La scelta di Michael Mann di affidare la parte del
protagonista a Brian Hensworth, oltre a non essere sbagliata dal punto di vista
produttivo - tenuto conto dell'appeal commerciale del giovane attore, seguiva
una logica interna a tutta la filmografia di un regista che da sempre mette in men at work abituati a conquistarsi il soldo con il protagonismo della loro
fisicità. In questo senso dell'interptete australiano rappresentava addirittura
l'apoteosi di questa poetica per il fatto di detenere un immaginario costruito
soprattutto sull'evidenza di un corpo da body builder.
E' quindi paradossale che in "Blackhat" sia
proprio la figura dell'hacker incarnato da Hemsworth a far inceppare il marchingegno
messo a punto da Mann, mai come in questo caso diffettoso nel costruire la
griglia psicomotoria di un personaggio incapace di sintetizzare il binomio
d'avventura e filosofia che contraddistingue bagaglio imprescindibile dei suoi antieroi. Un
incidente di percorso che però segnala il momento di un autore in fase di
stallo, troppo ancorato al presente hollywoodiano per tentare il salto
definitivo all'interno di un flusso filmico in cui per ora solo Malick è stato
in grado di nuotare.
nickoftime
La forma sotto la quale si presenta l'ultimo lavoro di Mann
- al pari di una contemporaneità sempre più minacciosa e minacciata da sé
stessa - tende ad avvolgere/coinvolgere tutte le pedine mosse - o meglio
relegate in una stasi che ha il pregio di saper dare l'illusione che qualcosa
si sia mossa e ancora si muova - in un'atmosfera irrevocabilmente pessimista
che ha il pregio di dare gli imput che danno il via all'azione - da qui le
figure del pirata informatico/combattente a mani nude/ultimo amante neo-romantico
coincidono/si sovrappongono/non si ostacolano nel muoversi del protagonista
all'interno del narrato -. Diramandosi freneticamente al di là del bene e del
male, "Blackhat" è un'opera che, tralasciando i giudizi finali,
risulta essere inquietante almeno quanto ciò che ci circonda e, nonostante gli
sforzi, ancora non si riesce a notare oppure s'intravede appena.
Antonio Romagnoli
Nel gorgo di un continuum in cui il distacco dalle
componenti umane (legami/vincoli con i cicli naturali, in primis: il ritmo
circadiano, le pause ludiche, i momenti morti, quasi del tutto anche
gl'intervalli alimentari e sessuali) si e' già consumato e in maniera
in-dolente - ossia, al tempo, come sorta di scivolamento progressivo della
consapevolezza e per il consolidarsi di una insensibilità generalizzata - nella
forma di una spessa catalessi tanto sfavillante in apparenza, quanto irremovibile
nella logica di fondo (caratteristica già sottolineata con acutezza da Marcuse,
oltre quarant'anni fa: "Al di sotto della sua ovvia dinamica di
superficie, questa società e' un sistema di vita completamente statico, che si
tiene in moto da solo con la sua produttività ossessiva"), il cosiddetto
reale si e' riconfigurato secondo i ritmi dilatati di una sequenza lisergica a
base di stimoli sofisticati e, coerentemente, spersonalizzanti, intorno alla
quale il mondo (ciò che ne resta ? La sua allucinazione ? I prodromi di una
versione ennesima ?) si rattrappisce a sfondo sempre e solo utilizzato - i
manufatti, i luoghi, le stesse idee che, nella prassi, ciò che fanno e'
gestirlo - a dire, non più vissuto, sede cioè della possibilità di creazione e
condivisione di analogie, racconti, illusioni (il sentimento-del-mondo).
Medesimo meccanismo sostanzia il rapporto con il Denaro, metro unico
d'interpetazione di ciò che e' fruibile, giustificazione/alibi di qualunque
gesto, il godimento del quale non e' più contemplato - la sua accumulazione in
vista dell'essere speso e, perché no, sperperato - ma il cui valore si misura a
partire dalla di lui più o meno agevole tendenza ad essere spostato o
trasformato in altro denaro, in una circolarità così facile, silenziosa,
levigatissima, da illudere (per quanto ancora ?) circa l'inesistenza di un
risvolto, l'altra faccia, atteggiata come non mai a trappola senza vie
d'uscita.
Entro tale mesto disinganno ma con un occhio già a sbirciare
oltre, s'incontra la frammentazione di Mann, del suo Cinema - mute panoramiche
su un vuoto che non e' più metafora di nulla ma regno stesso dell'esperienza;
tregue rabbiose di una passione residuale e sempre mutilata (Laforgue, ma
sembra sentire parlare proprio Mann: "Si può ancora amare, ma darsi con
tutta l'anima e' una felicita' che non si ritroverà mai più"); minuti
febbrili e spossati spesi nell'attesa che si compia ciò la cui inevitabilità (e
responsabilità) si perde oramai in un territorio sconosciuto al di la' della
definizione di controllo: energie profuse nel (vano) tentativo di contrastarlo
comunque... - quel tante volte ricordato romanticismo-fuori-tempo-massimo, che
più che una via di fuga, anche cinematografica, e' una indifesa follia,
un'insolenza, in "Blackhat" addirittura più avara di parole, più
smarrita, disperata (pressoché nessuno si salva in un film di Mann), a
ribadire, con insolita coerenza e stilisticamente almeno a partire da
"Insider", la deriva/sentiero obbligato parallela, non ancora
stabilizzata, al trans-umanismo cronenberghiano, invece già in avanzato stato
di mutazione fisico-psichica. Nella cornice/pretesto di uno scenario che ancora
si avvale (di cascami, a questo punto, fallimentari) dei generi - avventura,
azione, cospirazione globale, et. - Mann declina e amplia la sua antropologia
digitale fatta di "corpo allenato, mente lucida" e, alle strette,
"bassa tecnologia", sconfessando a colpi di testardaggini inutili
(quindi davvero imprevedibili) e solitudini accettate e magari assaporate in
due prima di sparire, la parassitosi binaria che sancisce, a mo' di
dichiarazione beffarda d'intenti, "Io non so chi sono, cosa faccio, in che
paese mi trovo... Assumo del personale per le parti sub-simboliche" (gli
slanci, gli affetti). Viene quasi da se', allora, rimanere, ancora, al modo di
Hathaway/Hemsworth, per stringere fra le braccia una piccola testa e la sua
nuvola di capelli ultra-neri, come per carezzare a lungo e piano sottili dita
cinesi.
TFK
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