La passion de Dodin Bouffant
di Trần Anh Hùng
con Juliette Binoche, Benoit Magimel
Francia, 2023
genere: sentimentale
durata: 134’
A proposito di
"Norwegian Wood", lo scrittore giapponese Murakami parlò del suo
libro come di una storia d’amore molto personale, dedicata agli amici morti e a
quelli che restano. Dopo aver visto "La passion de Dodin Bouffant"
non si può non ripensare a parole che sembrano fatte apposta per introdurre lo
spettatore al nuovo film del regista franco-vietnamita Trần Anh Hùng, che del
romanzo di Murakami firmò nel 2010 la versione cinematografica. Che si tratti
d'ispirazione artistica o semplicemente di una reminiscenza del passato, fatto
sta che "La passion de Dodin Bouffant" prende a prestito la passione
culinaria del suo protagonista e della donna che gli sta accanto per raccontare
molto di più di un ménage lavorativo.
A dispetto di ciò che
descrive il film, ovvero la ventennale collaborazione tra il rinomato chef
(Benoît Magimel diventato oramai un attore universale) e la cuoca Eugénie
(interpretata da un'incommensurabile Juliette Binoche) capace di vincere il
tempo nella Francia del XIX secolo, il lungometraggio in questione diventa fin
da subito qualcos’altro rispetto ai film sull’arte culinaria che lo hanno
preceduto. Certo è che la lunga introduzione con cui il regista ci porta nel
bel mezzo della storia, un "falso" piano sequenza in cui la macchina
da presa diventa tutt'uno con la preparazioni di uno dei tanti menù preparati
dai protagonisti, risulta fondante nello stabilire l'unità di tempo e di spazio
della narrazione, rappresentata appunto dalla casa di Bouffant (con qualche
scampolo di ripresa esterna ambientata nel bosco circostante ad essa), come
pure la centralità dell’azione, legata alla filiera necessaria alla
presentazione in tavola delle varie pietanze ma anche della filosofia che ne
determina le scelte.
Lo sguardo del regista vi
torna di continuo, ogni volta aggiungendo un particolare che però non riguarda
solo il cibo, anche se così non sembra, ma piuttosto la personalità e i
sentimenti di chi lo prepara. Come fosse la sinfonia del Bolero di Ravel, l’eterno
ritorno a quella liturgia si colora come per magia di nuovi significati che un
poco alla volta operano sulla materia una trasfigurazione capace di cambiarla
fino a farla diventare una cosa nuova. Così facendo davanti agli occhi dello
spettatore i gesti relativi alla preparazione di cene e pranzi si caricano di
ulteriori accezioni, facendo corrispondere i gesti materiali all’afflato del
corteggiamento amoroso fra Bouffant e la sua amata. Gli esempi di questo gioco
di specchi non si contano, tanta è l’abilità del regista nel saper parlare
contemporaneamente alla vista e al cuore.
Il collegamento fra cibo
ed eros non è una scoperta dell'ultima ora ma ciò che conta in questo caso è il
modo in cui il film è capace di metterlo in scena. Ma non basta, perché come
aveva fatto Paul Thomas Anderson ne "Il filo nascosto" anche Trần
lavora per astrazioni successive, sublimando la materia in spirito e la
passione culinaria in desiderio amoroso. È in questo modo che la consistenza
delle materie prime e la perfezione delle pietanze oggetto di una continua
valutazione tattile rimandano alla bellezza e all'armonia del corpo femminile,
in un gioco che diventa sempre più manifesto, ma, come si conviene al
corteggiamento amoroso, mai esplicito. Un'equiparazione attestata da un
particolare fugace ma decisivo, in cui l’immagine della pera sciroppata appoggiata
sul piatto è seguita senza soluzione di continuità dal corpo nudo di Eugénie
poggiata sul letto in una maniera che rimanda senza mezzi termini alla forma di
quella precedente. Abituato a circoscrivere le storie in unico ambiente,
facendole vivere sostituendo i sensi alle parole ("Il profumo della papaya
verde", suo esordio registico, fu il primo esempio), Trần realizza
un'opera che fonda la modernità di pensiero alla classicità delle forme.
"La Passion de Dodin Bouffaunt" infatti arriva a chiamare in causa a
modo suo la famosa mutazione della carne cronenberghiana, con la differenza che
alla pari del Bertrand Bonello di "La Bête", anche Trần parla del
futuro attraverso il passato, ricordandoci, se mai ce ne fosse bisogno, che il
tempo così come lo conosciamo è solo una convenzione umana.
Carlo Cerofolini
(recensione pubblicata su ondacinema.it)
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