Behemoth
di Liang Zhao
Francia, Cina 2015
Genere, documentario
Durata, 95’
Behemoth, la bestia ingorda della civiltà contemporanea
Ha avuto un grande riscontro di critica e pubblico, lo scorso settembre in concorso alla 72° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, l’ultimo documentario del regista cinese Liang Zhao, ora in programma in anteprima alla Fondazione Cineteca Italiano presso lo Spazio Oberdan a Milano.
Il documentario metafisico e filosofico, mette in scena la vita della miniera di carbone e ferro nella provincia della Mongolia interna della Cina, dove, lentamente, la popolazione dedita alla pastorizia, in mezzo a sterminate praterie verdi, deve ritirarsi per concedere spazio e la popolazione costretta a lavorare nella nuova industria mineraria o presso l’altoforno. L’obiettivo del governo è quello di costruire le cosiddette New Town che però restano dei fantasmi, dei falsi paradisi isolati, circondati da un vero e proprio inferno in Terra.
Zhao alterna campi lunghi e lunghissimi della distesa delle montagne sventrate dalle esplosioni, violentate dagli uomini e dagli autoveicoli pesanti che segnano il territorio, trasformandolo in un vero e proprio inferno di polvere, buio, fuoco e fiamme, con i primi piani (a volte primissimi) frontali di uomini e donne ridotti a morti viventi, anime perdute e nere di carbone, condannate a una fatica senza fine e senza scopo se non quello del purgatorio dell’ospedale e poi della morte. Milioni di persone si ammalano di malattie polmonari a causa dell’inquinamento dell’aria e centinaia di migliaia muoiono. Zhao sceglie una cifra stilistica poetica dantesca per narrare il disastro umano ed ecologico che intere popolazioni subiscono. Del resto la metafora biblica del mostro-demone Behemoth è chiara: la bestia ingorda che mangia e distrugge tutto, simbolo della società capitalistica e consumistica che colpisce in modo esponenziale un paese come la Cina. E non è un caso che i documentari di Zhao siano proibiti in Cina e girati con pochissimi mezzi e troupe ridotte all’essenziale (il film è stato diretto da Zhao, insieme a un operatore e un assistente).
In questo caso il cinema diventa altro da sé: non solo denuncia sociale, ma costruzione artistica che mette in scena il male del mondo, il male di una società che si auto divora e dove gli ultimi della terra sono puri corpi sacrificabili al dio della modernità apparente, pulita, ordinata, nuova. Zhao crea cinema di poesia dove la forza delle immagini è tutta nella messa in quadro del paesaggio infernale – sia essa la miniera oppure l’altoforno o ancora l’ospedale, dove i poveri operai finiscono per andare a morire, con i polmoni pieni di carbone e di residui di metallo fuso – con pochissime didascalie di frasi evocative che fanno da interpunzione all’immagine e al sonoro diegetico (il rumore delle esplosioni, quello dei camion o degli escavatori, quello dell’altoforno) e al silenzio degli uomini, senza più parola, senza più letteralmente fiato, non solo per parlare ma per respirare, in un anelito alla vita perduta. Il sonoro extradiegetico è dato da una litania lugubre che vuole ricordare il verso della Bestia che incombe sugli uomini, il verso di una civiltà distruttiva e ingorda, senza nessuna remora a cibarsi dei propri figli.
Zhao utilizza poi due sineddoche per illustrare i temi poetici della sua opera. Da un lato, abbiamo un uomo senza vesti raggomitolato a terra inquadrato di spalle in campo lungo, a significare la “nudità” della persona di fronte all’avanzare di Behemoth, all’arrivo della civiltà distruttrice e non salvifica: il corpo nudo è indifeso, solo, totalmente scoperto e schiacciato di fronte alla vastità della rovina in corso. Dall’altro lato, vediamo un altro uomo che porta sulle spalle uno specchio, simbolo dell’impossibilità di guardarsi dentro, di voltare le spalle, di trasparenza del proprio essere, ma anche peso del narcisismo modernista di fronte alla bellezza del creato perduto. Possiamo osare dire che Zhao compie un’operazione pasoliniana di rappresentazione della realtà dimenticata, dell’innocenza di una civiltà arcaica e intatta che viene distrutta dall’avanzare della modernità e il suo è un cinema di poesia con quei primi piani di uomini sporchi, sfatti dalla fatica del lavoro: la rappresentazione della disumanità della modernità e gli effetti sugli uomini. La scena finale mostra una città moderna, pulita, ma senza anima, senza umanità, palazzoni come solitarie cattedrali nel deserto, dove gli uomini sono scomparsi o ridotti a servi della “cosa”, al mantenimento del Behemoth che si ciba di corpi e anime.
Un film necessario, un’opera intensa che ci guarda e ci osserva e riflette (su) noi stessi, quello che siamo (diventati) e dove ci porterà tutto questo se non vi porremo rimedio in tempo. Ed è un peccato che alla Mostra di Venezia la giuria non si sia accorta della potenza iconica di questo grande film e non gli abbia concesso nessun premio che avrebbe potuto dare una maggiore risonanza a un’opera artistica di altissimo livello.
Antonio Pettierre
“Behemoth - Anteprima”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano dal 1 al 7 settembre 2016http://oberdan.cinetecamilano. it/eventi/behemoth-un-film- visionario-dalla-parte-degli- ultimi/
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