domenica, novembre 03, 2019

INVISIBILI: WINTERSTILTE/WINTER SILENCE

Winterstilte/Winter silence
di, Sonja Wyss
con, Gerda Zangger, Sandra Utzinger, Brigitta Weber, Katalin Liptak, Sarah Bülhmann
genere, drammatico
Olanda 2008
durata, 77’



Voluttà: per i cuori liberi innocente e libera
la gioia del giardino terrestre
il traboccante ringraziamento del futuro
per il presente
- F.Nietzsche -


Aggirarsi per i meandri del desiderio è avventura affascinante soprattutto perché esso è, per sua natura, contraddittorio, ossia sommamente imprevedibile. Il cimento si spezia in via ulteriore qualora l’idea fosse quella di aprirsi la strada nella proteiforme galassia dell’intimità femminile. La prima intuizione intrigante della Wyss e di un’opera come “Winterstilte” è quella di collocare l’osservazione e l’evoluzione di talune figure tipiche del desiderio muliebre (il suo essere volta per volta o al contempo esuberante, fascinosamente cospirativo, ritroso, autopunitivo, ferino, sfuggente, comunque in misteriosa sintonia con l’anima mundi), entro una cornice-laboratorio - un minuscolo villaggio montano isolato e protetto dalle rocce, come da immense distese di neve - in grado di individuarne con esattezza (nei gesti ripetuti delle faccende quotidiane, nei mutismi protratti, negli schemi rituali di una consuetudinaria devozione religiosa) i confini delle corrispondenti epifanie, quanto mantenere intatta e vibrante la possibilità di una loro ipotetica coalescenza ultima all’interno del ciclo stesso della vita. Del resto, l’elemento dirimente della vicenda - una delle poche famiglie del luogo, composta da una madre severa e timorata e da quattro figlie adulte solo in apparenza remissive, viene privata del padre causa un incidente in quota - la morte (appunto) di colui che incarna l’Autorità, oltreché metafora esemplare e ominoso monito, si staglia a mo’ di abbrivio per una inesorabile spinta verso l’affermazione di ciò che fino ad allora aveva serpeggiato nella latenza dell’aspettazione paziente o nel conforto attinto dalle verità codificate della Tradizione: istinto, passione, voluttà.

Non a caso, in questo che è, in fondo - ecco il secondo carattere peculiare - un breve apologo (un’ottantina di minuti circa), se non, per taluni versi, un impertinente - perché sottilmente eversivo: il pane impastato a mano tra risate e scherzi; le piante dei piedi a giocare con dozzine di uova appena raccolte - prontuario sulla fatalità circolare di una forza arcaica che trova sempre il modo di emergere al di là degli argini culturali che l’uomo appronta nell’illusione di indirizzare a suo capriccio la Storia, la necessità di un’inerzia che trascende le aspettative del singolo irrompe e spezza una sorta di disciplina senza parole (il film consta di contate e controllate linee di dialogo intervallate dal ballate e canti devozionali) in due piani contigui ma non assimilabili. Da un lato, quello del giorno, a dire quello della fatica, del rispetto delle regole e dell’incessante sforzo di cementare e mantenere un ordine razionale (icastica e di nitore fiammingo l’inquadratura del tavolo intorno al quale le ragazze siedono intente nel lavoro di ricamo in una armonica danza di gesti stilizzati e precisi eseguiti sotto l’occhio altero della madre e interrotta dalla perturbazione di una goccia di sangue fuoriuscita da un dito inopinatamente punto a intaccare di rosso la perfezione bianca dell’ordito; o l’essenziale eppure allusivo indulgere sull’intreccio singolare costituito dalle geometrie scabre dei rari edifici e dei manufatti e la persistenza quasi immateriale di un paesaggio restituito da opalescenze crepuscolari e sgranature di foggia e tonalità segantiniane, sì quieto ma sempre come presago…). Dall’altro, quello della notte, introdotto dal levarsi di una diafana luna piena, dalla presenza di una Civetta (delle nevi), di quando in quando a fare capolino rigurgitando sul pavimento della casa delle protagoniste, tipo offerta augurale, le borre non digerite (ricordiamo, per curiosità e per l’ovvia valenza evocativa, che la Civetta è uno Strigiforme, famiglia delle Strigidae, termine derivante dal latino Strix, da cui poi il nostro Strega), regno dell’imponderabile e dell’azzardo, del rifiorire dei sensi e del piacere dell’abbandono. Un territorio sospeso tra realtà e sogno, dunque, tra suggestione e disponibilità, (la gioia furtiva di istanti sottratti alle asprezze di una condizione poco o punto modificabile; gli abbracci e i sorrisi complici delle ragazze al momento di coricarsi, nella quiete dopo il risveglio e a interrompere la routine), in cui, per una volta, sembra benevola persino quella che Poe chiamava legione dei terrori sepolcrali… demoni che non vanno risvegliati, qui spettri veri che la Wyss, sottraendo al folklore ciò che latita nell’odierna immaginazione derivativa, raffigura come Uomini Cervo intabarrati in pesanti sai neri e muniti di ampie corna, erranti nel gelo notturno allo scopo di tenere desta nelle giovani femmine la fiamma dell’appetito carnale.

Così facendo, le dicotomie fondamentali richiamate lungo tutta la narrazione - Luce/Oscurità, Natura/Cultura, Ragione/Sentimento - raggiungono temporanea requie, componendo le spinte dei rispettivi domini entro una dimensione di placida e pagana sensualità, quella pulsante nella dolcezza livida di un giorno nuovo e di un’unione nuova, per sostituire al silenzio dell’Inverno il canto coraggioso della Primavera.
TFK


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