Ad Astra
di James Gray
con Brad Pitt, Tommy Lee Jones, Liv Tyler, Rhut Negga, Donald Sutherland
Usa, 2019
genere, drammatica, avventura, fantascienza
durata, 124'
Un po' come aveva fatto Denis Villeneuve che da autore di film d’essai è diventato regista di costosissimi quanto sofisticati blockbuster, anche James Gray pare avviato a seguire le orme del collega canadese, presentando in concorso alla 76a edizione della Mostra del cinema di Venezia il fantascientifico "Ad Astra", imperniato sulla vicenda di un astronauta americano, il maggiore Roy McBride (Brad Pitt, in rampa di lancio per la prossima edizione degli Oscar), impegnato nella missione spaziale che dovrà riportare a casa il padre scomparso anni prima nel tentativo di trovare traccia di nuove forme di intelligenza aliena. Rispetto all’avventuroso "The Lost City of Z" (in italiano tradotto con il titolo di "Civiltà perduta") il regista newyorkese continua a utilizzare il genere come cassa di risonanza per i contenuti della sua poetica, ma in questo caso lo fa rendendo ancora più scopera la sovrapposizione tra i meccanismi di genere e la riflessione filosofico-esistenziale che fin dall'esordio accompagna le vicissitudini dei suoi personaggi. Come già successo ai protagonisti di "Little Odessa", "The Yards", "I padroni della notte" e non ultimo "Civiltà perduta", anche l'astronauta interpretato da un intenso e molto in parte Brad Pitt deve sopportare le conseguenze del peso della figura paterna e come loro - a un certo punto - si ritrova ad avere l'ultima occasione per tentare una riconciliazione attraverso un'autentica via crucis. Ma non finisce qui perché alle analogie sopra elencate se ne sommano altre due che finiscono per coincidere con il "Cuore di Tenebra" di Joseph Conrad, a suo tempo sfiorato con il film precedente e qui invece parafrasato da Gray sostituendo la volta spaziale alla foresta vietnamita e facendo del padre di Roy (lo "space cowboy" Tommy Lee Jones) un nuovo Kurtz, alla pari di quello di Brando impazzito per eccesso di genio. Se poi consideriamo la consistenza della posta in gioco, ancora una volta legata all’ambizione omerica di superare i confini dell'umano per sostituirsi a Dio, si capisce in che tipo di impresa si sia arrischiato e quali paragoni mettano in circolo le scelte del regista americano.
Il quale, finché si tratta di restare con i piedi a terra, o quanto meno di staccarsene per rimanere entro i limiti di una fantasia conosciuta, riesce comunque a trovare la maniera di far coesistere il coté esistenziale e l'afflizione del tormentato protagonista, comprensiva dei pensieri e delle riflessioni pronunciate in serie dalla voce fuori campo, alla necessità di colorare d’avventura miti e leggende della cosiddetta nuova frontiera, quella che dovrebbe fare da sfondo al loro prossimo incontro. Agevolata da una serie di non detti che favoriscono il mistero e non abbisognano di spiegazioni, la prima parte di "Ad Astra" fila via leggera e affascinante, grazie anche alla ottima performance di Pitt, la cui adesione al personaggio sembra pescare dalle vicissitudini familiari occorse alla star hollywoodiana. Diversamente, quando la trama si sviluppa oltre i territori del lecito - corrispondenti alle tappe che porteranno McBride su Marte e Nettuno - e il viaggio prende piede inanellando una serie indicibile di complicazioni, l'impalcatura narrativa inizia a vacillare sotto i colpi di sorprese improbabili, carenza di logica (ma come avrà fatto Jones a procurare il cibo per oltre vent'anni?) e personaggi pensati al solo scopo di portare avanti la trama o quantomeno a variarla (il personaggio di Ruth Negga) del poco necessario a legittimare una ulteriore progressione. La qualcosa, oltre a compromettere la credibilità della vicenda e con essa il suo ingrediente emotivo, vanifica in parte alcuni dei pregi del film che, però, in termini assoluti, rimangono in ogni caso notevoli. Parliamo dell’interpretazione di Brad Pitt, mai così in parte nel ruolo di un uomo ferito dalla vita, della visionarietà di certi scorci ambientali (su tutti quelli ubicati sulla stazione lunare) e al mood malinconico e struggente tipico del regista, per non dire, in generale, del comparto tecnico destinato a monopolizzare gli Oscar di categoria. Sbrigativo quando si tratta di trarre la lezione morale dalle difficoltà appena superate (il male tempra fisico e spirito permettendo ai più coraggiosi di aprirsi al bene degli altri), "Ad Astra" ci lascia davvero l'amaro in bocca anche quando si tratta di chiudere la vicenda, facendo della solitudine universale appena teorizzata non tanto il motivo per riflettere in maniera complessa sul significato di ciò che abbiamo visto ma, al contrario, il pretesto per autorizzare un finale consolatorio e conformista.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
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