell'umano troppo umano, di replicare addirittura su un'ideale scala d'ineccepibilita' il miserabile andirivieni dei nostri (umani ?) più comuni traffici. In tal modo, con una sua soave ineluttabilità e una qual grazia formale, l'attrito inquietante fra ciò che siamo diventati e ciò che potremmo essere, pur se per interposta persona (nel comportamento incoerente e spesso violento di Nathan fa capolino a più riprese la contraddizione esistente fra l'idea di progettare-per-far-vivere - di nuovo il vecchissimo vizio assurdo dell'uomo-dio ossessionato dal ricreare la Vita, ossia, a pensarci, tutto sommato e per i cinici dolenti, quella malattia mortale che si trasmette per via sessuale - e la brama tormentata e indicibile di perpetuare attraverso di essa una versione migliorata di se') si allinea docile al tragitto consuetudinario che, nel caso, lega tra loro gl'intrecci e i colpi di scena del thriller psicologico, da un lato e del dramma intimista, dall'altro, indugiando a meta' di un complicato guado che nemmeno il clima latamente ansioso dell'insieme o, di contro, gli strappi di un cerebrale erotismo, riescono del tutto a smuovere.

E così, se Nathan e Caleb, con esiti diversi, rimangono prigionieri della loro incapacità di percorrere a ritroso le tappe del progresso con baldanza conquistate a colpi di rigido determinismo, mentre Ava si dirige, con ogni probabilità, verso un suo personalissimo eterno ritorno, a noi non resta che constatare la necessita' di posticipare ancora, e per quanto possibile, il torpore assoluto, la Fine, magari ingannandola sulle tregue e i ritorni smisurati del corpo di Sonoya Mizuno.
TFK

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