Boyhood
di Richard Linklater
con Ellar Coltrane, Ethan Hawke, Patricia Arquette
Usa, 2014
genere, drammatico
durata, 165'
Immaginiamo le facce dei produttori quando Richard Linklater, regista indipendente con qualche puntata nel cinema mainstream (School of Rock), si è presentato con la sceneggiatura di quello che poi (inizialmente il titolo era "12 years) sarebbe diventato "Boyhood". Il
progetto infatti prevedeva di utilizzare il tempo reale e non quello
fittizio per rappresentare anche in fase di cambiamenti fisici e
anagrafici il percorso esistenziale di Mason e della sua famiglia, protagonisti del racconto. Si
trattava in pratica di suddividere il set del film in 12 parti,
da
girare necessariamente anno dopo anno fino ad arrivare a più di due
lustri di durata. Linklater ahimè per lui non era
Kubrick, famoso ai suoi tempi per una simile idea poi addomesticata e
normalizzata dal punto di vista cimematografico con "Intelligenza
Artificiale", e così tanto ardire
deve aver stupito non poco i suoi interlocutori. Che però, in silenzio, e
con molta speranza si sono imbarcati in un impresa poi felicemente
coronata dai riconoscimenti, anche critici, ricevuti all'ultima
berlinale.
Così, seguendo
alla lettera le premesse del titolo, Linklater filma il persorso
esistenziale e geografico di Mason, figlio di genitori separati che
insieme alla madre e alla sorella cerca di trovare il suo posto nel
mondo tra gli alti e bassi che caratterizzano il quadro emotivo e
psicologico di qualsiasi vita umana. Ed è proprio la ricerca di questa
normalità da parte del regista, pur in quadro assolutamente disfunzionale - valga per tutti il
reiterati fallimenti matrimoniali della madre e l'eterna adolescenza
del genitore - a costituire la peculiarità che fa la differenza. Perchè
Linklater, dal canto suo, invece di far pesare sul piano estetico e di marketing la
scommessa delle sue scelte, le investe in termini di credibilità e verosimiglianza. Conoscendo le dinamiche dell'inconscio ed i
condizionamenti che esso riceve dalla visione delle immagini, il regista sembra quasi nascondere il tesoro del film dietro il
flusso temporale che scorre davanti ai nostri occhi per farlo tornare sotto forma di immedesimazione. Una progressione
che ha l'estensione di un romanzo, ed almeno all'inizio, la sua fatica
introduttiva. Ma è solo un momento perchè con il passare dei fotogrammi
il dispositivo messo a punto da "Boyhood", con i volti degli attori
naturalmente modificati dalla particolarità della lavorazione, smette di
essere finzione per diventare vita.
Nel
raccontare il suo arco cronologico, "Boyhood" non cade in tentazioni da
riassunto del bigami, e quindi nelle rappresentazioni da cartolina,
preferendo riflettere i cambimenti storici in maniera indiretta:
mediante le parole di un telegiornale o nei discorsi dei personaggi,
oppure evidenziando la progressione anagrafica di Mason attraverso
l'evoluzione dei mezzi di comunicazione (computer, cellulari e
tablet), colti con rapidi stacchi della mdp. I
cambiamenti fisiogomici e quelli emotivi
diventano allora il vettore di un umanesimo ricco di grazia e di
leggerezza che Linklater ha messo progressivamente a punto con il rigore
della sua carriera (soprattutto
attraverso la trilogia dedicata a Celine e Jesse) e che qui tocca,
secondo chi scrive, il punto più alto. Spalleggiato dal suo attore
feticcio, quel Ethan Hawke ormai abbonato ai ruoli "in diretta", ma
anche da Patricia Arquette e Ellar Coltrane (Mason) bravo nel non farsi
condizionare dalla responsabilità del ruolo, il regista americano crea
un universo che si tocca con mano, e che riesce ad farsi
amare senza alcun ammiccamento e pur con le forti dosi di sano
pessimismo. Se
Tarkovsky diceva che il compito del cinema è quello di cattura il tempo e
il suo divenire, allora dobbiamo dire che oggi Linklater è il migliore
dei
suoi allievi.
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