Festival internazionale del film di Roma -3 giornata
As the gods will
di Miike Takashi.
Giappone, 2014
120'
Miike Takashi e' un autore eclettico, controverso, quindi alterno, comunque sempre ben disposto a non tirarsi indietro di fronte agli argomenti spinosi, come alla possibilità di trarre conseguenze poco in linea con l'acquiescenza corrente. Si prenda ad esempio questo "As the gods will" e il suo modo di mettersi di traverso - alla solita maniera che coniuga sarcasmo ai limiti dell'irrisione, crudeltà beffarda, spietatezze assortite, isolate tregue in cui a fatica si fa largo la riflessione stranita o scampoli di un desiderio di vicinanza autentica, in genere negletta se non, persino, inesistente - rispetto a quella che potremmo definire con scarsa fantasia "lo stato dell'arte della modernità" ai tempi della sistematica disgregazione dei rapporti e dell'imporsi in sua vece di una condizione (post-qualcosa, meta-qualcosa, chi sa più dirlo con certezza ?) sempre più mediata (di fatto, di continuo ri-generata) dalla onnipresenza tecnologica e dai suoi più possenti bracci armati: il denaro e le merci (intese come consumo nel senso più generico del termine).
Da decenni l'Occidente si gingilla col concetto di pulsione
di morte, finendo con l'averlo interiorizzato nei modi di una resa psicologica
ed etica al dato-di-fatto, la superficie inerte del quale viene talvolta
increspata da esplosioni di violenza pressoché immediatamente rimosse (o mal
interpretate o nemmeno analizzate) nell'illusione che il mastice a base di
solvibilità e oggetti richiuda la
crepa e soprattutto regga. Ebbene, Miike prova a fermarsi un istante, a
guardare più da vicino il tessuto di questa realtà in apparenza dai colori
vividi e subito riconoscibili quanto instancabile nel garantire che domani non
sarà altro che l'ennesimo oggi, e addentrandosi nelle vite di coloro - che già
solo fisicamente rappresentano il futuro - su cui quella realtà punta per
imporsi una volta per tutte: un gruppo di giovani uomini e donne. Nel caso,
liceali.
Alla luce di ciò, se l'esistenza di gran parte della
gioventù odierna e' ritmata in maniera serrata e monotona sul progressivo
allontanamento dalla pratica quotidiana dei fatti (per quanto scoraggianti,
insensati, banali essi siano: pensiamo alla piaga sociale degli otaku, qui
ritratti tra l'ironico e il patetico) a favore di una reiterazione fondata
sull'utilizzo passivo dei manufatti tecnologici, sull'assenza o limitazione
degli stimoli, sul restringimento conseguente degli orizzonti ad un qui-e-ora
di primo acchito eternamente promettente ma via via inflessibile, fino al
momento di mostrarsi al dunque di una scelta col suo vero volto - un ghigno
severo ed esigente - diventa allora sensato scaraventarne un esemplare -
Takahama Shun, Takeru Amaya e Akimoto Ichiko ne incarnano nel film l'epitome
più rappresentativa - all'interno di un contesto (un gigantesco cubo bianco
opaco che staziona/veleggia nei cieli, subito ribattezzato dai media accorsi
golosi, "il cubo di Hokkaido") tarato su misura della logica stringente
di un videogioco ad eliminazione graduale dei suoi partecipanti.
Shun - annoiato e depresso quanto sensibile e di fondo
disgustato di una vita già senza vie d'uscita -; Amaya - egoista e violento,
prevaricatore e cinico, votato alla conservazione di se stesso come eletto di
una stirpe superiore che ha il dovere morale di eliminare i più deboli -;
Ichiko - dai capelli decolorati e dall'animo in bilico tra una frivola
spensieratezza, una indefinita attrazione per Shun e un grumo più intimo fatto
di solitudine e frustrazione - insieme ad altri appartenenti alla loro sfera
comune, assurgono così a rango di protagonisti di un gioco (la
vita-agli-albori-del-terzo-millennio) in cui si prende teoricamente parte a
tutto e alla fine si muore spesso per niente, ossia o per capriccio o per caso.
Miike concentra la sua attenzione sul carnevale folle ma,
letteralmente, iperrealista che coinvolge/usa i ragazzi; sui loro volti
stravolti dal terrore, dall'incredulità, come da una sorta di serafica apatia,
costruendo una messinscena al solito pulsante nei colori vistosi (il sangue, le
luci della città, i tramonti al limite dell'oleografia) e veemente nelle
scansioni (a cui non poco contribuisce anche il tipico piglio assertivo
nipponico) ma controllata e inflessibile nell'aderenza ad una programmatica
inerzia fondata sul legame di causa-effetto. Ciò che si perde, fatalmente, nel
meccanismo del "passaggio al livello successivo", si recupera nella
coerenza di un pessimismo che non ammette infingimenti o scorciatoie. Perché se
il Male alla fine non muore, il Bene non trionfa e la sopravvivenza e' mera
questione di fortuna, non d'intelligenza, non di abilita', non di forza: se, in
altre parole e a conti fatti, e' questa " la volontà di Dio", sembra
lecito e addirittura morale
sentenziare alla maniera di Shun: "Se Dio ha creato tutto questo, che si
fotta !".
TFK (voto: ****)
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