Coriandoli di incubo americano: Spring breakers di H.Korine
The rollercoaster ride's a lonely one
I pay the ransom note to stop it from steaming
Hey, what are you looking at ?
She was a teenage girl when she met me
- Stone Temple Pilots -
I
L'idiozia americana - intesa come una sorta di inerzia sottovuoto in cui si rincorrono, si rimescolano e si confondono senza posa iper-consumismo, feticismo degli oggetti e del denaro (oggetto degli oggetti), assenza di qualunque prospettiva non circoscritta all'assimilazione del momento, ricerca esasperata di esperienze genericamente all'insegna del principio di piacere, utilizzo inesausto del corpo come mero strumento per abbattere o ridefinire le residue barriere tra identità, personalità e genere - rappresenta oramai per tutti, e da diversi decenni, una fetta enorme di questa strana torta - appetitosa in apparenza, amarissima alla seconda, terza cucchiaiata - che è diventata l'esistenza fisica e psicologica nell'Occidente razionalista/tecnologico/post-capitalista. Idiozia, è bene rammentarlo, che non alligna solo tra i virgulti adolescenti ma spesso e volentieri si fa classe dirigente, con le dita ad aggirarsi - ahinoi - attorno al fatidico bottone rosso. Pensiamo, un esempio fra gli innumerevoli, all'"American idiot" dei Green Day datato 2004, in cui si sfrucuglia nemmeno tanto in filigrana la figura e l'operato di un Presidente come George W. Bush: quello che fatica a rintracciare l'Afghanistan sulle carte geografiche (cosa che, notiamolo en passant, non gli ha impedito di muovergli guerra); quello che alla notizia dell'attacco alle Torri Gemelle si affloscia in uno stupore e in un imbarazzo magari comprensibili ma dalle inequivocabili connotazioni idiot. Già nel 1977 - sempre per restare in ambito musicale - i Ramones in “Teenage lobotomy" annotavano: DDT did a job on me/now I am a real sickie/Guess I'll have to break the news/that I got no mind to lose/All the girls are in love with me/I'm a teenage lobotomy. Per dire che incontrare un film come "Spring breakers" di Korine è un po' come imbattersi in un amico di vecchia data e notare che, in fondo, oltre a non essere troppo invecchiato, egli incarna, per un qualche misterioso motivo, la precisa funzione di ricordarti che certe cose ci sono ancora, eccome, e non è detto che nel frattempo sono migliorate. Ripercorrere le liriche dei Ramones somiglia così al gesto di rovesciare la clessidra pretendendo di isolare un singolo granello perché - si dice - ogni dettaglio è utile a restituire l'insieme (nel caso un'epoca), a precisarlo, cioè a renderlo comprensibile. La vanità dello sforzo è pari solo alla considerazione - tutt'altro che risarcitoria - che il trapasso (e il travaglio) dei tempi sono leggibili a partire da certi dettagli (granelli più grossi, magari, come la voce di Joey Ramone), che proprio lo svolgersi degli anni si incarica di designare come spinte di fondo.
Per questo qualcosa va tralasciato ma talune tracce ricostruibili e ripercorribili a ritroso colmano il divario quantitativo e consentono di capire. In tal senso, la post-modernità inauguratasi nel pieno degli anni Ottanta dell'altro secolo - e che, tra l'altro, aveva ipotizzato l'eventualità di decifrare il mondo a partire solo da sé stessa, facendo cioè a meno del passato, ossia della tradizione - incline, per sua intrinseca malleabilità, a offrirsi all'interpretazione attraverso una copia sterminata di opere, una delle quali, "American psyco" (1991) di Breat Easton Ellis, il cui protagonista, super yuppie dagli abissi mentali rosso sangue, fanatico del corpo, degli stilisti, delle limousine ultra-nere, della ricchezza e del prestigio sociale, ne rappresenta l’epitome più sinistra e paradossale, si riverbera ancor più prepotentemente proprio nelle quattro pupattole di Korine - Brit, Faith, Candy, Cotty - che, della storia di Ellis, sembrano esserne la versione 4.0, con in meno le smanie per l'eccellenza e la distinzione, in più una disperazione tanto epidermica quanto bruciante e, in comune, l'aderenza ai cliché più logori dell'american way of life. Il piacere sincero per il pop da classifica, in primis (se le spring breakers si baloccano con Britney Spears, Patrick Bateman afferma di apprezzare i Genesis e Phil Collins a partire dalla pubblicazione di "Duke" - 1980 - con punte di adorazione per "Invisible touch" - 1986 - e per un brano come “Sussudio", e sorvolando sulle considerazioni intessute riguardo W. Houston e Huey Lewis and the News). Quindi la mancanza di qualsivoglia, seppur generico, orizzonte culturale. Per le ragazze la scuola non è che una stupidaggine; per Bateman non c'è tempo ma neppure interesse per, mettiamo, i libri: il college è stato solo un mezzo per pianificare, raggiungere e confermare i presupposti di uno scopo (agiatezza, privilegio, status, et.). Le strade si separano su Ellis che chiude il suo psyco-romanzo con un perentorio questa non è l'uscita e il film di Korine che si apre sul doloroso anelito di fuga dall'ennesimo stereotipo incarnato qui dalla provincia americana (e lucidamente preconizzato negli scenari futuribili ma vividissimi di un visionario ben dentro i tempi come Ballard), sottoprodotto di lavorazione della metropoli, desolata e inerte. Giusto in tempo per incrociare una interessante contraddizione: più le quattro sgallettate - come le avrebbe apostrofate un conservatore sardonico come Alberto Sordi - cercano di evadere dalle tenebre anti-vitalistiche e dalle miserie morali suburbane, più vanno a sbattere, da un lato, nel microcosmo iper-fluorescente e rimbombante dello sballo, a base di interminabili feste sulla spiagge o nei motel, dove si salta a ritmi forsennati, si beve, ci si fa, ci si accoppia o si tenta di farlo, fino allo stremo: vale a dire in una delle variabili della cumulazione del profitto, cioè all’interno di un vero e proprio lavoro. Peraltro neanche retribuito. Anzi, col tassametro incorporato e, quindi, tutto sommato, non dissimile dalla miriade di dead end jobs che intrappolano milioni di individui ridotti a bassa forza, sottoproletari e non, di cui il capitalismo si nutre avidamente per mantenere, almeno nelle statistiche, i suoi standard e verso cui la risposta - furibonda quanto prevedibile - è sempre più spesso rapinare un diner (come accade nel film) o alternativamente, darsi al taccheggio, allo spaccio o alla prostituzione. D’altro canto, ci si confina in una porzione di spazio se possibile ancora più angusta, quella delle gang, entro cui il percorso a circuito chiuso, l'invarianza del triangolo ottuso denaro/potere/violenza, detta le regole dell'unico schema accettato e praticabile. Diventa, così, perfino smaccata la relazione incestuosa tra (legittimo) desiderio di divertimento delle tipe (alcune delle quali, in controluce, molto meno ribelli di quel che sembrano o piattamente supine alla religione dello spring break) e perversione dell'industria dello spasso, distributore automatico di diversioni ics dollari a sfizio, in cui ogni passaggio, ogni forzatura del limite, è subdolamente quanto inderogabilmente inserito in un menù dalla logica del Capitale. Perché è così (ed è ovvio quanto si vuole, però ribadirlo, in specie a sé stessi, può ancora essere utile se non altro come esercizio di presenza di spirito): si può sul serio lucrare su tutto. Principio abbracciato in toto anche da Alien - James Franco - che, tra un sorriso a dentatura metallica e poesiole rap confezionate lì per lì e dedicate alle lolite, non fa che martellare sul punto: "Sono pieno di soldi. Sono murato di soldi. Non volevo che i soldi. Li ho fatti e continuerò a farne.
Questo è il Sogno Americano". Concedendosi di quando in quando repentini scarti, emanazioni però mai troppo discoste dall'assunto principale: "Guardate quanta roba ho. Vi piace la mia roba ? Ho la casa piena di roba. Ho bermuda di tutti i colori. Ho tutte queste armi. Tante armi e lame. Vi piacciono le mie lame ? Vi piace la mia roba ?". Ossia, tutto è in vendita. Tutto è a misura di portafogli. Oggi come oggi, in altre parole, sul serio è possibile spremere un tornaconto da tutto. Dall’allegria, dallo smarrimento. Dall’entusiasmo, dalla noia. Dall’ingenuità, dalla perversione. Dalla vita, dalla morte. Addirittura dall’indifferenza e dalla stanchezza (Faith e Cotty, in circostanze diverse, mollano il sole - artificiale ? - e il parco a tema chiamato Florida) innescando, di rimando, un precipitare degli eventi (nelle vite delle due amiche rimaste) che avrà ripercussioni strettamente politiche ed economiche, nel senso che ridisegnerà gli equilibri di potere e quindi di tutto ciò che galleggia attorno al denaro in seno a quella piccola galassia delimitata da sfere di influenza che si rinegoziano ogni giorno, quartiere per quartiere, strada per strada, mentre la grande ruota del leisure time non ha cessato un solo istante di girare e di produrre…
II
Il bizzarro, il ridicolo, il truce, l'abbietto, il deforme, sono categorie dell'esperienza umana. Sono sempre esistite. Esisteranno sempre. Ciò che ha inscritto - una volta per tutte ? - queste categorie nell'ambito dell'osceno è stata l'accelerazione senza controllo imposta loro dalla facoltà pressoché infinita di riproduzione e di accesso offerta dall'azione combinata di innovazione tecnologica e ricerca esasperata di convertire qualunque espressione - fisica, psicologica, ideale, culturale, immaginativa, ludica, onirica - in Merce. Korine è una vecchia volpe, a dire che riesce a giocare con abilità su quella sottilissima linea che demarca l'interesse per la descrizione di un fenomeno e il compiacimento dello stesso. Forza, cioè, e di gusto, l'altalena pericolosa tra meraviglia - per quanto drammatica - e, appunto, osceno. Però sa di che parla. Sin dagli esordi, infatti - e "Gummo" del 1997, per tanti aspetti, può considerarsi il manifesto di una poetica - era chiaro come non fosse possibile tentare di penetrare il mistero della modernità e della sua oscenità se non rovistando là dove nessuno o pochi avevano voglia di mettere il naso, ovvero per lo più fra il tritume, la poltiglia dei suoi rimasugli - materiali e umani - e, più in generale, fra gli incubi e le allucinazioni più vere del vero indotte dalla spropositata quantità di oggetti, di cibo, di immagini e di stimoli frequentati e assorbiti di continuo, ogni giorno - per sempre verrebbe da dire - con raro e sbadato costrutto, con scarse o nulle difese, a partire dalle conseguenze che tutto ciò produceva in specie sulle generazioni under-20, individui proverbialmente al centro di mutazioni spesso complicate, di fatto iper-sensibili alle sollecitazioni di più immediata fruizione provenienti da ogni campo dell'azione umana: la moda, la musica, il cinema, il sesso, le droghe. E su tutto, in una società come la nostra, a far da mastice in teoria indistruttibile, daccapo, il denaro (Gli studenti delle scuole di business, che hanno valori materialisti fortemente interiorizzati - ossia inclini valutare il proprio valore in termini di denaro - riferiscono livelli di felicità e auto-realizzazione più bassi di coloro che non condividono così fortemente questi valori. Si è scoperto che gli individui che spendono il proprio denaro in maniera ossessiva - con troppa cautela o con troppa libertà - soffrono di bassi livelli di benessere. Si è dimostrato come il materialismo e l’isolamento sociale si rinforzino a vicenda: le persone sole cercano beni materiali in modo più compulsivo, e gli individui materialisti hanno un rischio maggiore di soffrire la solitudine - W.Davies, L’industria della felicità -). Le spring breakers di Korine finiscono allora per incarnare, quasi senza attrito - e di fatto - una silloge tascabile eppure rappresentativa della cosiddetta white trash cristalizzatasi negli anni e declinata, nel caso, al femminile: a dire, vocine petulanti e acufeniche, come cubetti di ghiaccio a mollo in un cocktail dozzinale; pose, presunzioni e capricci da co-artefici e vittime del cretinismo di massa; fattezze da bamboline già semi-plastificate dalla mega macchina industriale (la Hudgens e la Gomez per anni in quota Disney per il, si presume, sommo gaudio di Korine stesso; un’altra, Rachel, addirittura, e al momento delle riprese, sua moglie), aperte per mera dabbenaggine a qualunque trasgressione e a qualunque sproposito, a tiro, insomma, della dissacrazione grottesca in largo anticipo scolpita su sembianze simili alle loro, ad esempio, dai Primus: She's so fine/She’s so sweet/Mom and Pop they raised her/On huge slabs of meat/She’s fine/A man of nine/Water derby day/Twenty six pumps on a Crosman/And it's time to play. Come pure perennemente in bikini, cioè sempre a un passo dal praticare o subire un abuso, in un unanime appiccicume esperienziale (anch’esso già ampiamente vulcanizzato, tra gli altri, dalla grinta impertinente degli Stone Temple Pilots: It isn't you, isn't me/Search for things that you can't see/Going blind out of reach/Somewhere in the vasoline) in cui si ridacchia, si sculetta e - perché no ? - come detto, si rapina un diner ma "come fosse un cazzo di film o un videogame”, per scappare da un posto in cui "ci si sveglia ogni mattina nello stesso letto e non succede niente" e regalarsi uno spicchio di gioia che "vorrei non finisse mai". Ogni atto in primo o primissimo piano.
Ogni rappresentazione sgargiante e colorata oltre la nausea (tra le mise, passamontagna rosa e top psichedelici). Più di ogni altra cosa, tutto in vista, sempre. Tutto in scena, contemporaneamente. Niente che resti sottinteso. Da intuire, da immaginare. La modernità (oscena) che si produce, accade, si divora, evacua e ricomincia. Ecco, forse, il fulcro del Cinema di Korine, questa sua non comune capacità di oscillare comodamente - con l'osceno che occhieggia là, in fondo, da qualche parte - sul vecchio adagio per cui il suo limite è anche la sua forza, nella secrezione ambigua di un lirismo residuale allo stesso tempo survoltato e sconcertante. Ripetitività, dunque; riproposizione di scene variate per qualche singola inquadratura e sfasate di un tanto nel tempo; stasi e accelerazioni improvvise; ralenti e disarticolazioni cromatiche; una certa sostanziale inconsistenza narrativa: nel complesso, un insieme di accorgimenti tecnici e retorici che, applicato al cuore osceno del nostro sistema, il fatidico produci-consuma-crepa di ferrettiana memoria, contribuisce a mettere allo scoperto una saturazione e una frattura profonde, che ci riguardano da vicino, che ci interrogano, al di là dei meriti e delle pecche delle singole pellicole. Qualcosa che può essere avvicinato alle intuizioni terminali dei nostri Ciprì e Maresco; agli esperimenti estremi di Tsukamoto (il suo primo "Tetsuo" è del 1989: ancora gli anni '80); a certi incanti e smarrimenti herzoghiani, come a taluni entr'acte cripto-porno di Lynch e di Cronenberg. Ogni eversione, però, giocata in superficie ("La superficie, la superficie, la superficie" ripeteva il Bateman di Ellis e non era una filastrocca), frullata e riproposta senza sosta, appunto perché l'ingranaggio in cui siamo immersi mani e piedi non può fermarsi ma solo superfetare ancora e ancora. Con al termine la domanda più angosciosa: "American idiocy”, "American idiot", "American psyco", "Spring breakers”. E adesso ? Korine ammicca, tira dritto e non da risposte. Magari capovolge l'inquadratura. Ciò che esiste è ciò che si vede e viceversa. E se non bisogna andare tanto lontano per trovare l'inferno, perché è sempre stato qui, allora anche il paradiso deve essere quantomeno nei paraggi. Ma se tale inferno è nato dal rifiuto di un paradiso precedente - illusorio, frustrante o, chissà, solo banale - sarà necessario un rigetto di segno uguale e contrario, un sovvertimento radicale, per scalzarlo.
TFK
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