mercoledì, aprile 20, 2011

Habemus Papam



Tra realtà e rappresentazione.
Da un lato la condizione dell’uomo vissuta all’ennesima potenza, per quel senso di solitudine che da sempre lo attanaglia, e che qui diventa il segno più evidente del suo isolamento esistenziale, dall’altro il suo opposto, per la presenza di un rito collettivo necessario a ribadire un identità altrimenti latente.
L’interiorità messa a nudo dalle maschere che dovrebbero rivestirla.
L’annuncio del conclave porta a galla la paura di non riuscire a soddisfare le attese, acuendo il divario tra verità e finzione.
L’annunciazione della formula cade sull’uomo che ne è oggetto con la forza di un responso inaspettato. Lo va a snidare dal suo dolce torpore per consegnarlo nelle mani del sinedrio. Habemus Papam diventa il maleficio con cui estirpare le ultime tracce di una personalità di cui non c’è più bisogno.
Melville, questo il nome del prescelto, non esiste più. Il cardinale è diventato Papa. Ma la nevrosi sta proprio lì, nella dicotomia tra essere e non essere, nel dubbio amletico che la vicenda incarna nello smarrimento del suo protagonista ed esplicita attraverso i tentativi messi in atto per riportare la pecora all’ovile.

Il film è tutto qui, perché la "commedia umana" di Moretti non si addentra nei meccanismi del potere, ne perde tempo ad illustrarne le cadute, ma usa l’ambiente ed i suoi orpelli per far parlare gli uomini. E se la politica come passione personale non poteva non coinvolgere, trascinando il suo regista nel guado degli schieramenti e delle opinioni, Habemus Papam, camminando in territori culturalmente noti, ma estranei al vissuto dell’artista, riesce finalmente a consegnarci un Moretti senza paraventi.
In questo senso la matrice autobiografica, imprescindibile nel cinema del regista e punto di forza di un discorso metabolizzato dall’esperienza personale, si ripresenta con maggior vigore nella figura del Cardinal Melville, cinematografica a cominciare dal nome, che pur con i dovuti distingui aggiorna il percorso di un predestinato chiamato come il prelato del film a salvare le sorti di un'altra "istituzione".

"Avrei voluto fare l’attore" dice il protagonista interrogato da chi cerca di scavare nel suo inconscio e poco dopo, nel corso di una fuga che rasenta il sogno, si lascia estasiare dalla malinconica affabulazione di una rappresentazione cechoviana per arrivare ad una sorta di catarsi – il Papa è stato ritrovato ma le sorprese sono lungi dall’essere terminate - nel teatro in cui si svolge la piece, con i cardinali del conclave finalmente riuniti al loro vate in una ritrovata armonia. Rimandi evidenti ma scontati se non fossero doppiati da una serie di dinamiche e situazioni simili al working progress di un set, con il capitano e la sua ciurma, in questo caso il papa e la sua comunità in costante antagonismo ed indirizzate verso direzioni opposte (definizione coniata con altre parole da Federico Fellini), ed ancora nell’ evidenza che il balcone della proclamazione, terminale conclusivo di tale allestimento, altro non sia che la quinta di un grande palcoscenico.

E che dire dei vuoti di memoria, dell’improvvisa incapacità di esprimere la pur minima opinione, dell’empasse da prestazione che appartiene al prelato così come, almeno per un momento, a colui che è chiamato a confermare il proprio talento di fronte ad una platea incapace di sopportare il fallimento.
Melville diventa allora un Barton Fink morettiano ed a sua volta la proiezione del regista e della propria indipendenza, del diritto di parlare o di tacere, a dispetto degli altri e delle loro aspettative.
E se alcune implicazioni sono impossibili da evitare (i riferimenti al ruolo della Chiesa nella società e la messa a nudo dei suoi limiti attuali), è l’andamento del film ad allontanarsi progressivamente da dov’era cominciato, rifugiandosi nelle strade di Roma e nei luoghi della sua socialità, oppure architettando un gioco delle parti in cui centra pure il metacinema (già attivo con la presenza del teatro come elemento che fa progredire la storia) e che serve ai due protagonisti, il Papa e lo psicologo, un campo d’azione inversamente proporzionale alla loro natura ed al loro credo, con il primo libero di confrontarsi con la gente comune ed il secondo relegato e quasi costretto ad una vita segregata e religiosa.

Le mura del Vaticano e ciò che gli sta dietro si svuotano d’importanza, diventano un luogo della rinuncia, dove nulla si compie, neanche una partita a Pallavolo organizzata dallo psichiatra (un Moretti in versione tragicomica) inutilmente convocato per esorcizzare i fantasmi del Santo Padre.
Al contrario è altrove, lontano da Dio, che le cose giungono alla loro conclusione e dove forse la vita può ricominciare.

Chiamato a confermare il proprio ruolo, e dovendo fare i conti con il peso di una maturità che è soprattutto una presa di coscienza sull’impossibilità delle Utopie, Moretti sceglie la strada più impervia, non solo per la presenza di un Istituzione religiosa poco incline a guardarsi in faccia con gli occhi di un altro, ma soprattutto per la difficoltà di tenere insieme pubblico e privato, memoria collettiva e diario intimo.
Il risultato è un opera indecisa, dubbiosa nello stile (alla sontuosità della messa fa riscontro la semplicità delle inquadrature) e nel suo svolgimento, che risultano piuttosto frammentato, quasi facesse fatica a tenere le cose tutte insieme.

Le "famiglie" di Moretti – della psicologa, della compagnia teatrale e dei confratelli - differenziate nelle funzioni ma non nella sostanza, appaiono universi uniti da un arbitrarietà forzata per movimentare una faccenda che rischia di ruotare su se stessa per la volontà di non spiegare.
La sospensione del giudizio rende evidenti certe ripetizioni (la sindrome da carenza affettiva ripetutamente spiegata ma anche la trovata di una competizione sportiva portata alle lunghe da un enfasi eccessiva) e fa rimpiangere allo spettatore i minuti rubati al mattatore, quelli in cui il Moretti attore, mani dietro la schiena e camminata filosofica torna ad essere se stesso, pungente ed efficace nella sua vena dissacratrice.

Il clamore attorno ad eventuali mancanze di rispetto è, come al solito in questi casi, totalmente ingiustificato.

2 commenti:

Fabrizio ha detto...

Quello che più mi è piaciuto di questo film coincide con la critica che più di tutte è stata rivolta a Moretti. Vale a dire quella di non aver scavato nei pensieri del neo pontefipe, di non aver approfondito, di non aver affrontato con decisione il dramma del Papa. A me è parso come se Moretti avesse voluto "lasciare in pace" il Papa, tenerlo lontano da presenze ingombranti e protocolli rigidissimi, per darli la possibilità di riflettere e starsene da solo.
Una parola sul cast, reso solidissimo da caratteristi di sicuro affidamento (cosa che non accade spesso nel cinema italiano) come Renato Scarpa, Roberto Nobile e Camillo Milli, l'indimenticabile Borlotti, presidente della Longobarda allenata da Lino Banfi-Oronzo Canà.

Anonimo ha detto...

..la bellezza del cinema ed in generale dell'arte risiede proprio nella differenza dello sguardo...nella capacità di saper trovare tesori che altri credevano inesistenti...proprio l'altro giorno leggevo l'opinione di Alespiet ne Cinemadadenuncia a proposito di The next three days...ebbene l'ho trovata cosiì vera...affascinante nonostante il suo giudizio fosse lontanissimo dal mio...
un saluto

nickoftime