domenica, aprile 14, 2013
A proposito di: FIGHT CLUB, quattordicenne che fa domande (II)
"Fincher esprimeva qui un primo punto di vista eccentrico e lo faceva con chiarezza, senza enfasi, quasi con la rassegnata indifferenza di una consapevolezza tardiva che forse, col senno di poi ispessitosi in oltre un decennio, getta una qualche luce sul tono stizzito di taluni commenti apparsi sulla stampa, sulla generica accusa di "nichilismo" da parte di una società, la nostra, fortemente e volutamente nichilista: "l'insonnia di massa", l'apatia, l'aridita ' emotiva e in fondo la solitudine (vera patologia dei tempi), sono i tratti distintivi - anche se sempre rimossi dall'apparato rutilante dell'industria dell'informazione e dello spettacolo, dal moto apparente dei capitali e delle merci, dal benessere stratificato - del nostro vivere moderno. Un sistema talmente calibrato e compartimentato da escludere a priori ogni deriva ed ogni follia. Anzi, in grado di prevederle e riprodurle tutte, in un frustrante rimbalzare di promesse eternamente non mantenute ma sempre rinnovate, un gioco di specchi per cui guardarsi in genere vuol dire confermare l'immagine di se' nel mondo ma che talvolta può significare perdersi, ossia porre le uniche basi per una qualunque ipotesi di recupero. In questo senso "Fight Club" racconta ancora oggi qualcosa di tremendamente vicino alla nostra esperienza, qualcosa che non si fa mettere da parte dallo stratagemma per cui "si-sta-assistendo-solo-ad-un-film", come se tutto il resto per moltissimi versi già non lo sia... Le certezze su cui poggiano le vite degli uomini o almeno di quella parte di umanità che condivide la routine occidentale, formano alla apparenza un tessuto compatto e resistente (lavoro, solidità economica, famiglia, figli, oggetti, e su tutto una sistema sociale fatto di imperativi e rituali precisi), il cui scopo e' quello di restituire un'impressione di generica "completezza" (lo stesso protagonista sottolinea amaramente, dopo aver perso tutto nell'esplosione accidentale del suo appartamento, di essersi trovato sul punto di sentirsi "quasi completo": giacche costose, scarpe italiane, appartamento di proprietà, mobili minimalisti, arredi impersonali ma stilizzati, condimenti biologici et.). Quando le certezze cedono non resta che soccombere al dolore e allo smarrimento. O combatterli. L'oscuro impiegato trova il modo di lenire la disperazione guardando in faccia quella degli altri. Prendendo a seguire le riunioni di certi gruppi di sostegno per malati terminali, accade il miracolo: ritorna il sonno e la sua momentanea liberazione. Almeno fino a quando non irrompe sulla scena la figura stralunata, il caso umano insolente e pedante interpretato dalla Bonham-Carter, la cui "filosofia di vita si può riassumere brevemente: possiamo morire da un momento all'altro. Peccato che non succeda mai". Svanita la sensazione di autenticità derivante dalla prossimità con un dolore autentico la cui primitiva purezza e concretezza spezza la finzione quotidiana e l'inerzia, sporcato l'"incanto" dalla manipolazione e dal raggiro, tutto ripiomba nel prevedibile, nell'artefatto. Suona falso. Il sonno scompare di nuovo.
"Fight Club" a questo punto insinuava - e insinua ancora - un'altra verità poco piacevole: in un mondo in cui la felicita e' stata quantificata, monetizzata, venduta ogni giorno dalle pagine dei giornali, dai mass-media in genere, dai miraggi della pubblicità, persino istituzionalizzata (ricordiamo il "pursuit of happiness", parte integrante della carta costituzionale americana), solo attraverso la consapevolezza del dolore, del dolore fisico in particolare - tesi peraltro non nuova, sottolineata sul versante narrativo (Palahniuk) quanto in parte sovraesposta su quello filmico (Fincher) - si può contenere il dolore più grande di una vita gratuita e senza scopo. Proprio il contrario di ciò che un modello fondato sulla semplice accumulazione dei beni predica incessantemente da più di mezzo secolo ormai. Ed era proprio Brad Pitt (da poco al centro della scena, chiamato in causa dal protagonista al momento della perdita improvvisa di ogni avere) a sbattere in faccia al suo contraltare e a noi - con i suoi bei lineamenti di sano ragazzo americano da copertina, con la sua faccia da spot pubblicitario, ovvero col suo essere la quintessenza di quello stesso mondo che il film nel frattempo sta demolendo (altro sapido paradosso) - il pericoloso sarcasmo di frasi come: "Non ho paura della fine del mondo, della miseria, della morte. Io sono assediato dagli stili di vita, dalle facce che mi spiano ogni giorno dalle copertine dei settimanali (facce come la sua... ndr), dalla televisione con cinquecento canali, da un tizio che mette il suo nome sulle mie mutande. Devi ficcarti in testa che tu non sei gli oggetti che compri. Perché, alla fine, ciò che possiedi, ti possiede. Ti ossessiona...". E lentamente l'ossessione accompagna il film in una dimensione notturna, quasi onirica - caratterizzata da una pioggia battente, da una specie di umidità perenne che avvolge tutte le cose - all'interno della quale il primo scontro a mani nude tra i due (o meglio, tra le due parti della stessa personalità), sul piazzale deserto di un fetido bar, prende i toni di un rituale iniziatico, volto alla conquista permanente di quel dolore fisico tramite unico per poter sentire ancora pulsare la vita, invece che assistere da spettatore passivo alla sua recita anestetizzata. Siamo ad una sorta di torsione definitiva della coscienza che vuole essere attiva prima di una fine data sempre per imminente. Il gioco di sdoppiamento delle due figure principali tra cui oscilla sempre più smarrita quella femminile, segue le tappe della diffusione di questo nuovo virus all'interno del corpo sociale denominato "Fight Club". Norton/Pitt fonda il primo circolo, niente di più che un'accolita segreta di individui pronti a battersi non tanto per sconfiggere l'avversario ma per ridurre l'intimo senso d'inutilità, la frustrazione, il rancore che aleggia intorno ad un'esistenza insignificante. Le immagini dei combattimenti non lasciano nulla all'immaginazione (a tutt'oggi possono definirsi più che brutali) e il frequente soffermarsi delle inquadrature sulla maschera di sangue, pesta e gonfia, della faccia di Pitt - uno dei "belli" per antonomasia dell'immaginario mondiale - chiarisce l'intento di Fincher (e di Palahniuk) di svelare l'artificio e la malattia che corrode da dentro il sistema stesso di costruzione di questa mitologia della bellezza, frattaglia di lusso della "nuova carne" annunciata da Cronenberg in "Videodrome", (1983), leva per interessi colossali, oltre la quale si cela il vuoto degli stimoli, di fantasie che non siano indotte, la carenza del nostro stesso ideare moderno, incapace ormai di generare altro che non sia stato già prodotto e riprodotto, visto, rivisto, (pre)visto, quindi privo di contraddizioni, pacificato a priori, inefficace e in fondo consolatorio. Diventa così più facile comprendere - tenendo presente che stiamo parlando di un'opera tutt'altro che perfetta, di un film a volte squilibrato (soprattutto nella seconda parte), non privo di eccessi e semplificazioni, che paga il suo pedaggio ad una sorta di compiacimento "estetico" del truculento come ad una frenesia un po' confusionaria per l"assertivo" e l"esemplare"- l'ostilita ' di un pensiero, anche specialistico, placidamente adagiato su posizioni dal vago sapore "autoriale" o di mero intrattenimento, in realtà sotterraneamente contrariato dal sospetto che il mondo vero, quello "reale", si sia incamminato - e non da ora - su una china non dissimile da quella descritta nella "finzione" letterario-cinematografica. Come che sia, solo dopo un'ottantina di minuti il film si fa più spettacolare, quindi più debole. La setta segreta del "Fight Club" si espande a macchia d'olio in giro per gli Stati Uniti e si trasforma in un'organizzazione paramilitare di sabotatori anticapitalisti. Progressivamente il tipo umano interpretato da Norton capisce che qualcosa gli e' sfuggito di mano: scopre l'identificazione che gli adepti fanno tra la sua persona e quella di Pitt e si rende conto di aver dato via libera a quella parte di se' che il mondo ordinario non interpella mai, anzi tende a reprimere. La parte disincantata, amorale, insofferente alle discipline, unicamente e totalmente libera, la quale, per conservare la propria "pura" irresponsabilità non esita a distruggere. E distruggere vuol dire anzitutto eliminare - con un sinistro esercizio profetico, visti gli sviluppi della più attuale cronaca - i simboli della "libertà" e del "progresso" che sono anche i segni della costrizione e della gabbia sociale: i grandi grattacieli delle multinazionali, le banche, le sedi imponenti delle "corporations", le reti televisive. Tutto crolla rapidamente, inevitabilmente: sembra daccapo un sogno... Come il film stesso, in fondo, ne' più ne' meno che un viaggio dentro la nostra parte inconfessabile, sempre nascosta e temuta ma sempre al lavoro. Non a caso tutto si apre e si chiude su una pistola che esce di bocca e su un proiettile che perfora una mascella.
Il dolore ci riconsegna a noi stessi, tacita la parte oscura ma d'ora in poi niente sarà più lo stesso. Il mondo e' in frantumi: solo la condivisione può aiutarci a resistere (in tal senso va letta l'immagine finale di Norton e della Bonham-Carter mano nella mano). O forse no, diciamo adesso. La fine c'è già stata, l'apocalisse e' passata da un pezzo. Semplicemente, non ce ne siamo accorti, presi come eravamo/siamo dal flusso, dalla morbida euforia indotta dal passare da una scala mobile all'altra di questo immenso parco a tema che e' il volto/immagine del mondo, con tanto di catastrofe incorporata. Una catastrofe al giorno. Tante piccole catastrofi. E poi ricominciare. Ancora. Forse.
"Fight Club"
di: D. Fincher.
con: E. Norton, B. Pitt, H. Bonham-Carter
- USA 1999 -
135 min.
TFK
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