lunedì, febbraio 28, 2022

DRIVE MY CAR

Drive my car

di Ryūsuke Hamaguchi

con Hidetoshi Nishijima, Tôko Miura, Masaki Okada

Giappone, 2021

genere: drammatico

durata: 179’

Una vera e propria perla cinematografica quella di “Drive my car”, film diretto dal giapponese Ryūsuke Hamaguchi e da molti definito, a ragione, come il film dell’anno.

Tre ore di completa e totale immersione in un altro mondo. “Drive my car” riesce nell’impresa che la settima arte si è da sempre prefissata e continua a prefissarsi: far evadere lo spettatore dalla realtà che lo circonda per la durata della proiezione. Caratterizzato da un silenzio quasi assordante che percorre l’intera storia, sia nel “prologo” che nel presente, il film di Hamaguchi ha tutte le carte in regola per rimanere impresso nella mente degli appassionati (e non solo) per molto tempo. Al centro della storia c’è Yusuke, regista teatrale che, a seguito di importanti perdite che segnano inevitabilmente la sua vita, decide di recarsi a Hiroshima per mettere in scena lo “Zio Vanja”. Qui entrerà in contatto con una giovane e silenziosa autista che avrà il compito, tutt’altro che semplice di accompagnarlo sia fisicamente che metaforicamente tra le strade di Hiroshima e tra i ricordi, compresi quelli più “bui”. Analizzare un film del genere è tutt’altro che semplice.

A colpire, oltre al continuo silenzio delle scene, dei personaggi e del protagonista, spesso “solitario”, è anche l’ambientazione che si collega proprio a questo e a una sensazione di solitudine che deve portare e porta a una profonda riflessione.

I paesaggi sembrano spenti, privi di “accessori in più”, quasi anonimi, come se volessero, in qualche modo, omologarsi al protagonista stesso del quale, invece, l’unico elemento a emergere è la macchina rossa, coprotagonista a tutti gli effetti della narrazione e dell’evoluzione stessa di Yusuke. La macchina è l’unico luogo in cui lui si apre veramente mostrandosi per quello che è senza veli o maschere. È grazie alla macchina che riesce ad accettare e superare paure per lui insormontabili. Ed è in macchina che entra in relazione con la giovane e riservata autista. Attraverso il mezzo i due si conoscono e instaurano una sorta di “relazione” che permetterà loro di conoscersi a vicenda e di conoscere se stessi.

Emblematico è poi il ricorso continuo al bianco. Da una parte simbolo che tutto quello che circonda i personaggi è “anonimo” e che si annulla praticamente con il colore più neutro per eccellenza; dall’altra simbolo di candore, a sottolineare lo stile di vita che conduce il protagonista a seguito delle importanti perdite della sua vita. In netta contrapposizione soprattutto con la lunga sequenza iniziale che sembra orientare lo spettatore in una direzione, ma che invece rompe, in qualche modo gli schemi, portandolo da tutt’altra parte. Ed è una sequenza nera, scura, cupa che nasconde i personaggi, perennemente in ombra.

Tornando al discorso relativo al silenzio, è necessario sottolineare quanto, però, in realtà questo specifico silenzio sia un modo che ha lo stesso Ryūsuke Hamaguchi per parlare e per far parlare. E poi si avvale, in maniera astuta, del testo teatrale. In realtà fa parlare i personaggi dell’opera e le battute dello “Zio Vanja” vengono utilizzate per comunicare più di quanto sembri.

Un film dentro il film, dove la recitazione e la preparazione di un’opera teatrale rappresentano, invece, una buona parte della sceneggiatura e vengono utilizzate per “affermarsi”. La recitazione non è solo quella degli attori interpreti dei personaggi del film, ma c’è un’ulteriore recitazione, quella dei personaggi che ne interpretano altri a loro volta.

E il verbo recitare va di pari passo con altri tre: parlare, ascoltare e guidare. Che sono i verbi che lo spettatore deve seguire per guardare e gustarsi al meglio questo film.


Veronica Ranocchi

2 commenti:

Babol ha detto...

Ne riconosco il valore artistico, ma mi ha coinvolta davvero poco. A mio avviso, una durata minore avrebbe giovato parecchio.

nickoftime ha detto...

@Babol effettivamente la durata non aiuta e forse qualcosa si poteva "tagliare" per agevolare la visione. Anche se pensavo peggio come "pesantezza" -Veronica