Io sono l'amore
di G. Guadagnino
L'arte come forma suprema di presunzione ed una diversità che si traduce in aristocratiche lontananze, sono l’espressione di un artista abituato a confondersi tra le continue variazioni del suo cinema; e così dopo la rappresentazione edulcorata di uno scandalo di cartapesta, Luca Guadagnino costruisce la sua opus magna celebrando la storia di una metamorfosi familiare ed economica, analizzata attraverso le vicende della famiglia Recchi, prototipo di quel ceto borghese e mercantile che si affaccia al nuovo secolo con il prestigio costruito sulle dinamiche di un sistema di scambio in estinzione, eppure sufficiente ad assicurargli posizioni di rilievo.
Partendo dalla rappresentazione di un mondo autoreferenziale e chiuso a qualsiasi cambiamento, il regista mina le certezze dei suoi componenti sincronizzando gli scarti del disagio psicologico con quelli relativi al depauperamento della tradizione a favore della nuove logiche commerciali.
Che si tratti di un infelicità a lungo sottaciuta ed improvvisamente venuta a galla, oppure della differenza di vedute a proposito di una trattativa finanziaria, a farne le spese sono gli anelli deboli di una catena che, al di là delle singole ribellioni e dei lutti dolorosi non prevede altro copione che la perpetuazione di una specie umana vinta dalle proprie ossessioni e corrosa da una morale che privilegia la forma alla sostanza.
Se la fine è nota, Guadagnino si gioca le sue carte avvolgendo i protagonisti all’interno di una dimensione temporale eternamente sospesa e dilatata secondo i rituali del potere, lasciando che ogni singola tenzone sia il risultato di una selezione naturale determinata dall’onnipresenza di regole non scritte, ma perpetrate secondo le usanze di un ambiente che non risparmia niente in fatto di freddezza e disincanto.
Tenuto insieme da una colonna sonora che è insieme strumento di indagine e propaggine drammaturgica, "Io sono l’amore" è un trionfo di nature morte a cominciare dalla casa/magione in cui si celebra la vita del casato, elemento fondativo e specchio di un immobilismo che è prima psicologico e poi materiale, e ancora con gli elementi centrali della storia, gli interni, caratterizzati da una linearità destinata ad entrare in collisione con le pulsioni scatenate dal motivo centrale della vicenda, il cibo, vettore di uno sviamento che prende la gola e poi i sensi, e la protagonista principale, presenza impalpabile ma decisiva, la cui funzionale ornamentale, enfatizzata dalle continue vestizioni a cui viene sottoposta da parte del marito e della governante, funge da vero e propria oggetto deflagrante nella parte centrale del film, quella in cui, complice il pasto galeotto, assistiamo ad un deragliamento dei sensi che assume le sembianze di un sogno ad occhi aperti.
Guadagnino è perfetto nell’alternare eccessi e sottrazioni, ed anche quando, nella seconda parte, il film rischia di perdere ritmo, dilungandosi in un trionfo panteistico che diventa didascalico, per la preconfezionata presenza dell’elemento naturale, oppure per il defilamento ingiustificato di alcuni comprimari, il regista riesce a portare a casa il risultato grazie ad un arbitrio assolutamente fedele a se stesso.
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