lunedì, aprile 16, 2018

IL PRIGIONIERO COREANO

Il prigioniero coreano 
di Kim Ki-Duk
con Ryoo Seung-Bum, Lee Won-Geun, Choi Gwi-Hwa
Corea del Sud, 2016
genere, drammatico 
durata, 114’


Nam Chul-woo è un povero pescatore nordcoreano che nella sua barca ha l'unica proprietà e l'unico mezzo per dare da mangiare a sua moglie e alla loro bambina. Un giorno, mentre sta occupandosi delle reti, si blocca il motore in prossimità del confine tra le due Coree e la corrente del fiume lo trascina verso la Corea del Sud. Qui viene preso sotto controllo delle forze di sicurezza e trattato come una spia. C'è chi non rinuncia all'idea di poterlo convertire al capitalismo, lasciandogli l'opportunità di girare, controllato a distanza, per le strade di Seoul.
Kim Ki-Duk torna al suo cinema delle origini, quello che lo fece conoscere al pubblico di tutto il mondo per l'attenzione che prestava agli emarginati dalla società e per la durezza di alcune situazioni portate sullo schermo.
Lo fa con il suo film forse più esplicitamente politico, destinato a non piacere né sopra né sotto al 38° parallelo. Si può essere certi che al Nord non lo vedranno mai, ma di sicuro anche al Sud non avrà vita facile. Il regista ha la consapevolezza di proporre una lettura decisamente scomoda per entrambe le parti in causa.
Il povero pescatore, colpevole solo di non aver voluto perdere, salvandosi a nuoto, la propria barca, raggiunge quello che, per la propaganda del duro regime di Kim Jong, è l'inferno capitalistico dinanzi al quale bisogna chiudere gli occhi per non correre il rischio di esserne tentati. 

Nam Chul-woo crede nel regime e i funzionari sudcoreani, seppur divisi sul da farsi, non fanno molto per confutare le sue idee. C'è chi è dotato di un'arroganza di segno uguale e contrario a quella dei potenti del Nord e non mancano elementi deteriori della società, ad esempio la prostituzione, che inducono quest'uomo semplice a chiedersi in cosa consista la democrazia. Gli verrà risposto con una frase emblematica: "Dove c'è una forte luce c'è sempre anche una grande ombra". Si avverte in Kim Ki-duk il dolore per una separazione che, proprio grazie alla contrapposizione dei due sistemi, consente da un lato di mantenere un regime di terrore e dall'altro di sentirsi giustificati nel costruire una società basata sul sospetto di infiltrazioni, per cui ogni persona può essere considerata infida. Non si tratta qui di sole reti da pesca ma di due reti ideologiche contrapposte che, di fatto, si sostengono a vicenda per perpetuare il controllo del potere.
Riccardo Supino

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