lunedì, febbraio 10, 2014

A PROPOSITO DI: INSIDE LLEWYN DAVIS

Considerazioni a margine sull'ultimo film dei fratelli Coen
 
 
Nell'ultimo film dei Fratelli Coen, "A proposito di Davis" le disavventure del protagonista sembrano fatte apposta per smentire la convinzione che l'arte sublimi la vita. Se prendiamo in considerazione il fascino della prima sequenza, con l'atmosfera del locale bohemiene a rafforzare la perfomance musicale di Llewyn, e la confrontiamo con quello che viene dopo, il meglio che si può pensare è benedire il fatto di aver fatto scelte diverse da quelle del protagonista, ridotto allo stremo da una serie continua di delusioni rispetto alle potenzialità della propria arte. 

L'immagine dell'artista maledetto e frustrato da un mondo sentito come luogo di solitudine ed alienazione non è certo nuova, perchè il cinema non ha mai rinunciato alla proposizione di persolità condannate dal loro stesso talento. Tanti sono i contribuiti che si potrebbero ricordare: da "Let's get Lost" di Bruce Webber, documentario incentrato sulla vita del jazzista Chet Baker, a "Control" di Anton Corbjin, biopic del leader dei Joy Division Liam Curtis. Ma ciò che ancora una volta distingue i Coen dal resto della truppa non è solo di aver raccontato lo struggimento di una carriera mai iniziata, e quindi in nessuna maniera responsabile di qualsivoglia ricaduta emotiva (anzi nel film le esibizioni musicali equivalgono ad un momento di sollievo e di conforto). Il pregio di "A proposito di Davis" è invece quello di aver reso in maniera così singolare, e per certi versi crudele, la parabola di un'artista deducendola dal paesaggio interiore dello sfortunato personaggio.


Una caratteristica che i due fratelli sono bravi a depistare collegandone la possibile prova - "Inside Llewyn Davis" è il titolo più che sibillino a riguardo- non alla dichiarazione d'intenti che abbiamo appena illustrato, ma piuttosto all'omonima intestazione del disco che Davis propone a Bud Grossmann, il produttore che lo dovrebbe ingaggiare. Ed invece forti di un impianto musicale come al solito curatissimo (T Bone Burnett alla cabina di comando), i registi del Missesota si divertono a sabotare i codici del biopic - ed il realismo del racconto prima di tutto- con una serie di trovate che appartengono di diritto al linguaggio più intimo dell'animo umano. Come quella di presentare una fotografia desaturata e poi manipolata al computer, dominata  di neri  e di grigi, come nero e grigio è l'umore di un' esistenza che stenta a sopravvivere. Oppure di deformare lo spazio  che permette di accedere al meritato riposo, stringendo a piu' non posso i corridoi che consentono a Llewyn di accedere al meritato riposo nel divano che amici e conoscenti gli mettono a disposizione, e che nel film diventano la proiezione di una difficoltà che insegue Davis fin nelle sue più basiche necessità. 

Per non parlare del clima metereologico, freddo ed ostile come lo sono i rapporti interpersonali che il film mette in scena attraverso le divergenze sentimentali e lavorative che affliggono il viaggio esistenziale di Llewyn. Umanesimo espressionista che dal punto di vista stilistico segna un ritorno ad un cinema più semplice (Fargo), con movimenti di macchina quasi assenti che si giustificano con la stasi psicologica del protagonista, e virtuosismi azzerati dall'urgenza di concentrare l'attenzione sulla condizione del personaggio. Un minimalismo che si addice allo spirito dei tempi, e che restituisce il cinema dei Coen ad un livello di eccellenza che solo la bontà del cartellone del festival di Cannes prima, e la politica industriale dei giurati dell'Accademy poi, ne hanno impedito la giusta celebrazione.

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