L'ufficiale e la spia
di Roman Polanski
con Jean Dujardin, Emmanuel Seigner, Louis Garrel
Francia, Italia, 2019
genere. storico, drammatico
durata, 126
Come si fa a rimanere un grande cineasta dopo lustri di onorata carriera e di una serie innumerevoli di premi ce lo dimostra Roman Polanski in quello che fin qui è stato il film più bello della 76a Mostra del cinema di Venezia. La storia de "L'ufficiale e la spia" - tratta dall'omonimo romanzo di Robert Harris, già utilizzato dal nostro per "L'uomo nell'ombra" - infatti è di quelle di cui non solo il cinema ma anche la saggistica e la letteratura si sono occupate più volte, contribuendo da par loro alle caratteristiche paradigmatiche ormai attribuite al cosiddetto "affare Dreyfus". Questo per dire come il soggetto in questione, oltre ai rischi di retorica connessi con l'importanza dell'argomento, utilizzato nei dibatti contemporanei come cartina di tornasole del sopravvissuto antisemitismo europeo, non potesse contare, almeno in partenza, su quelle caratteristiche di novità e scoperta utili a stimolare l'interesse dello spettatore. Stiamo dicendo che nell'adattare per il cinema l'ennesima versione del caso in questione, Polanski doveva per forza di cose inventarsi qualcosa capace di giustificare gli sforzi anche economici legati alla realizzazione della sua creatura.
In effetti, così succede, a partire dal rapporto che ha la prima sequenza con le altre che seguono. Apparentemente ordinaria, seppur nella sua tridimensionale magnificenza, la scena relativa alla degradazione pubblica di Dreyfus, realizzata con un campo lunghissimo e onnicomprensivo dello schieramento di ufficiali, sottufficiali e militari semplici chiamati a fare da testimoni al "pubblico ludibrio", svolge una funzione di senso che il film si porta dietro nel corso di tutta la sua durata e che misura il grado di iniquità applicato dagli organi giudicanti nei confronti del condannato. Tanto più eclatante infatti è la forza menzognera dell'accusa, sancita dalla natura pubblica dell'evento come pure dalla ricerca del regista dell'estensione massima dello spazio possibile all'interno dell'inquadratura, quanto più clamorosa risulta la mancanza del medesimo metro di messinscena quando si tratterà di rendere onore alla verità dei fatti con la scoperta del complotto operato dagli alti ufficiali dell'esercito francese nei confronti del malcapitato e dunque della sua innocenza, tenuta nascosta al mondo non solo dalla volontà dei congiurati ma anche dalle scelte di regia di Polanski, deciso a far sentire la grandezza del misfatto (anche) attraverso l'idea di sottrarre spazio alle inquadrature - tutte girate in interni e in ambienti angusti e ordinari - e di consegnare la scoperta della verità a una non altrettanto grandeur visuale. Una posizione scontata, quella presa da Polanski a favore del suo personaggio, ma resa geniale dal modo in cui lo stesso ha deciso farcene parte.
Una noblesse d’art che già da sé fa capire allo spettatore non solo che tipo di opera si troverà davanti una volta entrato in sala ma anche, e soprattutto, la capacità del regista di applicare ai fatti un punto di vista in grado di ricreare la verità del loro svolgimento ma di reinventarne - come si è cercato di spiegare sopra - la comprensione.
Anche per ciò che segue a venirci incontro è ancora la forma, comprensiva di vecchio e nuovo quando si tratta di creare vasi comunicanti tra passato e presente e, dunque, atta a inventare l'immagine della Storia con un manierismo (si veda per esempio l'utilizzo da cartolina del grigio seppiato usato per colorare la cattività sofferta da Dreyfus nell'isola in cui fu esiliato e incarcerato) che è tanto del decor ambientale quanto delle figure umane che vi partecipano. E, ancora, non contenta, di sabotarne i risultati con movimenti di macchina (accenni di carrellate e brevi long take) che spezzano per un attimo il rigore e la compostezza raggiunta, riportandoci al segno cinematografico dei giorni nostri.
Stabiliti i collegamenti e le relazioni formali, per il Maestro è un gioco da ragazzi fare di Dreyfus il proprio alter ego, nella similitudine - denunciata dal regista - tra il trattamento riservato da giustizia e opinione pubblica al capitano francese e quello (ancora oggi) subito dall'irrequieto regista da parte di istituzioni e opinione pubblica.
La qualità del lavoro realizzato da Polanski si vede parimenti nei dettagli, come lo sono quelli relativi alla presa in rassegna dei cosiddetti personaggi storici, per una volta esentati dall'essere delle semplici macchiette (soprattutto Zola, autore dal noto J’accuse da cui il film prende il titolo originale) e, in termini assoluti, quando si tratta di restituire e restituirci un Jean Dujardin come non l'avevamo visto dai tempi di "The Artist", talmente dignitosa e piena di umanità è l'interpretazione del colonnello Georges Picquart, ufficiale dei servizi segreti a cui spetterà il compito di scoprire l'ingiustizia e, con sprezzo del pericolo, di denunciarla davanti a chi non aveva voglia di sentirla. Se Dreyfus è, per forza di cose, il doppio di Polanski, il personaggio incarnato da Dujardin ne è quantomeno la proiezione ideale, nella constatazione di una coerenza, quella del militare, che impedisce all'uomo di venir meno al senso di giustizia e di verità, difese ad oltranza, e di cedere ai pregiudizi nei confronti della comunità ebraica, a cominciare dai propri, dichiarati in una delle scene iniziali del film. Per Polanski è dunque lui l'uomo moderno, sintesi perfetta dell'umano riconciliato dalle contraddizioni che attraversano la nostra contemporaneità. A lui e al suo interprete vanno le nostre considerazioni migliori in vista del premio come migliore attore. Non che quelle di Brad Pitt o Joaquin Phoenix siano da meno. Anzi. Qui però è una questione di verità storiche, quelle che l'attore francese incarna meglio degli altri.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
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