lunedì, aprile 12, 2010

GREEN ZONE

GREEN ZONE
regia di Paul Greengrass

Le ragioni del cuore e quelle del portafoglio come "essere o non essere" di un regista costretto a confrontarsi con il Moloch della grande produzioni.
Il dilemma, esistenziale e poi artistico, è sì la conseguenza di una volontà che fatica ad adeguare la propria indipendenza alle ragioni del mercato, ma per quanto ci riguarda è la causa principale di una involuzione che Green Zone rende palese. Fino a quando le ragioni del cuore si sposavano con la necessità di una nazione in cerca di risposte, il combact cinema di Paul Greengrass era un arma micidiale e non retorica per documentare la situazione contingente, poi, con l’affievolirsi delle spinte emotive e la Svolta presidenziale, al regista sembra mancare il contraltare capace di giustificarne le caratteristiche inquisitorie e giornalistiche.

Così Green Zone, partendo da un presupposto di verità, la ricerca delle armi di distruzione di massa all’indomani della conquista di Bagdhad, si sforza di conciliare l’estetica e le dinamiche del cinema bellico di ultima generazione con le istanze del cinema d’inchiesta.
Il tentativo lodevole ed in parte riuscito almeno a livello di scrittura, viene completamente sconfessato dalle immagini che neanche per un momento riescono a realizzare l’agognata sintesi: manicheo a cominciare dalla sua struttura, organizzata sulle barricate di un confronto che oppone buoni e cattivi, tecnologia ed umanesimo, ragion di stato ed integrità morale, il film con nevrosi omnicomprensiva accumula situazioni e punti di vista, provando a riflettere su quello che viene mostrato, ma viene sopraffatto dall’ennesima dimostrazione di potenza.
Ed è proprio la ricerca di equilibrio unita alla volontà di dare spazio a tutte le parti in causa, americani ed iracheni, giornalisti e politicanti, ad annullare l’emotività di un opera che vorrebbe essere spregiudicato ed è invece di maniera.
Simile ad un film di Tony Scott senza averne il vitalismo, Green Zone arriva alla Storica conclusione, con una resa dei conti piena di inseguimenti e polvere da sparo, consegnando allo spettatore un finale di rara ambiguità, con l’eroe che, dopo essersi sporcato le mani, prende le distanze dal misfatto allontanandosi verso la nuova frontiera, novello John Wayne di un paese senza memoria; sequenza ricorrente in molto cinema americano, ma qui totalmente inappropriata per il tipo di retorica che la contraddistingue.
A margine l’interpretazione di Matt Damon, evidentemente a suo agio nel ruolo del buon soldato ed ancora alle prese con un interpretazione ridotta ad un'unica espressione.

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