Ritratti: Jennifer Connelly (5)
Si può parlare con cognizione di causa di "paradosso" perché "Hulk" e' un film anomalo nella ormai copiosa produzione dedicata ai supereroi del fumetto.
Grazie soprattutto ad un regista alterno ma acuto come Ang Lee, in tutta la prima ora assistiamo alla messa in scena di personaggi controversi (su tutti, uno strepitoso Nick Nolte), in lotta innanzitutto con se stessi, e, in generale, con un mondo sordo e ostile, incapace, non si dice di accoglierli, ma persino di tollerarli se non all'interno di uno schema che preveda la loro resa senza condizioni all'omologazione dei codici del potere e dell'autorita' costituita.
La Connelly, quindi, nei panni (daccapo asciugati dalla magrezza) di Betty Ross, ex fidanzata del fisico Bruce Banner (Eric Bana) che un esperimento sballato trasformerà in Hulk, si presenta da subito nelle vesti della donna di scienza (anche lei e' ricercatrice e nello stesso laboratorio di Banner) che deve conciliare le esigenze di carriera, il rapporto, ambivalente col padre - generale dell'esercito, gran capo del progetto militare che foraggia anche la sua attività - e il mai sopito interesse per l'incauto e indifeso Banner.
Ciò che in "A beautiful mind" era lo stoicismo della sopportazione alimentato da un sentimento leale verso l'altro e in "La casa di sabbia e nebbia" era il grido soffocato di una persona colpita dalla vita e abbandonata a se stessa, in "Hulk" diventa il triste incontro di due solitudini, con punte addirittura struggenti nella rievocazione del dramma infantile di Banner sollecitato proprio da Betty/Connelly, a sua volta riverbero deformato dell'eternamente abortita sua riconciliazione con un padre in fondo indifferente a ragioni che non siano quelle di stato.
Decisiva, in questo senso, la lunga sequenza ambientata nel deserto - reso ancora più sinistro dall'eco di remoti test nucleari - in cui entrambi i protagonisti svelano l'amarezza della propria diversità e pongono le basi per un amore fatto soprattutto di vicinanza e ascolto. Non a caso, infatti, sarà proprio Betty/Connelly l'unica a stabilire un contatto col Banner mutato in creatura possente ma primitiva. E lo farà, via via, con
sfumature quasi materne, ai limiti del patetico, prima che gli effetti speciali prendano il sopravvento e appiattiscano un po' tutto.
Gli anni più vicini a noi si caratterizzano per l'attenzione riservata a personaggi conflittuali, feriti, in bilico tra un presente confortevole ma arido ("Little children"/id., 2006; "Reservation road"/id., 2008) e un futuro incerto ma promettente ("Virginia"/id., 2010); incursioni con esiti altalenanti - se non poco convincenti - nella commedia ("La verità e' che non gli piaci abbastanza", 2009; "Il dilemma", 2011; "Salvation boulevard", 2012); ritorni ad ambiti più familiari, come il soprannaturale ai imiti dell'horror ("Dark water"/id., 2005) e la fantascienza pura ( il superfluo remake di "Ultimatum alla Terra", 2008) o come riproposizione di ruoli già sperimentati tipo quello della donna portatrice di un'integrità morale o professionale a dispetto di un mondo che tende a negarla o ignorarla ("Blood diamond"' 2006; "Creation", 2009).
In definitiva e in conclusione possiamo dire, come spesso accade ad un certo "tipo" di attrice americana, che la Connelly sembra quasi sempre una spanna più in alto rispetto alle parti che le assegnano. Si pensi, solo per citarne alcune male o poco ripagate da Hollywood ma come minimo di solido professionismo - quindi di talento magari non eccelso ma indiscutibile - a Laura Linney, a Rachel Weisz - americana di adozione - a Katherine Keener: o anche a Diane Lane, spesso e volentieri sacrificate sull'altare più confertovole di - per dire - un sex appeal prepotente (es. Halle Berry) o un glamour mediatico planetario (es. Nicole Kidman) e accennando solo di sfuggita - senza andare troppo indietro nel tempo - a ciò che si sarebbe potuto tirare fuori (e diamo l'ennesimo onore al merito al vecchio testa dura Sam Peckimpah che, unico, l'aveva intuito) da una come Ali Mac Graw, che nella sua capricciosa e discontinua carriera, a parte il felice interludio con lo zio Sam ("The getaway"/"Getaway !", 1972) non si e' adoperata quasi per nulla al di fuori del cliché della tipa da college, della "girl next door", un po' miele, un po' sorrisi, un po' lagna.
Jennifer Connelly, alla boa dei quarant'anni, ha già scongiurato un'eclissi di questo genere. Essendo, come abbiamo cercato di dimostrare, un "tipo affidabile", non le serve che una giusta occasione.
Magari con Eastwood.
Magari con Malick.
Vedremo.
di TheFisherKing
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