Festival del film di Roma-8 giornata
Escobar: Paradise lost
di Andrea Di Stefano
durata,
L’aura che si crea attorno ai criminali illustri, sul piano specie iconografico, attecchisce spesso sulla fantasia di autori, in particolar modo registi cinematografici, che ne subiscono la fascinazione. Talvolta – anzi fin troppo spesso – si rischia di cadere nel cliché (vedi “Blow”, storia con la quale, tra l’altro, il nostro Pablo aveva già qualcosa a che fare); altre volte, ed è il caso del film di Di Stefano, si riesce ad andare oltre la siepe che delimita il proprio giardino per indagare – e/o mostrare – dell’altro.
La storia è quella di Nick che, dopo aver lasciato il Canada ed aver aperto una piccola attività in spiaggia col fratello, conosce e s’innamora di Maria, adorata nipote di zio Pablo Escobar.
Ed è partendo da questo punto di vista inedito che il film – complice un Benicio del Toro mostruoso nel costruire il suo personaggio, sempre sul filo del tagliente rasoio dell’imprevedibilità – va a confermarsi un prodotto d’ottima fattura e fuori dalla norma. Partendo da una fotografia curata in ogni dettaglio e che restituisce a pieno l’illusione/amarezza del titolo, passando per una sceneggiatura che matura attraverso i silenzi, laddove i dialoghi sono ridotti all’essenziale e non prendono mai troppo il sopravvento.
Andrea Di Stefano, un po’ come aveva fatto Paolo Sorrentino ne “Il Divo”, utilizza la figura di Escobar per parlare del potere e circoscriverne tutte le proprie dualità e contraddizioni. Il denaro e la popolarità diventano solo mezzi attraverso il quale il potere vuole, sempre più senza limiti, superare sé stesso, distruggere ogni cosa che gli si opponga e, attraverso le proprie facoltà divinatorie, costruirsi su come si mostra dall’esterno: intoccabile. Nick e Pablo – ne abbiamo ulteriore conferma nel dialogo che ha quest’ultimo col prete prima dell’arresto – altri non sono che, ognuno a proprio modo, l’uomo che disseta e asseconda, oltre ogni limite, la propria natura: l’illusione o l’avere il controllo di essa.
“E non Dio ma qualcuno che per noi l’ha inventato
ci costringe a sognare in un giardino incantato”.
Antonio Romagnoli
Escobar: Paradise lost
di Andrea Di Stefano
durata,
L’aura che si crea attorno ai criminali illustri, sul piano specie iconografico, attecchisce spesso sulla fantasia di autori, in particolar modo registi cinematografici, che ne subiscono la fascinazione. Talvolta – anzi fin troppo spesso – si rischia di cadere nel cliché (vedi “Blow”, storia con la quale, tra l’altro, il nostro Pablo aveva già qualcosa a che fare); altre volte, ed è il caso del film di Di Stefano, si riesce ad andare oltre la siepe che delimita il proprio giardino per indagare – e/o mostrare – dell’altro.
La storia è quella di Nick che, dopo aver lasciato il Canada ed aver aperto una piccola attività in spiaggia col fratello, conosce e s’innamora di Maria, adorata nipote di zio Pablo Escobar.
Ed è partendo da questo punto di vista inedito che il film – complice un Benicio del Toro mostruoso nel costruire il suo personaggio, sempre sul filo del tagliente rasoio dell’imprevedibilità – va a confermarsi un prodotto d’ottima fattura e fuori dalla norma. Partendo da una fotografia curata in ogni dettaglio e che restituisce a pieno l’illusione/amarezza del titolo, passando per una sceneggiatura che matura attraverso i silenzi, laddove i dialoghi sono ridotti all’essenziale e non prendono mai troppo il sopravvento.
Andrea Di Stefano, un po’ come aveva fatto Paolo Sorrentino ne “Il Divo”, utilizza la figura di Escobar per parlare del potere e circoscriverne tutte le proprie dualità e contraddizioni. Il denaro e la popolarità diventano solo mezzi attraverso il quale il potere vuole, sempre più senza limiti, superare sé stesso, distruggere ogni cosa che gli si opponga e, attraverso le proprie facoltà divinatorie, costruirsi su come si mostra dall’esterno: intoccabile. Nick e Pablo – ne abbiamo ulteriore conferma nel dialogo che ha quest’ultimo col prete prima dell’arresto – altri non sono che, ognuno a proprio modo, l’uomo che disseta e asseconda, oltre ogni limite, la propria natura: l’illusione o l’avere il controllo di essa.
“E non Dio ma qualcuno che per noi l’ha inventato
ci costringe a sognare in un giardino incantato”.
Antonio Romagnoli
Nessun commento:
Posta un commento