I. Nato a Pécs in Ungheria nel 1955, il cinema di Béla Tarr è praticamente inedito in Italia. Dopo il successo al Festival di Berlino dove la sua ultima opera, Il cavallo di Torino (A Torinói ló), vinse nel 2011 l’Orso d’Argento Gran Premio della Giuria, ci si accorse di questo autore fuori dai normali circuiti, conosciuto da uno sparuto gruppo di cinefili. Mai distribuito in Italia, con l’eccezione di proiezioni in qualche cineclub e passaggi nella trasmissione televisiva Fuori Orario di Rai 3, recentemente la sua produzione completa è stata editata in Dvd da Movie Inspired (già esaurito). E quindi meritoria la rassegna che la Fondazione Cineteca di Milano dedica all’autore allo Spazio Oberdan dal 14 al 30 aprile 2017 proiettando cinque sue opere: Perdizione,Le armonie di Werckmeister, L’uomo di Londra, Rapporti prefabbricati e Il cavallo di Torino.
II. Cinema metafisico, quello di Béla Tarr, dove l’immagine si ferma su una realtà inglobante il tempo che viene cristallizzato in una visione resa fluida dai lenti movimenti della macchina da presa. Più che una messa in scena, l’autore ungherese si concentra su una messa in quadro in cui l’attesa dell’evento può anche non arrivare o essere posticipato rispetto al punto di vista dello spettatore, ipnotizzato dall’insistenza dell’inquadratura che si prende il tempo della visione reale(istica) del personaggio all’interno della struttura filmica.
III. Non c’è un vero sviluppo diegetico nelle sue opere, ma un susseguirsi di episodi minimali, scabri, scarni, essenziali, dove il personaggio viene pedinato dalla mdp ossessivamente, sia nei suoi dialoghi sia nelle sue riflessioni (riflettenti) sul paesaggio o sugli oggetti o sulle persone, che diventano noumeno di pulsione scopica. Prendiamo, ad esempio, Maloin (Miroslav Krobot) in L’uomo di Londra (A londoni férfi, 2007): nel lungo piano sequenza iniziale, dalla sua torre circondata di vetri, osserva la nave che sbarca i passeggeri al porto per vederli entrare in un treno (lui che comanda gli scambi dei binari). La chiglia della nave, nella sua forma visiva, prende sostanza dell’attesa di eventi ripetuti in un tempo infinito e costante, che viene interrotto da un evento drammatico: lo scambio di una valigetta tra due uomini; l’uccisione di uno dei due da parte dell’altro, gettato nelle acque del porto dopo una colluttazione; la fuga dell’assassino e il recupero della valigetta dal mare notturno da parte di Maloin. Una lunghissima presa di coscienza della realtàaccadente da parte del personaggio e dello spettatore il cui sguardo è allineato con in protagonista. Oppure la visione terrorizzata di János (Lars Rudolph), il postino protagonista di Le armonie di Werckmeister (Werckmeister harmóniák, 2000) che osserva la folla ostile assiepata nella piazza del villaggio ungherese, intorno al convoglio che mette in mostra una balena impagliata, in attesa delle parole di un nano, chiamato “il principe”, che aizza alla rivolta e alla distruzione della comunità. O ancora Karrer (Miklos B. Szekely) perdutamente innamorato di una cantante locale sposata (Vali Kerekes) e che perseguita per avere brevi incontri sessuali, posseduto dal demone della depressione in Perdizione (Kárhozat, 1988).
IV. I personaggi di questi tre film sono solitari, taciturni, parlano solo se invitati o costretti dalle circostanze. Maloin è sposato con una figlia e il ritrovamento di una valigetta piena di soldi, frutto di un furto avvenuto a Londra, lo sconvolge internamente. János è un giovane ottimista, preso dalla distribuzione della posta e dall’accudire uno studioso di musica (di quelle armonie di Werckmeister, ripreso dal titolo dell’opera). Il suo cambiamento avviene in modo traumatico, dalla violenza della situazione in essere, dalle parole del “principe”, che ascolta di nascosto, dalla violenza della folla inferocita e distruttrice e poi da uno Stato che diventa forma di oppressione, trasformandolo per sempre di un essere catatonico, fisso, come lo sguardo in macchina nella scena del prefinale. Karrer è un depresso cronico, che non sa quello che vuole realmente, perso tra la donna oggetto della sua ossessione e le sere passate nel bar Titanik, simbolo del disastro di una società anomica, aliena, desola(nte)ta.
V. Del resto, i personaggi sono sconfitti e travolti dall’esistenza e tutti in qualche modo sono vittime predestinate del tempo. Maloin uccide il ladro (l’uomo di Londra), ma la sua colpa è emendata dall’ispettore inglese in missione nel porto francese, con la scusa della legittima difesa. I soldi della ricompensa che riceve, sono i suoi trenta denari, il prezzo della sua coscienza che viene sottaciuta e annullata. L’innocenza di János è assassinata non dalla folla, ma da uno Stato, che usa la rivolta per imporre un ordine militare, ospedalizzato, in una prigione della mente e del libero pensiero. Karrer si fa delatore alla polizia di tutti e nella sequenza finale si mette a quattro zampe ad abbaiare contro un cane in un paesaggio desolato e sotto una pioggia scrosciante, arrancando nel fango alla ricerca di una cupio dissolvi con l’ultima inquadratura su un mucchio di letame, esplicitazione della caduta dell’uomo.
VI. Abbiamo detto della desolazione che Tarr inquadra con paesaggi spogli e scabri. Per aumentarne la potenza visiva ed emotiva, utilizza un bianco e nero che inserisce l’ombra come soggetto concreto dove si muovono i personaggi. Anche nelle scene diurne la luce è plumbea come a sottolineareuna notte della ragione che pervade l’uomo stesso. Ne L’uomo di Londra, gli squarci di luce sono sempre preludio a eventi drammatici, il vento che soffia diventa l’elemento atmosferico perdurante per tutto il tempo filmico. InLe armonie di Werckmeister è la nebbia e il tempo uggioso che avvolge l’atmosfera sospesa in un tempo astorico, in un eterno presente senza passato né futuro. Durante Perdizione cade continuamente la pioggia e il fango intrappola i protagonisti. Vento, nebbia, pioggia: la forza degli elementi atmosferici accentua simbolicamente la desolazione interiore ed esteriore di una vita perduta, senza speranza di riscatto, senza un sole che risplende, ma come se vivessimo in una eclissi sempiterna (ben rappresentata dal lungo piano-sequenza dell’incipit di Le armonie di Werckmeister, sineddoche delle vicende di queste tre opere).
VII. L’enorme balena impagliata, oggetto di una fiera di paese in Le armonie di Werckmeister, è la metafora della mostra dell’intelligenza come elemento di spettacolo. Morta, impagliata, inesistente, dove alligna la forza dell’ignoranza del male (il “principe” nano). La grandezza della verità contro la piccolezza della falsità. La prima un ricordo resa visibile, la seconda abbaiante e nascosta nell’ombra, immateriale, voce nel buio che si propaga come un virus metafisico che si incista nelle menti di individui che si annullano e si fondono in massa compatta distruttiva. E Tarr utilizza un altro piano-sequenza di questo leviatano in marcia nelle strade del villaggio ungherese che, come un fiume di corpi e teste anonime, travolge i deboli resti di una civiltà al suo declino. L’occhio della balena fissa in vuoto della ragione e János la osserva illudendosi della potenza di Dio, senza rendersi conto di essere alla presenza delle spoglie della ragione, strappata dalla sua condizione di natura e trasformata in un paravento dell’irrazionale malvagità che prende vita e si nutre di essa, vomitandola come un getto mal digerito e imbrattando il mondo.
VIII. Con Perdizione, Tarr inizia a utilizzare il piano-sequenza, che con il bianco e nero della fotografia, diventa la sua cifra stilistica che contraddistingue tutte le sue opere a venire. Questo tipo di inquadratura e di movimento di macchina permette la dilatazione temporale, fissando il momento vissuto dai personaggi. Esso è la rappresentazione visiva dell’intimità in una dualità tra interno-esterno che porta in profondità le emozioni vissute dai personaggi e coinvolge lo sguardo spettatoriale in unaragnatela della messa in quadro costruita per addizione di sequenze dove il montaggio è lineare, mentre la scoperta della verità avviene nel movimento della mdp che svela elementi nella messa in scena, in apparenza extradiegetici e in realtà diegetici (come, ad esempio, la musica che appare come colonna sonora, ma che spesso è all’interno della scena, suonata da orchestre riprese sempre in ritardo e a latere, mai in primo piano). I piani-sequenza diventano, quindi, un fraseggio costante della filmografia di Tarr, un modo di rappresentare il mondo, un montaggio interiore. Così come la divisione dell’inquadratura effettuata riprendendo i protagonisti dietro a un muro (Karrer, Janos) mentre osservano altro; oppure di fronte a un capanno sulla spiaggia (Maloin) prima di un evento brutale; o ancora negli interni del bar, con in primo piano il protagonista che ascolta dialoghi di personaggi in secondo piano (di nuovo Maloin). In questo tipo di messa in quadro, Tarreffettua uno split screen naturale, visivo, utilizzando strutture architettoniche della realtà e non il montaggio cinematografico di più riprese, concentrando ancor di più la pulsione scopica non solo del personaggio, ma anche quella dello spettatore coinvolto nella visione.
IX. Ne L’uomo di Londra – tratto dall’omonimo romanzo di George Simenon– abbiamo delle eccezioni all’utilizzo del bianco e nero che ne confermano la regola e proprio per questo degne di nota. Tarr utilizza un colore uniforme e molto desaturato, tendente al bruno, in due sequenze significative. La prima è durante l’incontro tra Maloin e l’ispettore nella torre di osservazione, quando viene recuperato il cadavere dell’uomo assassinato dal ladro a cui l’ispettore sta dando la caccia; la seconda, quando Maloin è davanti al capanno sulla spiaggia dove l’assassino si nasconde. In entrambi i casi l’utilizzo del colore rappresenta momenti di morte: nel primo, il cadavere è visibile nella sua messa in quadro, mentre nel secondo si vede solo il capanno in un long take dove allo spettatore viene lasciato immaginare la scena all’interno, ma il colore lo collega al cadavere della scena precedente che diventa metonimica di quest’ultima senza la necessità di rappresentarla di nuovo, ma solo creandone l’evocazione con l’immagine fissa del capanno e con il suono del vento che soffia forte dal mare.
X. In Perdizione, Le armonie di Werckmeister e L’uomo di Londra, Tarrcompie un’operazione binaria tra contenuto e forma. Se i temirappresentano una disarmonia della realtà in essere, che si fa corpo, immanente dell’essere-uomo che porta alla solitudine esistenziale(ista), la forma utilizzata è un’armonia tra immagine e suoni, tra dialoghi e luoghi, tra interni ed esterni, tra oggetti inanimati ed elementi della natura che imperversano e riempiono lo schermo. L’armonia della messa in quadroutilizzata da Tarr diventa il contenitore della disarmonia della vita e perimetrata dall’occhio della macchina da presa. Un meccanismo visivo che tracima lo schermo e ne trascende la visione.
Antonio Pettierre
“Omaggio a Béla Tarr”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano dal 14 al 30 aprile 2017
http://oberdan.
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