martedì, febbraio 13, 2007
Blood Diamond - Diamanti di sangue
I film di Edward Zwick hanno l’imprevedibilità e lo spessore psicologico paragonabile ad un album di figurine: come definire altrimenti la caratterizzazione stereotipata e bidimensionale del personaggio principale ed i prevedibili quanto poco interessanti sviluppi di un film che avrebbe bisogno di ben altro manico per dare voce alle sanguinose vicende ed ai compromessi politici collegati al traffico illegale di diamanti. Dell’assunto di partenza resta ben poco, mentre rimane per la gioia dei critici mai così adoranti nei confronti del divo, la faccia di gomma e la presenza onniscente di Leonardo Di Caprio alle prese con un personaggio sulla carta complesso e interessante per la gamma emotiva messa in gioco e le implicazioni politiche e sociali delle sue scelte. E’ quindi un peccato che l’interpretazione risulti improbabile e poco efficace, tutta concentrata ad enfatizzare una virilità ed un sostrato psicologico che non appartengono al repertorio dell’attore Hollywoodiano; calato in una realtà da ultimo minuto e messo a nudo da una serie di circostanze che lo portano a dubitare sulle scelte di una vita, il protagonista non riesce neanche per un attimo a diventare vero, a creare la magia dell’immedesimazione che fa dimenticare la dimensione filmica. I pugni sbattuti sul bancone del bar e gli improvvisi cambi di umore , gli sguardi modello Casablanca e certe accelerazioni sul piano del ritmo narrativo appaiono programmati ad arte da un copione che pensa più alla ricerca del consenso che all’approfondimento delle ragioni che motivano il film. Che Zwick non fosse un regista capace di chissà quale arte era una cosa risaputa ma qui , tenuto anche conto della complessità del tema riesce ad andare sottomedia facendo sembrare le sue precedenti opere dei quasi capolavori.
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Vero come la finzione
La dimensione spazio temporale è un ostacolo nella comprensione del fine ultimo delle cose: questo concetto, quasi una religione nei 70 con le esperienze extrasensoriali di artisti ed intellettuali di varia estrazione sembra tornato in voga anche nel cinema con l’opera di registi come Jonze Gondry ed appunto Forster che attraverso un cinema stravagante e fuori dai canoni si immergono nelle nevrosi dell’uomo moderno alla ricerca di risposte che diano un senso ad un esistenza altrimenti fredda e disumana. Pur con le proprie peculiarità i nostri sono convinti che per rompere queste barriere e provare a capirci qualcosa sia necessario mischiare le carte e quindi non distinguere più tra sogno e realtà, arte e vita, riso e pianto; la vita ridotta a materia grezza diventa strumento vivo nelle mani del regista demiurgo che non senza dolore smaschera gli inganni, evidenzia le contraddizioni, oggettivizza i comportamenti, trova, forse, le soluzioni. Così succede anche in “Vero come la finzione”dove il percorso di oggettivazione si avvale dell’elaborazione creativa, in questo caso letteraria come strumento per sovvertire i normali parametri della realtà ed iniziare un viaggio ai limiti della sanità mentale in cui la perdità di sé è il male necessario per ritrovare se stessi e gli altri. Nel film che si avvale di un cast di fuoriclasse sposati alla causa emerge innanzitutto il binomio amore /thanatos vita/morte tanto caro al regista e mai come in questo caso mostrato in tutta la sua ineluttabile inscindibilità: il contrasto a prima vista evidente si ricompone a poco a poco in un unicum che è l’essenza stessa della vita che trova la sua piena realizzazione nell’unione delle sue mille manifestazioni. Il tema non è nuovo nella filmografia del regista ma qui appare finalmente centrato, spurio da sperimentalismi e titubanze che ne avevano in parte inficiato i risultati. Lo stile è diventato più sobrio, quasi geometrico nel disegnare le traiettorie geografico esistenziali di un personaggio che ha il merito di farci apprezzare la vena drammatica di Will Farrel capace di dar vita ad un Pierrot moderno che commuove e suscita ilarità grazie ad una mimica sottotraccia che è caratteristica dei cavalli di razza.
sabato, febbraio 10, 2007
The Departed - Il bene e il male
Alla luce della sua recente produzione "Al di là della vita" acquista nuovi significati e forse un valore diverso nella filmografia di Scorsese:testimonia il congedo da un processo creativo efficace dal punto di vista artistico ma logorante sul piano umano e personale. Forma senza sostanza;rumori di fondo e silenzio dell'anima, facce da copertina e titoli sui giornali,ritorni annunciati,incassi strepitosi.Questo non è Scorsese, è The Departed.
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Le luci della sera
Le luci della sera conferma semmai c’è ne fosse bisogno l’abilità di Kaurismaki di ricreare la realtà attraverso una stilizzazione che ancor oggi rimane inarrivabile: i luoghi frequentati dai suoi personaggi sono angoli di un illusione romantica non ancora arresa ai meccanismi freddi e meccanicistici della modernità, e capace di colpire al cuore attraverso un approccio diretto e spiazzante, che si ciba degli aspetti più prosaici della vita senza dimenticarne il senso più profondo, quello che permette anche agli ultimi del mondo di continuare a sperare in un futuro diverso e forse migliore. Ed è proprio nella capacità di fare poesia con gli scampoli di realtà che spesso appartengono al fuori campo di tanto cinema contemporaneo che è possibile ritrovare il talento del regista finlandese qui alle prese con un impianto filmico che si rifà al cinema noir americano degli anni 40 e 50 con il protagonista principale innamorato di una dark lady tanto bella quanto letale e immerso in un isolamento materiale e morale enfatizzato da una fotografia capace di ricreare atmosfere di Hopperiana memoria con pennellate di luce che spezzano e riscaldano di nostalgia struggente le geometrie ordinate e siderali di una Helsinki che non esiste. Laconici e del tutto privi di qualsiasi vigoria fisica, i personaggi sono ridotti ad un mutismo che non lascia dubbi sulla loro condizione esistenziale e si esprime con una recitazione al microscopio, giocata sulle impercettibili variazioni del volto e dalla posizione dei corpi all’interno della scena. In un quadro generale che si mantiene al di sopra della media spicca però una fragilità strutturale evidenziata da una trama al limite dell’inconsistenza ed una sceneggiatura che finisce per ripetere seppure con una certa classe idee e situazioni già viste che nulla aggiungono al percorso artistico di Aki Kaurismaki.
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venerdì, febbraio 09, 2007
Il vento che accarezza l'erba
Torna Ken Loach e con lui un idea di cinema militante che mantiene alto il livello di attenzione nonostante le molte battaglie; l’intermezzo interrazziale di “A Foed Kiss” che aveva fatto temere il suo addio alle armi era solo un pausa , peraltro ben utilizzata, allo scopo di prendere fiato e urlare il suo orrore verso la guerra. Il “Il vento che accarezza l’erba” è forte come un pugno allo stomaco, lucido come un referto patologico, appassionato come un canto di libertà. Dopo il prologo iniziale in cui un gruppo di ragazzi gioca spensierato nei prati verdi dell’Irlanda, il film cambia direzione consegnandoli ad un destino senza ritorno. L’insurrezione Irlandese diventa il paradigma di tutte le guerre; è la storia che non guarda in faccia a nessuno, quella che se ne infischia dei discorsi sui massimi sistemi e l’importanza dei valori e nel contempo avvelena l’umanità consegnandola ad un determinismo ottuso quanto atroce. Il un contesto di accuratezza filologica Loach non risparmia allo spettatore scene di forte impatto emotivo ma la sua telecamera riesce a raccontare quei momenti con il pudore dei grandi registi (citando Emanuela Martini quando parla di J.Ford a proposito del film Directed by J.FORD di P. BOGDANOVICH visto nella sua versione integrale al Festival di Torino)) e la potenza delle idee, vero punto di forza del suo cinema. Supportato da una sceneggiatura che fà chiarezza sugli avvenimenti evitando i facili schieramenti e la retorica delle grandi produzioni americane, il film conferma la capacità del regista di raccontare attraverso i fatti, dimostrando ancora una volta che il grande cinema può prescindere da budget spropositati. E la rappresentazione della morte nelle scene che aprono e chiudono la proiezione è sufficiente per unirci all’autore e dire basta una volta per tutte alla più crudele delle barbarie.
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giovedì, febbraio 08, 2007
I figli degli uomini
Le sorti di un umanità in rivolta e condannata all’estinzione dalla sua sterilità dipendono dalla sopravvivenza del bambino che una donna sta per dare alla luce; affinchè questo si possa realizzare è necessario che un uomo ritrovi se stesso abbandonando i fantasmi di un passato doloroso. Questo è l’assunto iniziale di una storia che guarda al futuro per farci vedere come siamo diventati; la città plumbea e putrescente sembra replicare nelle architetture anonime e le atmosfere apocalittiche quelle devastate dagli ultimi conflitti; dietro i rimedi violenti ed inutili dello stato fascista che nel film cerca di contenere l’anarchia dilagante si leggono la schizofrenia delle istituzioni contro il malessere dilagante. Cuaron è bravo nel mantenere la storia in equilibrio tra le vicende private dei protagonisti e quelle del mondo che li circonda riuscendo soprattutto nella seconda parte a catapultare lo spettatore al centro dell’azione con uno stile visivo degno di un combact film. In tutto questo risulta fondamentale l’apporto del reparto tecnico per il lavoro scenografico e soprattutto la fotografia day after di Emmanuel Luzbeki(The New World, Sleepy Hollow) punto di riferimento di quella generazione di cinematographer( autori essi stessi oltre che direttori della fotografia) sudamericani( Rodrigo Prieto, Affonso Beato) che si sta imponendo all’attenzione generale.Qui sorprende la capacità di adeguarsi ai limiti visivi imposti dalla concretezza del paesaggio, limitando campi lunghi e panoramiche, mantenendo inalterata nello spettatore la percezione di un mondo che vive oltre lo spazio filmico. Infine una citazione per Owen che presta la sua faccia sgualcita ed il carisma recentemente acquisito ad un operazione che certamente non esalta la sua fisicità ma certamente le sue doti recitative.
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lunedì, febbraio 05, 2007
La ricerca della felicità
Lo stato di salute di una cinematografia si misura dalla capacità di produrre film come “The pursuit of happines” che lungi dall’essere un capolavoro si attesta nella fascia del cosiddetto prodotto medio, tanto vituperato dagli Autori nostrani per la sua connivenza con gli aspetti più prosaici del processo produttivo ma capace per appeal commerciale di sovvenzionare i voli pindarici dei cosiddetti Artisti. Inoltre dimostra che anche una cinematografia asfittica e presuntuosa, legata ad un idea di cinema che non esiste più, può dare i natali a talenti genuini come Crialese ed appunto Muccino, capaci di coniugare l’indipendenza dello sguardo alle esigenze di una forma estetica sempre più decisiva per attirare il gusti di un pubblico lobomizzato dal chiacchiericcio mediatico a cui è sottoposto. Ed è proprio la forma l’aspetto vincente ed insieme il difetto del film di Muccino qui alle prese con una sceneggiatura non facile da trasporre sotto l’aspetto visivo per quel modo di rappresentare la felicità attraverso un percorso esistenziale solitario ed ascetico, in una società darwinista che esclude i più deboli ed esalta i sogni dei vincitori. Senza i consueti personaggi di contorno abilmente interpretati dal solito stuolo di caratteristi, in mancanza di una retorica anticapitalistica che il film evita fin da subito con una visione di fondo pragmatica ed insieme eroica che non lascia spazio ad atteggiamenti consolatori e facili sentimentalismi, il film poggia tutto sull’abilità di Will Smith di dar vita ad un agone che riesce a rendere credibile, attraverso una recitazione naturalista che lavora di sottrazione e senza i consueti isterismi la dignità e la disperata ostinazione che impronta la vicenda umana del protagonista ed alla capacità del regista di rendere in pellicola la città di San Francisco, l’altra grande protagonista del film che Muccino riesce a trasfigurare nel simbolo dell’american way of life senza venir meno alla necessità di una lettura realistica del paesaggio. Ed è un peccato che a tali qualità non corrisponda una resa emozionale parimenti efficace laddove la perfezione della cornice finisce per soffocare l’urgenza dei sentimenti lasciando una sensazione di generale freddezza
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