Greemberg
regia di Noah Baumbach
Due pesci nello stesso acquario non è detto che vadano d’accordo: spazi da condividere e la difficoltà di riconoscersi nell’altro possono essere un problema. Harry (Greemberg) e Florence sono proprio così, immersi in un microcosmo di apatia che li separa dal mondo e da se stessi. Una dimensione autistica che il film rende evidente fin da subito, presentandoci le rispettive distanze attraverso immagini semplici ma dirette: lui arroccato dentro la villa del fratello nel quale dovrà smaltire i postumi di un esaurimento nervoso, lei all’interno di una macchina che attraversa la città: l’occhio del regista li segue nel loro agire impacciato, assecondando le linee di gesti continuamente ripensati: due bolle d’aria sul punto di esplodere se non fosse per la paura di doversi confrontare con quello che c’è fuori. Il loro incontro è tanto casuale quanto necessario a definire un esistenza altrimenti destinata a reiterare l’anonimato di lavori che non sono tali (lui musicista fallito ed ora carpentiere, lei impiegata a tempo pieno del di lui fratello) ed il vuoto di amori andati a male.
Ultimo capitolo di un'ideale trilogia ("Il calamaro e la balena", "Margott at the wedding") , Baumbach completa il suo percorso cognitivo con un film che radicalizza i temi e le nevrosi già presenti nei precedenti lavori. Se nella prima fase la famiglia e le sue dinamiche erano rappresentate all’interno di un panorama istituzionalizzato ed in fin dei conti ancora valido, seppure indebolito nella sue figure dominanti (padri madri, mogli e mariti sono sempre sotto tutela), qui il processo di detrimento condiziona i personaggi non solo in termini sociali, privandoli dei normali punti di riferimento, ma anche a livello psicologico, togliendo loro qualsiasi spirito d’iniziativa: Harry e Florence appaiono così catapultati all’interno di un palcoscenico dove tutto il resto, gli amici, le ex mogli, e quel che resta del consesso familiare non sono altro che un espediente per dare voce alla propria coscienza e rileggere il passato alla luce delle nuove consapevolezze. Ne deriva una sorta di seduta psicanalitica che non risparmia nulla e nessuno, e fa tabula rasa di ogni compromesso. Greenberg diventa allora un “Drugo” privo di umorismo, un Savonarola destinato a portarsi dietro le stimmate della propria insoddisfazione. Il finale aperto e lo spiraglio di un nuovo inizio riescono solo in parte ad allentare la sensazione di una realtà senza scampo.
Alla stregua di molti registi della nuova generazione, anche Baumbach gira con un occhio rivolto al cinema americano degli anni '70, a cui ruba non solo l’attenzione maniacale nella costruzione psicologica dei personaggi ma anche la tendenza ad analizzare la società americana attraverso l’esemplarità dei personaggi che descrive: ed anche questa volta lo fa appoggiandosi ad una sceneggiatura estremamente dialogata e con una direzione attoriale che punta molto sulle differenze fisiognomiche (il corpo da amazzone di Florence e quello gracile e nervoso di Harry) e sulla capacità di Ben Stiller di far convivere una popolarità prettamente comica all’interno di un personaggio lontano da quel temperamento. Lo straniamento che ne deriva insieme alla capacità di traghettare lo spettatore all’interno di un mondo a compartimenti stagno, completamente impermeabile ai cambiamenti della storia, sono al tempo stesso il pregio ed il limite di un film che rischia l’autoreferenzialità.
23/08/10
Recensione pubblicata su ONDACINEMA
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