Spaghetti Story
di, Ciro De Caro
con, Valerio Di Benedetto, Cristian Di Sante, SaraTosti, Rossella d'Andrea
di, Ciro De Caro
con, Valerio Di Benedetto, Cristian Di Sante, SaraTosti, Rossella d'Andrea
Italia, 2013
genere, commediadurata, 85'
Tra un de profundis e l'altro, magari arriva il momento in cui se ne ha abbastanza delle rampogne, ricevute o dispensate che siano. Figurarsi delle lagne. Deve essere stato un percorso mentale molto simile a questo ad aver indotto un cineasta come De Caro a piantar l'affollata baracca con annessi burattini dei pluridecennali sermoni in articulo mortis, nonché delle lacrime spesso e volentieri di coccodrillo, riguardanti lo stato-del-Cinema-italiano; a vuotarsi altresì le tasche - pare anche a vendersi la macchina - allo scopo di raggranellare i quindicimila euro e spiccioli utili a mettere insieme il suo nuovo film, quasi un nuovo esordio, "Spaghetti story", appunto. E già questo - la semplice ostinazione di qualcuno che scommette, non solo metaforicamente, su un'intuizione - un paio di riflessioni dovrebbe suscitarle.
Senza scadere nell'esaltazione stucchevole e ridicola del pauperismo (che è bello e nobile soprattutto se lo praticano gli altri) che, per quanto il Cinema sia uno dei principali campi di applicazione dell'innovazione tecnologica, alla lunga, da risorsa diciamo così creativa, diventa solo e unicamente indigesto impasto di frustrazioni, osserviamo subito che nel caso di De Caro penuria di mezzi (una manciata di giorni per le riprese, set per gentile concessione di parenti e amici), freschezza e stretta attualità della storia, necessità di ribattere a colpi d'idee (non solo alle angustie produttive ma anche e - forse - soprattutto all'attualità di cui sopra, tanto all'apparenza liberale e dispensatrice di promesse di affermazione o di affrancamento, quanto, assai spesso, amalgama ostile e appiccicosa costituita da sempre nuove combinazioni di antichissimi collanti quali l'accidia, il menefreghismo, le convenienze incrociate, le mere mascalzonate et.), si danno allegramente di gomito infondendo vita ad un insieme semplice, di garbata ingenuità e a tratti piuttosto divertente.
D'altro canto, l'occhio fisso e ravvicinato del regista sulle vicissitudini paradossali se non fossero così autentiche di un gruppo di giovani (nel caso, romani) la cui precarietà ormai non è più la variabile avversa dei rapporti di produzione ma un vero e proprio modo di (non) vivere giunto a mettere sul piano di un grottesco aut-aut l'opzione di un piatto di pasta o di una pizza e l'acquisto di un paio di scarpe, pena il fallimento delle economie personali (e nei confronti del quale l'unica alternativa rimasta sembra essere la totale emarginazione o lo spaccio - quest'ultimo nei modi e negli esiti più vicini ai "Soliti ignoti", tanto per capirsi, che, per dire, alle prospettive iperboliche e cool delle "Belve" di Stone - e nonostante i toni spesso spassosamente frenetici della commedia tutta ruspante cattiveria e dialoghi mordaci contrappuntati da improvvisi silenzi - alla cui riuscita concorre in maniera determinante l'uso per una volta coerente e ben cadenzato del dialetto -), aiuta a contestualizzare meglio le psicologie e gli atteggiamenti di tutti i personaggi, di certo non esenti da fragilità tanto epidermiche nella loro oggettività quanto incistate in una prassi che pulsa sottotraccia e oscilla quasi solo tra disimpegno e opportunismo. Uomini e donne angustiati ma allo stesso tempo come sollevati dagli orizzonti ristretti di una vita che un po' è diventata, un po' non si è impedito che si trasformasse in una routinea corto raggio. Persone orgogliose, in fondo, di quella indipendenza di ritorno come risacca dell'individualismo narcisistico di massa, eppure, a stringere, sole e disarmate appena una porta si chiude, a un imbarazzo non segue motto e il riflesso condizionato che si oppone a un rifiuto finisce per essere invariabilmente un mutismo perplesso e in parte vittimistico.
Chiaro che, in un esperimento condotto di forza su direttrici così limitate benché nette, decisivo diventa l'apporto dei volti e dei corpi chiamati a incarnare lo sviluppo e l'anima delle circostanze descritte. Anche su questo "Spaghetti story" è in grado di dire la sua. Assemblando, infatti, un gruppo di giovani interpreti - più o meno alle prime armi (o, per meglio dire, con una qual gavetta nel Cinema piccolo o indipendente o invisibile, è lo stesso) - affiatati, scevri da birignao e pose fasulle, sorretti dalla prossimità autobiografica ai fatti (qualcosa che può avvicinarsi, più in generale e oggi come oggi, all'autobiografia stessa di un paio di generazioni), ecco che pressoché senza filtro viene restituita a chi guarda la vivace ma anche amara empatia di traversie magari solo drenate dal rumore di fondo della cronaca; orecchiate, forse, o - perché no ? - la cui asprezza è stata provata direttamente sulla propria pelle. In tal modo le peripezie di Valerio, factotum per sfinimento e aspirante attore; il cinismo dal cuore d'oro di Cristian, l'amicone di una vita, quello che non fa il pusher ma sta "a mette in piedi 'na cosa che c'ha 'n futuro"; la petulanza venata di comprensione di Giovanna - sorella di Valerio - sempre pronta a sostenerlo e soprattutto a metter mano al portafogli e non ultima, la costanza, la testardaggine giocata come finta arrendevolezza della di lui fidanzata Serena, studentessa lavoratrice e futura mamma (interessante connubio di sagacia ed enigmatica indolenza), diventano, senza sforzo apparente, quasi sotto i nostri occhi, l'epitome di una condizione, nel nucleo della quale però si riconosce ancora lo sforzo di tenere al centro l'umanità irripetibile della persona, l'importanza di ascoltarne - e tollerarne - le contraddizioni: in particolare quell'istinto che, per quanto estenuato da mille sollecitazioni, non ha perso la misura del valore e insieme lo slancio a prendersi cura delle cose (per tutti valga il piccolo ma significativo gesto di Valerio il quale, nel gorgo della sua sconfitta sentimentale e professionale, ramingo e stanco, fuori da un bar, gettando via la carta del suo panino mangiato controvoglia e vedendola mancare il cestino e rotolare a terra, si alza e ve la depone).
Se questa è la prospettiva - e fermo restando la chirurgica riuscita degli assolo-per-due-voci di Cristian e Valerio (quasi un film a parte) che ricordano i micidiali battibecchi tra Dante e Randall in "Clerks" di Smith - giocoforza si fa più conciliante la valutazione circa la ripetuta frammentazione del montaggio all'interno dell'inquadratura, che nulla aggiunge in termini d’instabilità perenne delle vicende di quanto già non facciano, e più palpabilmente, le frequenti sfocature (casomai, nell'insistenza, quella sottrae qualcosa alla spontaneità d'assieme come all'accorto uso della luce naturale). Identico discorso si può applicare all'ultima parte del film, in cui speranza e ottimismo sembrano più cercati che consequenziali alle premesse, in leggero attrito col compatto realismo che permea buona parte degli ottantacinque minuti di quest'opera che si sta facendo strada unicamente in ragione della sua irresistibile impertinenza e di un contagioso passaparola.
TFK
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